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cpettine
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domenica 28 febbraio 2016
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la prospettiva dello scarafaggio
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Rosi ci porta in “giro” per Roma in senso letterale: viaggiando attorno all’anello d’asfalto che cinge la città (il sacro Gran Raccordo Asfaltato) sceglie una serie di storie umane con straordinaria meticolosità (dopo due anni di riprese), storie incredibilmente normali ma normalmente incredibili: travestiti nottambuli, pescatori d’anguille, nobili decaduti, vecchi dementi e giovani “pazienti”, ballerine da bar, credenti creduloni e un botanico che parla con gli scarafaggi. La storia si snoda, anche spiazzando, come un sacro anello che gira all’infinito, senza inizio e senza una fine.
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Rosi ci porta in “giro” per Roma in senso letterale: viaggiando attorno all’anello d’asfalto che cinge la città (il sacro Gran Raccordo Asfaltato) sceglie una serie di storie umane con straordinaria meticolosità (dopo due anni di riprese), storie incredibilmente normali ma normalmente incredibili: travestiti nottambuli, pescatori d’anguille, nobili decaduti, vecchi dementi e giovani “pazienti”, ballerine da bar, credenti creduloni e un botanico che parla con gli scarafaggi. La storia si snoda, anche spiazzando, come un sacro anello che gira all’infinito, senza inizio e senza una fine. La prospettiva che sceglie Rosi per raccontare tutte le sue strane-storie è quasi filmica, fin troppo asciutta, fotografica, silenziosa, ma anche inaspettatamente efficace. I nostalgici del vecchio caro documentario soffriranno la mancanza di un contenuto chiaro, i nostalgici del “buon cinema” storceranno l naso per una storia inconcludente. Tutti loro, i “critici” amanti del “prevedibile”, sono in realtà incapaci di lasciarsi portare da un apparente noioso racconto, che sembra inconcludente, ma che invece ha la potenza dello scarafaggio della locandina: la indomabile forza della sopravvivenza di una specie. L’umanità di cui ci parla Rosi infatti sopravvive ai margini di una città, lontanissima, come gli scarafaggi dal punteruolo rosso, tutti rosicchiando la propria palma, e sopravvivendo nel sacro anello infinito della vita (umana). Rosi ci mostra gesti e silenzi da così vicino da farci vedere la vita dalla prospettiva di uno scarafaggio, quasi annusandola.
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felicity
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sabato 3 agosto 2024
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l’anima di una città
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Sacro GRA è un film di magnifici scarti. Gianfranco Rosi non riprende mai il GRA: il suo (cine)occhio rimane perennemente obliquo, arriva sempre o un attimo prima o un attimo dopo il flusso di eventi o di persone che “presenta”, abbracciando una mamma Roma di cui si sentono echi lontani, mai inquadrata perché lasciata immaginare negli occhi di chi guarda oltre la nostra inquadratura.
Questo è un film fatto di scarti. Questo è il progetto folle di chi ha tentato di filmare l’anima di una città/mondo partendo dai suoi limiti estremi, dall’eterno confine tra il dentro e il fuori lo spazio.
Sacro GRA è un film popolato da persone.
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Sacro GRA è un film di magnifici scarti. Gianfranco Rosi non riprende mai il GRA: il suo (cine)occhio rimane perennemente obliquo, arriva sempre o un attimo prima o un attimo dopo il flusso di eventi o di persone che “presenta”, abbracciando una mamma Roma di cui si sentono echi lontani, mai inquadrata perché lasciata immaginare negli occhi di chi guarda oltre la nostra inquadratura.
Questo è un film fatto di scarti. Questo è il progetto folle di chi ha tentato di filmare l’anima di una città/mondo partendo dai suoi limiti estremi, dall’eterno confine tra il dentro e il fuori lo spazio.
Sacro GRA è un film popolato da persone. Persone a cui non si vuol nemmeno dare un nome, perché non è importante. Insomma: il GRA è cinema.
E lo è perché presuppone infiniti attraversamenti e tanti futuri possibili.
Sacro GRA è un film magnificamente e volutamente incompiuto, che potrebbe durare cinque minuti o un’intera vita. Un corpo vivo che rifiuta la circolarità fisica del suo oggetto, lasciando solo a noi spettatori l’onere di proseguirne il tragitto sentimentale.
