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Sacro GRA, la rivincita del documentario

Le riflessioni di Dario Zonta, creative producer del film Leone d'oro a Venezia 70.
di Dario Zonta

In foto Gianfranco Rosi, vincitore del Leone d'oro 2013 con Sacro GRA.
Gianfranco Rosi 1964, Asmara (Eritrea). Regista del film Sacro GRA.

martedì 10 settembre 2013 - Approfondimenti

A questo punto bisogna parlare più consapevolmente del ruolo del documentario nella politica cinematografica e culturale italiana, ora che il Leone d'oro è andato a un film documentario, Sacro Gra di Gianfranco Rosi. La vittoria, lasciatecelo dire, ha un valore storico perché per la prima volta, grazie al coraggio di Alberto Barbera, un film documentario è entrato nella competizione maggiore, concorrendo al pari di altri film di fiction, e perché ha vinto sbaragliando proprio quella concorrenza.

Chi vi scrive - meglio subito dirlo - non è terzo, perché ha avuto parte attiva nella realizzazione del film, affiancando nel ruolo di "creative producer" il regista e la produzione nel processo decisionale. L'occasione di questa clamorosa vittoria è troppo ghiotta per non fare alcune considerazioni. La prima è questa: Sacro Gra è un film che ha elementi di unicità e eccezionalità che derivano in gran parte dalla particolarità del percorso del suo autore. Fino a pochi giorni fa in molti in Italia non avevano mai sentito parlare di Gianfranco Rosi, eppure questo uomo solitario, cittadino del mondo ed esploratore inesausto di mondi sommersi, ha girato nell'arco di venti anni tre film importanti, se non straordinari, che sono passati per i festival, spesso vincendoli, e che hanno ricevuto all'estero onori e gloria. Boatman, Below Sea Level, El Sicario sono i titoli di una filmografia sofferta perché auto-prodotta in tempi lunghissimi.

Sarebbe bello, ora che Rosi lo chiamano "maestro", che qualcuno riproponesse i suoi film, anche solo per mostrare un percorso rigoroso e radicale. Chi oggi si esalta per Sacro Gra potrebbe perdere la testa per Below Sea Level, tanto per fare un esempio. Citare il percorso cinematografico di Gianfranco Rosi non serve solo a illuminare un prima del tutto sconosciuto in Italia, ma serve anche a "denunciare" la pochissima curiosità che il sistema cinema ha verso questo tipo di film. Il documentario in Italia, in tutte le sue forme, esiste da tanti anni, è cresciuto ed è maturato, e sta diventando una fucina importante di registi di talento. Eppure i signori del cinema lo hanno snobbato, approcciandosi financo con fastidio. Chi sono costoro - sembra di sentirli - che pensano di fare film con pochi soldi e pochi mezzi scegliendo il reale come metafora del contemporaneo? Fino a ieri è stato così, da oggi le cose cambiano e devono cambiare. Vi assicuriamo che la vittoria di Rosi darà fastidio a più di una persona, a più di un produttore, a più di un distributore, a più di un finanziatore. Il fastidio si trasformerà in preoccupazione allorquando sarà chiaro che le magnificenze produttive con cui sono state erette clamorose cattedrali nel deserto non sono più giustificabili, se non altro perché si poggiano su fondali sabbiosi, erosi dagli stessi ingegneri del consenso cinematografico.

Qualcosa sta cambiando, perché è evidente che il cinema commerciale come quello d'autore è in sofferenza, com'è evidente (ma questo forse è più un auspicio), che lo spettatore cinematografico, quello più esigente, sta cercando anche inconsapevolmente altre vie di fuga, altre pratiche produttive, altri orizzonti narrativi. In questo senso, se il film di Rosi si è imposto a Venezia è stato per l'originalità del dispositivo narrativo corale, erratico e impressionista (raggiunto con un lunghissimo lavoro di montaggio) e per la forza di personaggi tanto veri quanto invisibili.

Alberto Barbera nella conferenza di chiusura del festival ha detto che un Leone non fa primavera, affermando che la qualità del cinema italiano è ancora bassa. Ha le sue ragioni per dirlo. Ma qui vogliamo però sottolineare un altro aspetto. Se Rosi è arrivato a vincere il Leone d'Oro è anche perché da anni, nonostante il disinteresse degli operatori del settore, una pattuglia di registi e qualche produttore ha disegnato nuovi confini e nuovi orizzonti. Sia chiaro: Rosi è un battitore libero e fino a ieri ha girato i suoi film all'estero e da solo. Però Sacro Gra è arrivato ad imporsi perché a furia di colpi, a destra e a manca, gli autori del cinema documentario hanno rotto il vaso. I cocci caduti sono i pezzi del loro futuro. Qualche anno fa il film di Pietro Marcello, La bocca del lupo, fu selezionato in concorso al Festival di Torino, gareggiando con le opere prime e seconde del cinema d'autore mondiale, e ha vinto, anche lui sbaragliando la concorrenza, aggiudicandosi poi il Forum di Berlino e decine di altri premi.

Gli storici segneranno un percorso, ne siamo certi e non solo di documentario si parla, ma di "altro cinema" che sia di narrazione, di montaggio, sperimentale, del reale, ibridato. Ci fermiamo qui nella redazione di queste note sparse, non esaustive, nella speranza che possano aprire una riflessione più profonda.

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