Il Rito |
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Un film di Mikael Hafström.
Con Anthony Hopkins, Colin O'Donoghue, Alice Braga, Toby Jones, Ciarán Hinds.
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Titolo originale The Rite.
Thriller,
durata 114 min.
- USA 2011.
- Warner Bros Italia
uscita venerdì 11 marzo 2011.
- VM 14 -
MYMONETRO
Il Rito
valutazione media:
2,32
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Rituale horror (?) esorcistico, noiosetto e bolso.di davidestanzioneFeedback: 22976 | altri commenti e recensioni di davidestanzione |
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giovedì 17 marzo 2011 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Inutile invocare i fasti ineguagliabili del passato e quel capolavoro della settima arte che era “L’esorcista” , ineguagliata opera di assoluto spessore (non solo) horrorifico. Qualsiasi film più o meno incentrato sugli esorcismi scolorisce fino a stramazzare al suolo agonizzante, a confronto col colosso di Friedkin, che seppe bucare come nessun altro l’immaginario collettivo influenzando indelebilmente i successivi valzer liturgici del cinema de paura. Davvero pochi film a sfondo esorcistico (sequel dell’originale inclusi) sono riusciti nell’ardua impresa di risultare “originali con stile” senza richiamare giocoforza alla memoria quel filmetto dell’73 con la bavosa Linda Blair: ce l’hanno fatta Carpenter l’autor-artigiano schizoide e il suo “Il signore del male”, il ruvido e brutale “Requiem” del tedesco Hans Christian Schmid, l’alterno “The exorcism of Emily Rose” (un po’ vessato da ingombranti ricostruzioni processuali e da puntigliosità analitiche notoriamente indigeste al genere) e perfino il recente, sperimentale “Il quarto tipo”, solo per citarne alcuni. “Il Rito” invece (così come il deprecabile “L’ultimo esorcismo”, intravisto giusto qualche tempo grazie al dispendio produttivo di Eli Roth) può a buon diritto NON essere inserito in tale, selezionatissimo, elenco. L’impianto del film del modesto artigiano svedese Mikael Hafstrom, già regista dell’apprezzabile Derailed e dell’inguadabile 1408, è da puro thriller sempliciotto, grossolanamente imbastito, ma l’autentico problema stilistico de “Il Rito” è a conti fatti interno, quasi ideologico: nonostante il film rivendichi da più parti un’anima irrazionale, in realtà gli manca il coraggio e la sfrontatezza per essere davvero un tributo all’insondabile e all’indicibile come lo furono, a loro tempo, i capolavori degenere di “gentaglia” come John Carpenter. Al di là dei mostri sacri (come detto è sempre meglio lasciarli da parte), risulta davvero insopportabile sorbirsi in un contesto horror (?) un impianto narrativo così saggistico, circostanziale e telefonato come quello de “Il Rito”, in cui la costruzione di un’atmosfera ad hoc in grado di preludere efficacemente al brivido ipocutaneo è come congelata, bolsa, tagliata con l’accetta: si vaga in una nebulosa Roma da cartolina argentiana e si fa leva su conferenze troppo scientifiche ed esplicative e troppo poco formicolanti, per nulla in grado di stuzzicare o irretire. Gli intermezzi di chirurgia entomologica e i flashback che riesumano un Rudget Hauer d’annata appesantiscono non poco, e la patina moscia del prodotto si ispessisce ulteriormente quando la sceneggiatura comincia a rivendicare con insistenza la sua assoluta aderenza alla realtà: “Che ti aspettavi, testa ruotanti, zuppe di piselli?!” chiede con pungente sarcasmo il padre Lucas interpretato da Anthony Hopkins al giovane (non ancora) prete Michael, dubbioso, monofacciale giovane dalla forma mentis alquanto illuminista che (non a caso) sta seriamente pensando di sottrarsi all’abito talare. Il fatto è che sì, ci aspettiamo tutti le teste ruotanti di friedkiana memoria: al cinema la paura non può e non deve essere manualistica, moscia, noiosetta, se non spettacolarizzata di fatto finisce col funzionare assai poco. Così come funziona assai poco quest’ultimo rituale, reiterato thriller (para)religioso che anziché rinverdire e rimpolpare il genere con ogni probabilità verrà dimenticato alla velocità della luce. Il buon Hafstrom a onor del vero un po’ ci prova, a strappare il fremito: le scene clou sono girate con toni musicali epicizzanti, in crescendo, ma la messa in scena plastica non travalica quasi mai la quarta parete dello schermo, se non in occasionali escursioni inquietanti dovuti più a suggestioni pregresse dello spetttatore che ad altro. La sensualità destabilizzante delle possessioni demoniache non destabilizza affatto, e perfino la metamorfosi finale di un attore di razza come sua maestà Anthony Hopkins appare un’operazione di pura maniera e di vana pedanteria cinefila. Hai Hopkins, e ovviamente gli cuci addosso un alter Lecter, non fa una grinza. A riconferma di quanto “Il Rito” sia un film mogio e a dir poco parco d’adrenalina ossessionante, basta guardare il finale: nessuna sfrontatezza da B-Movie, niente di niente. Pura, placida chiusura del cerchio. Ha ragione Argento: le storie vere, nell’horror, finiscono con l'essere stupidaggine insulse, vane e anche un po’ vanitose.
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