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jean remi
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venerdì 17 gennaio 2014
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un documentario non e' "settima arte"
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Sarei molto curioso di conoscere le motivazioni che hanno indotto la giuria del 70° Festival del Cinema di Venezia, presieduta da Bernardo Bertolucci, ad assegnare il Leone d’Oro a questo discreto e rispettabile documentario che ritrae la vita pulsante che alloggia, non solo ai margini del GRA (grande raccordo anulare) di Roma ma, vi assicuro in qualsiasi altra periferia del nostro Paese; sono racconti di vita che quotidianamente vedo e vivo anch’io pur abitando in una piccola città di provincia.
Quindi tutti i commenti di critica e pubblico legati al GRA e a Roma mi sembrano quantomeno forzati.
Lasciando il contesto di ambientazione e andando ai contenuti del documentario-film, direi che anche in questo caso si traspone tanto cinema di Fellini (indubbiamente il protagonista della stagione cinematografica 2013) e dopo i successi de “la grande bellezza”, praticamente da tutti definito molto simile alle opere del “maestro”, ecco rispuntare i suoi strani personaggi quasi metafisici (il nobile piemontese con figlia zitella, il palmologo che si accanisce contro la larva che distrugge le sue piante, l’anguillaro che parcheggia con la sua barca sotto un ponte del Tevere, l’attore di fotoromanzi disposto a tutto per tornare al glorioso passato).
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Sarei molto curioso di conoscere le motivazioni che hanno indotto la giuria del 70° Festival del Cinema di Venezia, presieduta da Bernardo Bertolucci, ad assegnare il Leone d’Oro a questo discreto e rispettabile documentario che ritrae la vita pulsante che alloggia, non solo ai margini del GRA (grande raccordo anulare) di Roma ma, vi assicuro in qualsiasi altra periferia del nostro Paese; sono racconti di vita che quotidianamente vedo e vivo anch’io pur abitando in una piccola città di provincia.
Quindi tutti i commenti di critica e pubblico legati al GRA e a Roma mi sembrano quantomeno forzati.
Lasciando il contesto di ambientazione e andando ai contenuti del documentario-film, direi che anche in questo caso si traspone tanto cinema di Fellini (indubbiamente il protagonista della stagione cinematografica 2013) e dopo i successi de “la grande bellezza”, praticamente da tutti definito molto simile alle opere del “maestro”, ecco rispuntare i suoi strani personaggi quasi metafisici (il nobile piemontese con figlia zitella, il palmologo che si accanisce contro la larva che distrugge le sue piante, l’anguillaro che parcheggia con la sua barca sotto un ponte del Tevere, l’attore di fotoromanzi disposto a tutto per tornare al glorioso passato).
Rosi ha subito ammesso la “manipolazione” delle riprese, la ricerca del dettaglio curioso ed il montaggio (durato ben 8 mesi) ad effetto. Il documentario, che evidentemente tecnicamente tale non è, complessivamente risulta piacevole e scorrevole con buone inquadrature (interessanti quelle dall’alto rispetto agli appartamenti del palazzone di periferia) e ben contestualizzato ma concordo con Pupi Avati quando dice:
“Il Festival si è ridotto ad assegnare il primo premio ad un documentario, antitesi di quello che dovrebbe essere quest’arte. Il Leone d’Oro a un regista che non ha mai diretto un attore denuncia lo stato di crisi”.
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francesco2
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venerdì 20 novembre 2015
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rosi, non aver paura (di usare più rigore)
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Il nome di Rosi, a quanto sembra, era già conosciuto da qualcuno, prima che venisse insignito del Leone d'Oro a Venezia. Taluni, i (pochi,credo) detrattori del film hanno parlato di poco coraggio, rispetto alla sua produzione precedente. Probabilmente, quando si faccia "cinema documentaristico" la strada è quella ipercinematografica di Scorsese ( "Quei bravi ragazzi"), oppure quella caustica ed indagatoria di Michael Moore, del -giustamente- meno conosciuto "Religolous", della nostra Guzzanti.
Un percorso alternativo è quello che propende per l'empatia - ma non troppo -, o per il distacco, sempre che non si provi a fonderle ( ma sarebbe una sfida impossibile).
