giugy3000
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giovedì 11 aprile 2013
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l'amore giovane
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La carriera del regista austriaco Michael Haneke è in assoluto secondo i miei gusti una delle più invidiabili ed affascinanti: dopo una doppia laurea in filosofia e psicologia, passando attraverso anni da critico cinematografico, Haneke approda alla regia, che gli frutta in un ventennio un miglior premio per la regia a Cannes e ben due Palme d'Oro. L'ultima è proprio questa vinta con "Amour", una straziante e delicata storia sulla senilità dolorosamente afflitta dalla malattia di uno dei consorti.
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La carriera del regista austriaco Michael Haneke è in assoluto secondo i miei gusti una delle più invidiabili ed affascinanti: dopo una doppia laurea in filosofia e psicologia, passando attraverso anni da critico cinematografico, Haneke approda alla regia, che gli frutta in un ventennio un miglior premio per la regia a Cannes e ben due Palme d'Oro. L'ultima è proprio questa vinta con "Amour", una straziante e delicata storia sulla senilità dolorosamente afflitta dalla malattia di uno dei consorti. Unico come sempre nel suo genere introspettivo e caparbio nel portare sul grande schermo film dalle tematiche meravigliosamente interessanti, Haneke raggiunge l'apoteosi con la scelta dei suoi interpreti: uno straordinario 82enne Jean Louis Trintignant e una 85enne Emmanuelle Riva ( che debuttò al tempo in "Hiroshima Mon Amour" di Resnais). Lo splendore della pellicola si apprezza già da questo particolare sui protagonisti, realmente non più giovani che (si spera più tardi possibile) dovranno realmente fare i conti con la fine delle loro vite, forse segnati dalla malattie di tarda età per combattere con le uniche forze rimaste l'amore che li lega al proprio compagno/a. Di coppie come Georges e Annes ne esistono poche a mio avviso ed è stato difficile trattenere le lacrime perchè io una di queste la conoscevo assai bene ed erano i miei nonni. Ho vissuto sulla mia pelle la situazione (benchè al rovescio e non di tale portata) difficile in cui si trova un ultra ottantenne quando vede la vita della moglie rovinata e lesa per sempre da un ictus celebrale...la sua iniziale voglia di non poterci e doverci credere, la sua intermittente impotenza, fino alla chiarezza di una sorte arrivata al suo termine, dove se si ama davvero bisogna aver il coraggio di lasciar andare. Ripercorrendo alcuni temi già affrontati in "Bella addormentata" di Bellocchio sul fronte italiano, Haneke infarcisce il suo film di tanto, (forse troppo) spessore: la vecchiaia, la fine di una vita, il rapporto con i figli,la malattia e anche la leicità eventuale di un'eutanasia. Tutto questo cercando di librarsi alti nel cielo e di volare lontani da questo dolore con l'aiuto di due sole armi, che di terrestre hanno ben poco e paiono essere doni di angeli caduti: la musica (che nei film di Haneke è costantemente quella di un pianoforte, meglio ancora se di Schumann o Schubert) e l'amore, quello puro come un diamante appena estratto, incontaminato da ogni pena come un'isola appena sorta dal mare. La bravura di Isabelle Hupper viene qui eclissata dall'aver svolto un ruolo minore e dal volto straordinario di Trintignant, che presta molto di sè al personaggio doti come la calma, la pazienza, il suo amore per il teatro e per il narrare storie...fino a quell'ultima che cullerà Anne fuori da quel corpo in cui la sua anima era mai imprigionata.
Ci troviamo dinnanzi ad un prodotto filmico come sempre di grande livello, che però a mio modestissimo parere non raggiunge le altissime cime de "La pianista" o del "Nastro Bianco". Il film è scandito da un ritmo davvero lentissimo, a tratti difficile da seguire con la dovuta attenzione dove regna una medesima ambientazione con pochissimi ed essenziali dialoghi. Pesa come un macigno questa storia di Haneke e non è certo un film per tutti. In cuor mio ho preferito più altre pellicole che trattassero temi di fine vita, ma è un film di doverosa visione, se non altro perchè sicuramente in futuro film indipendenti di un certo calibro li guarderemo sempre più col binocolo.
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maxime dubois
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mercoledì 29 maggio 2013
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amour è un' opera che sconvolge emotivamente
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C'è chi ama guardare film per stimolare il proprio stato emotivo, allenarlo e nutrirlo allo stesso tempo in modo da averlo sempre in movimento nella vita di tutti i giorni. Ieri sera ho visto questo gran film e adesso mentre vi scrivo questa breve recensione mi viene in mente una scena del film un cui Tirtignan ricorda una scena d'infanzia in cui si era messo a piangere per via di forti emozioni provate, è ormai vecchio è non ricorda precisamente l'accaduto, però ricorda benissimo quella sensazioni di emozioni dentro lo stomaco che ti riempono gli occhi di lacrime! Amour mette continuamente in gioco lo spettatore, che non può fare a meno di essere trascinato dentro questa parentesi di vita, triste, malinconica, ma piena di amore per la vita.
