Lincoln di Spielberg è un film dai dialoghi serrati, ambientato quasi tutto in interni, incetrato sul dualismo Realpolitik-valori ideali universali. O meglio, il nucleo centrale di senso da cui si dipana la sceneggiatura, prende forma dalla domanda: è giusto seguire sentieri discutibili per raggiungere il grande sogno? Per Lincoln (Daniel Day-Lewis), sì.
Spielberg pone bene in evidenza la caratura giuridica di Lincoln, la sua precedente attività di avvocato. Lincoln sa bene che la forma è importante. La forma, secondo Aristoele, è inscindibile dalla sostanza. Anzi, è proprio la forma, in quanto atto puro, movimento, che modella la materia e rende possibile il divenire storico. Lincoln intuisce che l'abolizione della schiavitù, una volta divenuta legge formale della Federazione americana, avrebbe fatto cessato di fatto il conflitto. E' ciò che Lacan chiama Punto Nodale, il tassello che, una volta fatto cadere, permette di cambiare ogni cosa.
Da qui viene da chiedersi se il cambiamento sarebbe mai stato possibile se non ci fosse stato Lincoln a 'giocare sporco' per l'alto ideale dell'uguaglianza. In termini hegeliani, lo Spirito Assoluto, la Ragione, il processo verso la libertà, è il momento culminante necessario della Storia? Oppure non vi è nessun percorso obbligato, ma ogni conquista è figlia della tenacia di grandi uomini? Nel Lincoln di Spielberg prevale la visione kierkegaardiana della Scelta come momento apicale del cambiamento. Grandi uomini abbiamo detto, ma anche grandi donne. Il regista applica un poco originale espediente narrativo per 'imbeccare' Lincoln affinchè si spinga più in là della Legge, al fine di porre fine alla guerra. Alla stessa maniera del Rocky anni '80, è la moglie che, con i suoi discorsi, convince finalmente l'eroe a compiere il proprio destino. E come la maggior parte della cinematografia americana anni '80, il film è segnato da una autocelebrazione narcisistica della nazione americana, selle sue origini, della sua ingenuità (impersonificata dai figli di Lincoln e da alcuni deputati). Una glorificazione che può risultare anacronistica in un'epoca disincatata come la nostra.
Tipicamente americana è anche l'ingenua 'fissazione' sul tema della schiavitù come unico movente del conflitto. In realtà sappiamo che le cose erano ben più complesse di come descritto. Qualcosa, a dire il vero, viene alla luce soltanto al termine della pellicola, quando il delegato sudista afferma senza mezzi termini che la schiavitù è fondamentale per le economie degli stati che egli rappresenta. Emerge quindi il nodo marxista della struttura economica che determina sempre la sovrastruttura ideologica, sovrastruttura che è stata per due ore di film, unica protagonista. In altri termini, è sempre l'economia che determina la Storia, e ogni intepretazione simbolica del mondo è soltanto l'abito con il quale gli uomini (la classe dominante) la abbeliscono.
Lo scontro tra Forma e Ideale appare in tutta la sua evidenza nella figura di Thaddeus Stevens (Tommy Lee-Jones), il quale è forse il più marxista, radicale ed egualitario nelle fila del Partito Repubblicano. Egli è a favore della liberazione sia formale che sostanziale dei neri, è addirittura per la costruzione di libere fattorie autogestite da neri liberi, e applicava nella vita concreta tale liberazione convivendo con una donna di colore. E questo suo eccesso, questo suo essere pienamente aderente alla sostanza dell'ideale egualitario, lo emargina dallo stesso partito. Stevens, infatti, non è in grado di comprendere che sono necessari degli step preliminari prima di raggiungere l'agognato traguardo, Spesso anzi, l'immediata soddisfazione del desiderio può procurare l'effetto contrario. Questo forse è il principale insegnamento di Spielberg.
Il film andrebbe visto in versione originale poichè il doppiaggio di Favino (comunque molto difficile) è rivedibile.
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