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Il nome di Rosi, a quanto sembra, era già conosciuto da qualcuno, prima che venisse insignito del Leone d'Oro a Venezia. Taluni, i (pochi,credo) detrattori del film hanno parlato di poco coraggio, rispetto alla sua produzione precedente. Probabilmente, quando si faccia "cinema documentaristico" la strada è quella ipercinematografica di Scorsese ( "Quei bravi ragazzi"), oppure quella caustica ed indagatoria di Michael Moore, del -giustamente- meno conosciuto "Religolous", della nostra Guzzanti.
Un percorso alternativo è quello che propende per l'empatia - ma non troppo -, o per il distacco, sempre che non si provi a fonderle ( ma sarebbe una sfida impossibile). Ma Rosi il distacco lo esclude, forse perché ha lavorato per anni con i protagonisti di "Sacro GRA", chiedendo con ogni probabilità il loro assenso per selezionare delle "tracce di vita amorosa",e non; allora "deve"entrare in empatia. La sfida, tuttavia, si fa ancora più impegnativa, perché chi voglia "filtrare" queste realtà, essendo al contempo documentarista e cinematografico, deve giocoforza avre una sensibilità particolare. E questo regista, qui, non ha quella di Corsicato ( si vedano le prostitute, molto lontane dai "buchi neri"), ma allo stesso tempo non è neanche Cipri e:o Maresco, fuorché non s'intenda il bruttino e scontato "E' stato il figlio". Forse i due ideatori di "Toto che disse due volte" gli devono apparire troppo nichilisti, e lui non vuole dipingere una realtà priva di speranza, già morta. Ma cosi il suo è un ibrido, che trova motivo di inteesse solo nei "vuoti" ein un "pieno", cioé il personaggio desideroso di preservare la sua palma. Il resto è un misto di personaggi senz'anima, si parli delle già citate prostitute piuttosto che dei nobili decaduti -tranne qualche momento particolare, piuttosto, ancora, che delle quantomai "televisive" scene sull'ambulanza.
Davvero discutibile, allora, l'entusiasmo per questo esperimento metacinematografico, preferito due anni fa -tra gli altri film- alla "Moglie del poliziotto" ed al tanto discusso "Mis violence"... , ed ancora più discontinuo dei "Giri di luna"... di Gaudino, tornato proprio quest'anno a Venezia. Film " da festival" ( i "giri" citati erano stati premiati a Rotterdam), che il pubblico non gradisce tanto.......ed in buona parte ha ragione.
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jonnylogan
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martedì 6 maggio 2025
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come un anello di saturno
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“ Il GRA, Grande Raccordo Anulare, è l’autostrada urbana più lunga d’Italia, con un’estensione pari a un anello di Saturno”
Queste le parole con le quali viene descritto il GRA esplorato in lungo e in largo prima dall’urbanista e paesaggista Nicolò Basetti, che sia a piedi, sia con altri mezzi ha deciso di dare vita a una lunga camminata antropologica; attraversando più volte i quasi settanta chilometri del Grande Raccordo Anulare, tramutandoli in totale in quasi trecento chilometri.
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“ Il GRA, Grande Raccordo Anulare, è l’autostrada urbana più lunga d’Italia, con un’estensione pari a un anello di Saturno”
Queste le parole con le quali viene descritto il GRA esplorato in lungo e in largo prima dall’urbanista e paesaggista Nicolò Basetti, che sia a piedi, sia con altri mezzi ha deciso di dare vita a una lunga camminata antropologica; attraversando più volte i quasi settanta chilometri del Grande Raccordo Anulare, tramutandoli in totale in quasi trecento chilometri. Percorrendoli e consegnandoli al documentarista Gianfranco Rosi, in seguito a un passo dal premio Oscar per Fuocoammare (id.; 2016), dedicato a Lampedusa e al mondo dei migranti, il quale, forte delle esperienze maturate fra l’India, la vita ai margini, delle baraccopoli made in USA, e dei narcotrafficanti messicani, per una volta ha deciso di ripercorrere nuovamente quei quasi settanta chilometri, soffermandosi anch’egli alla ricerca di vite ai margini. Posizionate lungo quella linea di confine che è il GRA: ovvero fra il centro sfavillante della capitale e la vita lontana dai riflettori. Nei luoghi dove la cementificazione, il degrado, i campi incolti, possono lasciare ben poco spazio all’inventiva.