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C'è chi ama guardare film per stimolare il proprio stato emotivo, allenarlo e nutrirlo allo stesso tempo in modo da averlo sempre in movimento nella vita di tutti i giorni. Ieri sera ho visto questo gran film e adesso mentre vi scrivo questa breve recensione mi viene in mente una scena del film un cui Tirtignan ricorda una scena d'infanzia in cui si era messo a piangere per via di forti emozioni provate, è ormai vecchio è non ricorda precisamente l'accaduto, però ricorda benissimo quella sensazioni di emozioni dentro lo stomaco che ti riempono gli occhi di lacrime! Amour mette continuamente in gioco lo spettatore, che non può fare a meno di essere trascinato dentro questa parentesi di vita, triste, malinconica, ma piena di amore per la vita. Molti lo definiscono un film straziante, altri si sono alzati prima della fine del film perchè troppo toccati dalla storia, ma io vi dico, bisogna restare e guardare in faccia questo forte dramma in cui il pensiero della morte è costantemente presente come un fantasma che si aggira in questa tranquilla casa abitata dai due anziani. Guardare la morte in faccia e da così vicino è dura, ma inevitabile e Haneke decide di trattare questo tema, tabu' e allo stesso tempo pieno di ipocrisia nella nostra società, in modo crudo ma reale. E' realismo puro il cinema di Haneke, niente colonna sonora, dialoghi, rumori, e silenzio che portano lo spettatore in perfetta frequenza con il film. Toccanti i dialoghi iniziali dei due protagonisti sulla morte e la malattia, marchiati da una perfetta lucidità e consapevolezza su quello che alla fine è il destino finale di ogni essere umano: la morte . Ma questa lucidità mentale svanisce in un lampo, perchè questa è la vecchiaia, questa è la malattia, un momento prima sei pefrettamente lucido e subito dopo sei irroconoscibile, privato della più comune caratteristica umana, il buon senso. Ma questo film, non è solo consapevolezza della morte, ma anche una profonda riflessione sul modo di terminare la propria esistenza che a volte può essere terribile e straziante, come un limbo tra la vita e la morte che però non appartiene a nessuna delle due categorie, è una lenta agonia non solo verso la morte, ma irreversibilmente sempre più lontana dalla vità, che è bellissima ma finita. Sembra che questa descrizione non abbia niente a che vedere con la parola amore, ma solo apparentemente, perchè è proprio nel modo in cui due personaggi affrontano questo dramma che svela l'amore in senso totale, per le persone, per la musica e per la vita.
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zummone
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mercoledì 19 giugno 2013
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l'amore estremo e senile
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Michael Haneke è indubbiamente un maestro del cinema; può piacere o disturbare, ma è bravissimo. Con la sua ultima pellicola, "Amour", che ha vinto la Palma d'Oro all'ultimo Festival di Cannes, lo conferma nuovamente. La storia è quella di George (J. L. Trintignant) e Anne (E.
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Michael Haneke è indubbiamente un maestro del cinema; può piacere o disturbare, ma è bravissimo. Con la sua ultima pellicola, "Amour", che ha vinto la Palma d'Oro all'ultimo Festival di Cannes, lo conferma nuovamente. La storia è quella di George (J. L. Trintignant) e Anne (E. Riva), ottantenni coniugi in pensione, un tempo insegnanti di musica. Anne ha un ictus che paralizza parte del suo corpo e che dà inizio all'inesorabile decadimento fisico (e anche psichico), che diventa ogni giorno più doloroso e umiliante.George la accudisce con ammirevole determinazione e con amore inalterato, facendosi aiutare da qualche badante, ma portando il peso della scelta quasi completamente sulle proprie spalle (rifiutando l'aiuto della figlia). Passano così le settimane, i mesi forse (il tempo diventa irrilevante, ai fini della storia), nell'appartamento dei due, in un crescendo di sofferenza, difficoltà a comunicare, frustrazione. George inizierà a chiedersi quanto debba durare una simile situazione, quando i suoi occhi mostreranno allo spettatore, tutto lo strazio che vive.
Haneke ha fatto l'ennesimo film estremo e memorabile (ricordate "La pianista" o "Funny games"?); ma questa volta la violenza, che cala nelle mura domestiche, è quella della malattia e della vecchiaia; questa volta lo scandalo è quello dell'amore incredibile del protagonista per la sua compagna; questa volta ilcinismo ipocrita è quello di una società dove non si può lasciare morire una persona. Film straziante, eppure bellissimo, con uno stile rigoroso e classico (pochissimi movimenti di macchina, quasi un unico ambiente per le riprese, lunghe inquadrature fisse su dialoghi sospesi), "Amour" ti colpisce sotto la cintola e ti costringe a pensare. Haneke scandaglia senza pietà, ma con rispetto, mostrando l'immostrabile, sfidando la morale, lasciando domande allo spettatore, che deve chiedersi che farebbe nei panni di George.