Le storie scovate e narrate da Rosi risultano al fine qualche cosa di tenero e di mai visto, quasi irreali per quanto paiono assurde, ma assolutamente tutte calate nella realtà: si passa dal soccorritore in ambulanza, al nobile decaduto che vive in pochi metri quadrati e in compagnia della figlia. Dal pescatore di anguille, a due prostitute ormai troppo anziane per poter sperare di attirare qualche cliente danaroso. Dal nobile che decide di affittare la propria abitazione come set per fotoromanzi, sino al ‘Palmologo’ interessato alla salute delle palme che incontra lungo il proprio percorso e che accudisce con una cura a dir poco maniacale. Tutte storie narrate sullo sfondo poliedrico e cementificato del GRA, un ‘non luogo’ che l’architetto e politico Romano: Renato Nicolini, definiva “il muro invalicabile” restituitoci per una volta non più come una terra di nessuno ma come un luogo quasi metafisico e meritevole di venire studiato ed esplorato.
Lo sforzo di Rosi riesce quindi a colpire l’immaginazione del pubblico con una pellicola che può fare tranquillamente coppia con La Grande Bellezza (id.; 2012) di Paolo Sorrentino. Con il sostanziale distinguo dato dalla percezione che si può avere di Roma. Da un lato vista come fonte di estasi e splendore oppure mai vista ed esclusivamente filtrata solo attraverso la lingua di asfalto del GRA. Leone d'Oro a Venezia 2013, come miglior film. E pellicola da vedere se amate l'antropologia urbana e una Roma vista da altri punti di vista.
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no_data
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giovedì 17 ottobre 2013
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una metafora fatta di cemento e anime
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Regia di Gianfranco Rosi, curriculum di tutto rispetto e meritato successo a Venezia. Il suo è uno dei pochissimi lavori italiani di questi ultimi anni degni di misurarsi con la storia del cinema nazionale, nonché con l'attualità di quello straniero. Il film è documentaristico nella più nobile delle accezioni; De Seta, anzitutto, per il respiro umanitario.
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Regia di Gianfranco Rosi, curriculum di tutto rispetto e meritato successo a Venezia. Il suo è uno dei pochissimi lavori italiani di questi ultimi anni degni di misurarsi con la storia del cinema nazionale, nonché con l'attualità di quello straniero. Il film è documentaristico nella più nobile delle accezioni; De Seta, anzitutto, per il respiro umanitario. Ma non dimentica Ciprì e Maresco quando disegna i tratti di un grottesco sempre e comunque affettuoso. Alcuni presupposti estetici derivano dal cinema di Straub e Huillet: il rapporto con gli spazi, col suono e con la natura ("Quei loro incontri"). I riferimenti cinematografici, però, sono ancora più ampi, europei. I soggetti di "Sacro GRA" sono due: un'umanità (anche residuale) e il mostro d'asfalto sul quale notte e giorno trafficano i veicoli, onnipresenti col loro rumore di sottofondo. Il riscatto è una catastrofe (o una liberazione dell'anima) e spetta ad un solo personaggio: il palmologo che - con un gesto davvero autoriale - annuncia a metà del film "l'antipasto della vendetta" che si materializza con l'esumazione di cadaveri e coi veicoli nella neve, il suono rarefatto. È lui a prendersi cura delle palme ("hanno la forma dell'anima") ascoltandone le fibre infestate dai parassiti; prima deve attrarli per farli allontanare. E infine prepara una pozione per debellarli del tutto. Rosi, a stretto contatto con il reale, ha trovato la fonte di una verità assai più vera e poetica di quella che quest'anno abbiamo visto raccontare altrove; "La grande bellezza" di Sorrentino si tiene a timorosa distanza da tutto questo.
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furri17
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giovedì 31 ottobre 2013
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algido, autoreferenziale, estetizzante.
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Questo lavoro ha il grande pregio di aver vinto Venezia, permettendo al grande pubblico di vedere un docuementario.
Questo lavoro ha anche il grande difetto che dopo aver vinto venezia il grande pubblico che attirato dalla novità andrà in sala, non tornerà più a vedere i documentari.
Quello che ho visto è un lavoro che non dà nulla allo spettatore, di rara noia, estetizzante e fine a se stesso.
Non è un pezzo di relativa verità, non è finzione, non è innovativativo, alla fine risulta solo una noia mortale.
i protagonisti non attori recitano una parte, probabilmente loro stessi, le loro storie sono a margine e risultano poco interessanti e di nessuna spontaneità.