Due ammirevoli protagonisti (inquietante pensare al sorriso triste, cinquant'anni fa, di Trintignant, ne "Il sorpasso" di Risi!) e molte sequenze memorabili (l'incubo di George, la storia finale della colonia estiva raccontata alla moglie, l'aneddoto del funerale o quello del film dell'infanzia, la cattura del piccione). Si può filmare la morte all'opera, con tenerezza e, al contempo, realismo brutale? Haneke ci è riuscito.
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theophilus
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venerdì 1 novembre 2013
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il dramma della vita
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AMOUR
Quello su cui Michael Haneke fa riflettere col suo ultimo film è che il dramma dell’uomo non è la morte, ma la vita.
Amour guarda da fuori non la prospettiva ultima dell’uomo, ma una delle tante possibilità, delle potenziali estrinsecazioni del percorso umano: c’è forse la speranza, da parte del regista, di essere (solo) spettatore neutro di un dramma rappresentato fuori di se stesso e che non lo riguardi?
Avrebbe potuto tracciare un cammino ancora più atroce, ma anche immaginarne altri più lievi. L’uomo non sa nulla della strada che l’attende. Haneke non si rifugia nell’oltre, nel metafisico.
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AMOUR
Quello su cui Michael Haneke fa riflettere col suo ultimo film è che il dramma dell’uomo non è la morte, ma la vita.
Amour guarda da fuori non la prospettiva ultima dell’uomo, ma una delle tante possibilità, delle potenziali estrinsecazioni del percorso umano: c’è forse la speranza, da parte del regista, di essere (solo) spettatore neutro di un dramma rappresentato fuori di se stesso e che non lo riguardi?
Avrebbe potuto tracciare un cammino ancora più atroce, ma anche immaginarne altri più lievi. L’uomo non sa nulla della strada che l’attende. Haneke non si rifugia nell’oltre, nel metafisico. Non distoglie lo sguardo dal guado che bisogna comunque attraversare: è un compito a cui l’uomo non si può sottrarre.
Ma il travaglio dell’esistenza può essere tutta un’inutile, dolorosa costruzione resa stupida e patetica da una morte improvvisa, repentina e, soprattutto, inattesa. Può essere una fine a cui non stavi pensando minimamente, che non si andava prospettando per nulla e che non stava macerando la mente di chi si apprestava a morire. Per dirla con un celebre aforisma, trasformato in aggettivo simbolo di sdrammatizzante ovvietà, può presentarsi la situazione di quel tale monsieur de La Palisse che cinque minuti prima di morire era ancora vivo. Può capitare, però, anche il caso di una lunga, scandalosa e crudele sottrazione di umanità che degrada l’uomo al punto da non lasciargli altra speranza che qualcuno la faccia finire al più presto. Haneke non propone la soluzione mistica, non prospetta una salvezza ultraterrena. Perché, a ben guardare, potrebbe non essere quello l’antidoto efficace ad un possibile (ma ignoto) orrore che sta tutto nella vita, nell’esistenza.
Non c’è alcun senso di attesa, nello spettatore, dell’esito della storia. Le prime immagini sono eloquenti. Haneke non vuole qui creare un ‘climax’ drammatico. ‘Come andrà a finire’ è domanda cinematografica, non filosofica ed esistenziale. La parola ‘fine’ è sottintesa. La domanda vera è ‘come si arriverà alla fine’.
Subito dopo entriamo in un teatro e potrebbe suonare come concessione autoreferenziale la voce che invita i presenti a spegnere i telefoni cellulari prima dell’inizio del concerto. Con provvidenziale automatismo chi guarda il film si adegua a tale disposizione. Haneke è conscio del proprio valore e pensiamo che abbia voluto garantire a se stesso prima ancora che al pubblico più sensibile il rispetto per la sacralità del suo lavoro.
Due maschere contribuiscono entrambe in forte misura al dipanarsi del dramma che segue. Sembra quasi blasfemo a chi scrive parlare in termini di bravura attoriale della presenza – se ci è concesso – consustanziale di Emmanuelle Riva nella terribile spettralità di Anne. L’attenzione del regista è, però, maggiormente concentrata su chi ‘resta’, su chi, solo, può sobbarcarsi il problema, su chi, ultimo, deve rispondere all’eterna domanda: “che fare?”. Ma c’è un tentativo di trasfusione dei ruoli, il porsi il problema di che cosa ‘l’altro’ farebbe e vorrebbe a parti invertite: Haneke si guarda allo specchio e si vede nei panni di Anne e Georges. Decade il sospetto di autocompiacimento in Haneke, che affonda il coltello nella carne viva sua e nostra; viene pure a perdere di forza la nostra domanda iniziale.
Anne afferma che non ha senso continuare a vivere (e sta inevitabilmente dentro alla sua prospettiva contingente di persona colpita da infarto cerebrale, per quanto le sue parole possano risuonare assolute). Poi, però, accarezza l’idea della bellezza di una lunga vita, rivista attraverso le fotografie che la ripercorrono e glie la rimandano (e qui risuonano gli echi di un passato vivo, bello, il suo specifico passato, ma non c’è lo sguardo nostalgico e sentimentale ad appannare quella forza, bensì la consapevolezza che non si attacca ad illusioni). La sua esistenza è stata proprio quella. Donna ottuagenaria, una vita nella musica, una famiglia dalle prospettive salde, una casa che riprende a vivere e torna ad essere luminosa nell’attimo finale del film, quando la figlia Eva (Isabelle Huppert), sola, si guarda attorno e, libera dai fantasmi del presente, riprende a respirare e ripercorre la vita cha là ha vissuto.
È la vita il dramma dell’uomo. L’al di là è un’altra cosa. Non sappiamo di collegamenti, di passaggi, di nessi fra i due momenti. Il ‘dopo’ non è un premio o una punizione. È solo qualcosa che l’uomo non conosce. Qualcosa per cui, se non esiste, l’uomo non avrà il modo di rammaricarsi e, se invece c’è, potrebbe non spiegare il non senso della vita.
La musica che si ascolta nel film è di Schubert, il piccolo, celeste musicista degli ‘Improvvisi’. Inutili la grandezza, la magniloquenza, lo sforzo titanico. All’allievo che, ignaro della sua improvvisa condizione andrà a farle visita, Anne chiederà, infatti, di suonarle ‘solo’una delle sei bagatelle dell’opera 126 di Beethoven.
Tutto questo è amore. Resistere fino all’ultimo, fino alla fine. Ma anche appropriarsi dell’idea che sia possibile ed auspicabile gestire la fine. Il film non ti pone davanti ad una scelta. L’unica scelta è fra l’io e l’altro, l’amore e il suo rifiuto, la forza di resistere e l’abbandonarsi all’alibi di un ripiego impossibile.
Ancora una volta il rigore inflessibile, ma profondamente umano, di Haneke prevale. Eva piange di una commozione tutta interiore, fine a se stessa. Georges, marito di Anne, impersonato da un inarrivabile Jean-Louis Trintignant, inchioda la figlia ad una realtà elementare e terribile. L’occhio di Haneke non cede al sentimentalismo e, partecipe della precaria condizione dell’uomo, non distoglie il suo sguardo. Se il dolore invade la vita di un essere umano, solo l’oblio può alleviarlo e di questa verità testimoniano, sconvolgenti nella loro semplicità, le ultime immagini del film.
Enzo Vignoli
30 ottobre 2012
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stefano capasso
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martedì 2 dicembre 2014
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la vecchiaia che porta a chiudersi
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Anne e George sono una coppia di anziani che si trova ad affrontare la malattia di lei. Con il peggiorare delle sue condizioni, e la difficoltà di gestione della malattia, la coppia comincia ad isolarsi e ad escludere il resto del mondo, fino a rimanere soli
Un film, questo di Michael Haneke, che è una cronaca drammatica e spietata sulla terza età, sulla malattia che arriva a togliere efficacia e sulla necessità di autoescludersi da un mondo col quale non è più possibile comprendersi. Quello che rimane intatto è l amore che lega la coppia, che è la forza che tiene in piedi George fino all’ultimo nel suo accudire Anne. Interamente girato in interni, nella casa della coppia, con scene statiche, lunghe che insieme ai colori sottolineano le caratteristiche di questo periodo di vita, lento, quasi fermo, di umore malinconico e a volte rabbioso.
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Anne e George sono una coppia di anziani che si trova ad affrontare la malattia di lei. Con il peggiorare delle sue condizioni, e la difficoltà di gestione della malattia, la coppia comincia ad isolarsi e ad escludere il resto del mondo, fino a rimanere soli
Un film, questo di Michael Haneke, che è una cronaca drammatica e spietata sulla terza età, sulla malattia che arriva a togliere efficacia e sulla necessità di autoescludersi da un mondo col quale non è più possibile comprendersi. Quello che rimane intatto è l amore che lega la coppia, che è la forza che tiene in piedi George fino all’ultimo nel suo accudire Anne. Interamente girato in interni, nella casa della coppia, con scene statiche, lunghe che insieme ai colori sottolineano le caratteristiche di questo periodo di vita, lento, quasi fermo, di umore malinconico e a volte rabbioso.