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Questo lavoro ha il grande pregio di aver vinto Venezia, permettendo al grande pubblico di vedere un docuementario.
Questo lavoro ha anche il grande difetto che dopo aver vinto venezia il grande pubblico che attirato dalla novità andrà in sala, non tornerà più a vedere i documentari.
Quello che ho visto è un lavoro che non dà nulla allo spettatore, di rara noia, estetizzante e fine a se stesso.
Non è un pezzo di relativa verità, non è finzione, non è innovativativo, alla fine risulta solo una noia mortale.
i protagonisti non attori recitano una parte, probabilmente loro stessi, le loro storie sono a margine e risultano poco interessanti e di nessuna spontaneità.
A questo punto, andando per esclusione, ci si aspetterebbe che protagoniste di Sacro Gra siano le immagini, invece no, la maggiorparte di esse sono piani sequenza che non comunicano nulla tranne l'autocompiaciamento del regista.
In genere trovo interessante qualsiaisi tipo di pellicola e riesco ad affezionarmi anche ai difetti, ma questa è stata la prima volta che ho avuto una voglia incredibile di uscire dalla sala e mi pento di non averlo fatto.
I tre aggettivi che mi vengono in mente per descivere Sacro Gra sono: Vuoto, Pomposo, Noioso.
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maria f.
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domenica 24 novembre 2013
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evviva i buoni film!
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L’occhio di Rosi sbircia, si sofferma sulle vite di persone comuni, le documenta.
I dialoghi e i monologhi appaiono da subito noiosi, tediosi, poiché i personaggi stessi esprimono, simboleggiano ciò che abitualmente comunichiamo, osserviamo, analizziamo quasi in profondità, rimarchiamo ciò che ci circonda relativo al nostro lavoro, alla vita insieme.
Conversazioni fatte di osservazioni indirizzate a volte a noi stessi, punti di vista, scambi di opinioni di cui ci serviamo per intrattenere rapporti, relazioni che barattiamo con altri per avere compagnia, appoggio morale.
Se ci pensiamo la maggior parte della nostra vita è fatta proprio così, di parole…. parole, frasi……frasi, considerazioni, riflessioni, valutazioni , ragionamenti : lunghi respiri che riempiono il polmone della vita fra la nascita e la morte.
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L’occhio di Rosi sbircia, si sofferma sulle vite di persone comuni, le documenta.
I dialoghi e i monologhi appaiono da subito noiosi, tediosi, poiché i personaggi stessi esprimono, simboleggiano ciò che abitualmente comunichiamo, osserviamo, analizziamo quasi in profondità, rimarchiamo ciò che ci circonda relativo al nostro lavoro, alla vita insieme.
Conversazioni fatte di osservazioni indirizzate a volte a noi stessi, punti di vista, scambi di opinioni di cui ci serviamo per intrattenere rapporti, relazioni che barattiamo con altri per avere compagnia, appoggio morale.
Se ci pensiamo la maggior parte della nostra vita è fatta proprio così, di parole…. parole, frasi……frasi, considerazioni, riflessioni, valutazioni , ragionamenti : lunghi respiri che riempiono il polmone della vita fra la nascita e la morte.
Questi personaggi monocordi parlano del loro quotidiano, il pescatore intrattiene chi gli sta attorno leggendo articoli sulle anguille, la moglie rammenda la rete, i transessuali discutono del loro lavoro, un papà si preoccupa del futuro della figlia un po’ attempata, ecc.
Siamo noi, siamo proprio noi.
Rosi ha scandagliato il mondo di tutti noi, ci ha consegnato l’immagine della nostra vera vita che per quanto apparentemente assillante e senza significato trascorre, fluisce, piano piano scivola via e senza che ce ne accorgiamo ci rende i veri unici eroi di questo mondo.
La sfida sta proprio nell’affrontare ogni giorno la piatta normalità.