Una descrizione della vecchiaia quella di Haneke , che è certamente tra le più drammatiche possibili, e che probabilmente non è l’unica.
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danko188
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venerdì 4 marzo 2016
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l'amour d'auteur
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Dopo averci raccontato una storia di bambini tedesca ne Il nastro bianco, Haneke torna in Francia per narrarci gli ultimi momenti dell’amore di Georges (Jean Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva), una coppia di ex docenti di pianoforte aventi un’unica figlia, Eve (Isabelle Huppert), figlia d’arte nonché affermata musicista.
Da un appartamento proviene cattivo odore, la polizia chiamata dai vicini vi fa irruzione affrettandosi ad aprire le finestre. Nella camera da letto giace il corpo esanime di una donna anziana. Da lì a breve lo spettatore più arguto non ci metterà molto a capire come sono si sono svolti i fatti.
Prima però, Haneke ci chiama a sederci, a spegnere i cellulari, a vietarci ogni registrazione audio o video.
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Dopo averci raccontato una storia di bambini tedesca ne Il nastro bianco, Haneke torna in Francia per narrarci gli ultimi momenti dell’amore di Georges (Jean Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva), una coppia di ex docenti di pianoforte aventi un’unica figlia, Eve (Isabelle Huppert), figlia d’arte nonché affermata musicista.
Da un appartamento proviene cattivo odore, la polizia chiamata dai vicini vi fa irruzione affrettandosi ad aprire le finestre. Nella camera da letto giace il corpo esanime di una donna anziana. Da lì a breve lo spettatore più arguto non ci metterà molto a capire come sono si sono svolti i fatti.
Prima però, Haneke ci chiama a sederci, a spegnere i cellulari, a vietarci ogni registrazione audio o video. Ci invita al rispetto. Le luci si spengono, si sentono le prime note.
Inizia lo spettacolo.
Un film sulla vecchiaia e la morte, banalmente detto. Un film in cui anche la macchina da presa sembra essere sotto l’influsso di questo male, le riprese statiche di Haneke ci fanno addentrare in una casa dell’alta borghesia in cui si respira sin da subito un clima di mesta solitudine, claustrofobia e algidità. I due ottantenni protagonisti trascorrono le lente giornate cimentandosi in letture di libri, giornali o riviste, ascoltando musica classica e di tanto in tanto assistere a concerti in una Parigi, città di quell'amour di cui non ci viene offerto il minimo scorcio.
Un giorno come tanti, durante una conversazione a tavolino come tante, Anne avverte una mancanza, Georges le parla, incitandola a rispondere, la scuote, lei fissa il vuoto impassibile: ostruzione della carotide. La condizione di Anne da quell’episodio in avanti peggioreranno irrimediabilmente, prosciugandole ogni energia. In questo climax di abbandono delle forze da parte di Anne, si slancia vigoroso l’amore di Georges, pronto a prendersi cura della povera consorte disabile come meglio può.
Credo sia in assoluto il film più lento che abbia mai visto e voglio sottolineare di come “lento” talvolta, non sia necessariamente un difetto. Le scene sono lunghissime e nel loro susseguirsi il tempo sembra davvero prosciugare, sequenza dopo sequenza, ogni accenno di spirito e qualsivoglia vitalità. Si arriva alla fine di questo film stanchi, con il peso di aver visto qualcosa che va a gravare sulla nostra mente, probabilmente una nuova coscienza. Molti faranno fatica ad apprezzare lo stile di Haneke se non lo si ha già assaporato prima, così come la fotografia di Darius Khondji (Seven, La nona porta), sempre volta al grigiore ma in fin dei conti perfettamente funzionale a quelle che dovrebbero essere le tonalità di un’opera funesta come questa.
Almeno un paio di invenzioni di Haneke sono straordinarie per quanto riguarda l’utilizzo del sonoro. La prima: durante la scena dell’ictus di Anne in cui Georges dimentica il rubinetto acceso, si allontana seguito dalla telecamera e il rumore dell’acqua d’un tratto cessa, ci avverte che Anne è finalmente tornata in sé. La seconda è invece un tranello cinematografico che ci ha giocato il vecchio mattacchione made in Baviera: quando Georges è seduto sulla poltrona del salone a guardare il pianoforte, Haneke ci fa credere che la musica proviene dallo strumento stesso suonato da Anne, che in realtà si trova paralizzata in camera da letto, la musica proviene da una registrazione che suo marito ascolta immaginando che sia lei ad interpretarla. Segnale che la stabilità dell’affranto Georges sta lentamente venendo meno.
Notevole l’utilizzo della musica adoperata dal regista in maniera molto dosata ma assai sapiente. Ennesimo voto di celebrazione nei confronti di Franz Schubert, il cui Trio op.100 sembrava quasi accompagnare Isabelle Huppert in un divino piano sequenza de La Pianista, tra l’altro utilizzato, seppur in maniera diegetica, da Stanley Kubrick nel suo Barry Lyndon.
La musica in Amour non gioca un ruolo determinante, ma arricchisce da ottimo elemento di contorno i toni lirici del film, garantendone un maggiore pathos.
Anche in questo film si assiste ad una ricerca approfondita delle relazioni umane e soprattutto familiari, ci viene mostrata un’altra faccia dell’alta/media borghesia rispetto al già citato capolavoro del 2001, Cachè e Il nastro bianco, la parte più vulnerabile, indifesa e direi anche più tenera, senza togliere una certa spietatezza in perfetto stile Haneke, qui piuttosto realistica.
Contrariamente, una differenza sostanziale rispetto agli altri lavori è la totale assenza di quei campi lunghissimi esterni a cui il regista ci aveva abituati. Tuttavia a questo proposito ci riserva un ulteriore colpo di genio venuto dalla sua abile mano registica e inventiva, quando in un serie di inquadrature a tutto schermo riprende bellissimi quadri sparsi per la casa dei protagonisti, quadri che rappresentano luoghi lontani, grandi spazi aperti. Una trovata formidabile.
Amour, film premiatissimo ma capace di dividere la critica, un film che vive di silenzi e di sguardi, di stralci di musica colta, di dolcezza e di piccoli gesti dediti ad un sentimentalismo sincero, che non vuol stupire, né strappare lacrime, solo raccontare portandoci probabilmente più risposte che domande. Non c’è da chiedersi “perché” davanti a ciò che si vede, c’è solo da prenderne atto, ci viene aperta una sola strada, quella del rispetto e della riverenza che ogni anziano meriterebbe e di cui purtroppo ci approfittiamo per ricevere qualcosa in cambio come nelle commissioni sbrigate da conoscenti e vicini di casa in questo film. Senza contare il trattamento riservato da una delle infermiere nei confronti di Anne, che non può che destare in chi guarda, una certa indignazione.
A vedere i nomi degli attori non ci sarebbe neanche il bisogno di parlarne, ma è curioso sapere che la grande Emmannuelle Riva ha esordito con Hiroshima mon amour di Resnais e con buona probabilità concluderà la carriera proprio con Amour. Mentre il gigante Trintignant ci ha regalato l’ultimo dichiarato saggio di bravura dopo 14 anni lontano dalle scene. Entrambi hanno collaborato con Kieślowski in due differenti film della fantomatica Trilogia dei Colori.
Haneke in vena anche di leggero autocitazionismo riproponendo la Huppert nella parte di una pianista e inquadrandola accanto al pianoforte con una tenda bianca ampia e luminosa sullo sfondo.
Voto 8.5
Danko188
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tunaboy
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martedì 29 giugno 2021
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recensione amour
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Nonostante la mia giovane età, ho sempre trovato l’incombente spettro della vecchiaia alquanto terrificante: l’idea di una totale dipendenza dalle cure altrui o di una mancata lucidità sono capaci di non farmi dormire la notte.
Nel suo film “Amour”, Michael Haneke traspone su pellicola un racconto che sembra personificare queste paure.
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Nonostante la mia giovane età, ho sempre trovato l’incombente spettro della vecchiaia alquanto terrificante: l’idea di una totale dipendenza dalle cure altrui o di una mancata lucidità sono capaci di non farmi dormire la notte.
Nel suo film “Amour”, Michael Haneke traspone su pellicola un racconto che sembra personificare queste paure.
Per le due ore del film seguiremo Georges e Anne, una coppia di musicisti in pensione, obbligati a fronteggiare il tema della malattia e dell’infermità: infatti, i due ictus subiti da Anne la condurranno in uno stato di disabilità dapprima parziale e successivamente totale. Il focus del film è, però, incentrato sul marito, inerme spettatore dell’ineluttabile decadimento della moglie, e sulla sua reazione a tale decadimento: Haneke riesce a trasporre in modo impeccabile l’enorme travaglio di Georges, il quale dovrà combattere con sé stesso e con gli altri per poter accettare le drammatiche condizioni. Finirà, così, per dedicarsi totalmente alla moglie, sacrificando sé stesso e la propria libertà.
Quando, però, riuscirà finalmente ad accettare la situazione, sarà obbligato a confrontarsi con la dura e straziante realtà: in un magistrale monologo, Georges racconta di quando da piccolo si trovò isolato a causa di una malattia, che gli rese impossibile anche comunicare con i suoi cari; in questo racconto riconosciamo la condizione dei due amanti, inesorabilmente divisi e distanti: ormai solo la morte può riconciliare i due.