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andrea fratini
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martedì 26 novembre 2013
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soggetti e montaggio non armoniosi
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Il primo documentario vincitore di un premio importante poteva e doveva essere diverso. Anche perchè non è veramente un documentario, ma un pasticcio all’italiana. E’ infatti un fallimento clamoroso l’intento di fondere racconti episodici malamente intrecciati (il montaggio è il settore cinematografico italiano in cui andiamo peggio) con le bruttezze reali della periferia romana. Se non si era mai visto un documentario a episodi un motivo ci sarà pure. Un saggio ha dei capitoli, ma consequenziali. I personaggi si lasciano riposare solo nei romanzi. Ma non solo: sono alquanto discutibili i soggetti e stonano i passaggi dall’ironico di alcune scene ai culmini macabri di altre (la tumulazione dei campi santi).
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Il primo documentario vincitore di un premio importante poteva e doveva essere diverso. Anche perchè non è veramente un documentario, ma un pasticcio all’italiana. E’ infatti un fallimento clamoroso l’intento di fondere racconti episodici malamente intrecciati (il montaggio è il settore cinematografico italiano in cui andiamo peggio) con le bruttezze reali della periferia romana. Se non si era mai visto un documentario a episodi un motivo ci sarà pure. Un saggio ha dei capitoli, ma consequenziali. I personaggi si lasciano riposare solo nei romanzi. Ma non solo: sono alquanto discutibili i soggetti e stonano i passaggi dall’ironico di alcune scene ai culmini macabri di altre (la tumulazione dei campi santi). L’unico pregio di quest’opera è quello di ricordare agli osannatori di Roma quanto sia brutta la capitale di oggi, cioè quella vissuta, delle borgate e della speculazione edilizia; perchè quella che tutti vediamo e ammiriamo è la cartolina che ci ha spedito il passatoi: l’urbanistica attuale residenziale più disgraziata d’Italia è quella della Città Eterna...ma anche qui ci avevano già pensato Citti, Ferreri e Pasolini a farcela conoscere. Indimenticabile il vecchio pescatore di anguille che legge e critica l'articolo di un giornale scritto da chi probabibilmente delle anguille non sa nulla, ma si erge a specialista in materia
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flyanto
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giovedì 26 settembre 2013
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la vita quotidiana di alcune persone intorno al gr
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Film o, meglio, documentario girato da Gianfranco Rosi in cui vengono presentati alcuni e vari personaggi che vivono ed operano intorno alla lunghissima e molto trafficata autostrada, denominata appunto GRA (Grande Raccordo Anulare), che circonda ad anello la città di Roma. Vi sono pertanto, un barelliere che presta soccorso con la propria ambulanza ai feriti, più o meno in gravi o condizioni, di incidenti automobilistici, uno studioso di piante che ne analizza lo stato di corrosione per opera di animaletti parassiti, un gruppetto di prostitute transessuali di età ormai avanzata, un pescatore di anguille presso il fiume circostante, ecc...insomma, persone alquanto comuni che reiterano ogni giorno le proprie azioni e la propria esistenza senza avvenimenti eclatanti.
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Film o, meglio, documentario girato da Gianfranco Rosi in cui vengono presentati alcuni e vari personaggi che vivono ed operano intorno alla lunghissima e molto trafficata autostrada, denominata appunto GRA (Grande Raccordo Anulare), che circonda ad anello la città di Roma. Vi sono pertanto, un barelliere che presta soccorso con la propria ambulanza ai feriti, più o meno in gravi o condizioni, di incidenti automobilistici, uno studioso di piante che ne analizza lo stato di corrosione per opera di animaletti parassiti, un gruppetto di prostitute transessuali di età ormai avanzata, un pescatore di anguille presso il fiume circostante, ecc...insomma, persone alquanto comuni che reiterano ogni giorno le proprie azioni e la propria esistenza senza avvenimenti eclatanti. Un film puramente rappresentativo di una realtà, forse, direttamente poco conosciuta allo spettatore ma sicuramente immaginata , interpretata dalle stesse persone, e dunque non da attori professionisti, abitanti e gravitanti le zone del raccordo. IL regista gira tutto in maniera lineare come lo scorrere della quotidianità della vita, senza alcuna denuncia o commento. Casomai, sta allo spettatore formulare le proprie considerazioni ed i propri giudizi senza venirne influenzato minimamente. e, forse, lo scopo del regista è proprio questo. In ogni caso, a mio modesto parere, questo film-documentario, sebbene ben girato ed interessante a livello informativo di una certa realtà, non lo reputo però così meritevole del premio assegnatogli come vincitore della Mostra del Cinema a Venezia in quanto poco originale e molto simile a tanti reportages divulgativi.
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