Come tipico del regista austriaco, “Amour” è evidentemente permeato da un’estrema drammaticità e tristezza, ma quello che, a mio parere, più lo caratterizza è la struggente umanità: come ci suggerisce il titolo, il film ci vuole parlare dell’amore più estremo e struggente, ma anche più vero e umano. Non mancano infatti momenti di patetica tenerezza, e in alcune scene possiamo anche trovare qualche guizzo di ironia, entrambi complici nel dipingere l’assurda tragicità fornitaci dalla vita.
Il film risulta tecnicamente ineccepibile, nonostante in alcune scene sembri risentire della lentezza della narrazione, risultando difficile da seguire attentamente.
Ed è così che Haneke crea una delle più umane rappresentazioni di un tenero e resiliente amore e della grottesca drammaticità della vita.
Voto: 4.5/5
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gabriele.vertullo
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martedì 30 ottobre 2012
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la definizione dell'amore di haneke
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Amourè un fiore curvo, con i petali cadenti, ma che ancora conserva il suo dolce profumo e il caldo colore; dopo essere colto viene custodito e contemplato nel suo spegnersi lentamente. Michael Haneke conferma di essere un regista profondo e dai temi scabrosi, che indaga coraggiosamente e ossessivamente nei meandri della realtà umana, analizzando questioni e categorie fissate nell’immaginario collettivo da una prospettiva insolita, al limite del rovesciamento. Questa volta ci mostra la sua definizione dell’amore, devoto e inscindibile, fatto di piccoli ma significativi e costanti gesti, che trova la sua massima espressione in un’anziana coppia.
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Amourè un fiore curvo, con i petali cadenti, ma che ancora conserva il suo dolce profumo e il caldo colore; dopo essere colto viene custodito e contemplato nel suo spegnersi lentamente. Michael Haneke conferma di essere un regista profondo e dai temi scabrosi, che indaga coraggiosamente e ossessivamente nei meandri della realtà umana, analizzando questioni e categorie fissate nell’immaginario collettivo da una prospettiva insolita, al limite del rovesciamento. Questa volta ci mostra la sua definizione dell’amore, devoto e inscindibile, fatto di piccoli ma significativi e costanti gesti, che trova la sua massima espressione in un’anziana coppia.
Georges è un marito premuroso e amorevole, Anne è una donna mite e determinata, che vivono l’ultima fase della loro vita con tranquillità e notevole affiatamento. L’improvvisa paralisi e progressiva degenerazione delle facoltà psicofisiche di Anne, li porterà da un lato a consolidare il sincero sentimento che li lega rapportandosi con molteplici difficoltà, dall’altro a dissociarsi dalle persone che li circondano (in particolare la loro figlia Eve),che propongono inutili e lontane degenze terapeutiche, ignari dell’indissolubile filo che li lega.
Amourè un film immobile, che si sviluppa essenzialmente nell’elegante dimora dei due coniugi, indugiando su inquadrature ferme e silenziose: spazi, angoli e volti assumono una forte carica espressiva, così che ogni minima vibrazione e deviazione è avvertita come un violento terremoto o un improvviso deragliamento.
Lo stile registico di Haneke è matematico e chirurgico, insiste sulla ricostruzione sensibile e scrupolosa delle giornate dei due anziani e della loro lotta alla malattia. Gli accorti gesti di Georges e i consueti discorsi quotidiani mettono in moto e danno impulso a una storia fortemente radicata nel realismo e nell’essenzialismo più voluto e studiato, caratterizzato da una narrazione asciutta, ma delicata, che evita ogni vana e superflua retorica. Il tutto è supportato dall’interpretazione solida e straordinaria dei due protagonisti (Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva) nucleo e pilastri del racconto, che rendono quasi inadeguata e ingiustificata la presenza di una grandissima attrice quale Isabelle Huppert.
Dopo gioie passate ed esperienze vissute ecco che sopraggiungono sofferte trasformazioni , paure, follie e deliri; ma tutto passa e finisce, l’unica cosa che resta è l’amore, pacifico ed eterno, con un finale inafferrabile e poetico.
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shiningeyes
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mercoledì 27 marzo 2013
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un po' esagerato haneke
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Michael Haneke è un maestro quando si tratta di dirigere opere che indagano i più profondi rapporti psicologici umani, che passano da quelli più problematici e perversi (“La pianista”) a quelli più romantici di quest'ultimo, “Amour”.
L'analisi romantica di “Amour” è vista e gestita con molta profondità e tenerezza, fino a diventare un ammasso di pietismo e compassione che ci deprime pesantemente.
“Amour” è un viaggio doloroso ed angosciante, dove la cinepresa di Haneke fluttua impietosa nel mostrare il decadimento fisico dell'anziana Anne e il decadimento psicologico del marito Georges, che man di mano nel seguitare del film diventa sempre più straziante, facendo si, che tu desideri ardentemente di vedere una fine che tutti noi possiamo aspettarci.
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Michael Haneke è un maestro quando si tratta di dirigere opere che indagano i più profondi rapporti psicologici umani, che passano da quelli più problematici e perversi (“La pianista”) a quelli più romantici di quest'ultimo, “Amour”.
L'analisi romantica di “Amour” è vista e gestita con molta profondità e tenerezza, fino a diventare un ammasso di pietismo e compassione che ci deprime pesantemente.
“Amour” è un viaggio doloroso ed angosciante, dove la cinepresa di Haneke fluttua impietosa nel mostrare il decadimento fisico dell'anziana Anne e il decadimento psicologico del marito Georges, che man di mano nel seguitare del film diventa sempre più straziante, facendo si, che tu desideri ardentemente di vedere una fine che tutti noi possiamo aspettarci.
Strazio e dolore a parte, si tratta di una realizzazione concepita nei minimi dettagli, d'effetto, la quale noi non possiamo far altro che sentirci annientati.
Riconoscendone il valore, posso dire comunque che Haneke ha calcato la mano nel comporre quest'opera fatta di una pena che non finisce mai, nonostante duri due ore.
Però, è sempre un piacere vedere attori di esperienza e bravi come la coppia Tritignat/Riva, la cui recitazione sembra più naturale che mai, in un ruolo che potrebbero malauguratamente recitare dal vero, visto l'età (facciamo le corna); non c'è che dire, veramente bravi.
“Amour” è da vedere per la sua splendida, anche se esagerata, regia cinica, nel quale un professionista come Haneke ne è uno dei maggiori e illustri esponenti.
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johnny1988
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domenica 30 novembre 2014
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amour - m.haneke, 2012
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Tenuto a lungo in archivio nella lista dei "film da vedere", "Amour" si rivela essere una di quelle pellicole rare che varrebbe la pena non lasciarsi sfuggire al cinema, o, meglio ancora, ai festival. Ho visto il film in una copia in qualità scarsa, con un audio registrato in sala proiezione, in cui riecheggia il mugolio sordo di una signora devastata dalla tosse, che mio padre, durante la visione, ha giustificato come un suono fuori campo - "forse un personaggio immaginario dello spazio scenico, forse è il regista!". Dopo un anno di accademia di Cinema presso la "Rosencrantz & Guildenstern - Laboratori di Cinema e Teatro Potenziali" e dopo lo studio di regie come Martel, Chantal, Dardenne, la saturazione è arrivata a un punto tale da pormi l'ansia se fossi più in grado di osservare il Cinema senza l'influenza di qualche insegnante.
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Tenuto a lungo in archivio nella lista dei "film da vedere", "Amour" si rivela essere una di quelle pellicole rare che varrebbe la pena non lasciarsi sfuggire al cinema, o, meglio ancora, ai festival. Ho visto il film in una copia in qualità scarsa, con un audio registrato in sala proiezione, in cui riecheggia il mugolio sordo di una signora devastata dalla tosse, che mio padre, durante la visione, ha giustificato come un suono fuori campo - "forse un personaggio immaginario dello spazio scenico, forse è il regista!". Dopo un anno di accademia di Cinema presso la "Rosencrantz & Guildenstern - Laboratori di Cinema e Teatro Potenziali" e dopo lo studio di regie come Martel, Chantal, Dardenne, la saturazione è arrivata a un punto tale da pormi l'ansia se fossi più in grado di osservare il Cinema senza l'influenza di qualche insegnante. "Amour" arriva al cuore dell'umanità con la piattezza di un quadro, con un lavoro di sottrazione tanto caro al cinema francese vecchio più di trent'anni e con la genuinità di uno sguardo fotografico di reportage. Georges e Anne sono un'anziana coppia di pianisti che si godono la pensione. Due ictus colpiscono l'anziana consorte, degradandole lentamente il fisico e la dignità. Laddove qualcuno giocherebbe con immagini forti di compiacimento, Haneke registra il progressivo annientamento fisico di una donna e quello psicologico del suo uomo. Mantenendosi a una certa distanza dalla coppia, con inquadrature immobili, dove anche il silenzio racconta, Haneke più che dirigere, narra della miseria, della vecchiaia, della relazione umana, partecipa al declino con un approccio - definito dai più - "entomologico", ma capace di muovere la compassione, senza lasciar spazio a giudizio alcuno: il bagno di Anne, nuda nella doccia, ridotta a vegetale, seminascosta da un'ingombrante infermiera, è da antologia. Applauditissimo a Cannes, vincitore della Palma d'Oro e dell'Oscar, questo titolo sa smuovere l'attenzione collettiva e individuale e meriterebbe un posto nella didattica, non "Il Giovane Favoloso".
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