Un anziano porporato, incurvato dagli anni, se ne sta seduto in ultima fila, invisibile e forse indifferente alla competizione in atto, sotto l’incombere della grandiosità degli affreschi michelangioleschi. Galleggia sereno nel mare dell’improbabilità, mentre davanti a lui, tra speranze e preghiere contrapposte (Dio, fa che non sia io!), gli altri contendenti assistono agli esiti monotoni dell’urna, da cui escono alternandosi i tre o quattro nomi dei candidati più forti. Poi improvvisamente cambia tutto: un solo nome rimbomba nella cappella blindata e, scheda dopo scheda, lievita l’eccitazione dei presenti, fino al definitivo responso: è l’apoteosi dell’outsider. Stavolta è fumata bianca, le campane impazziscono, la folla esplode dopo lunga attesa. La finestra si popola di figure osannanti che preannunciano l’epifania, l’altoparlante diffonde le formule di rito, ma l’evento tarda a manifestarsi. L’ultraottantenne porporato, udita la proclamazione che accetta distrattamente, deflagra. L’improbabilità è divenuta certezza, il co-artefice degli altrui destini è divenuto il destinato, il disagio si trasforma in panico. No, davanti all’immenso potere senza confini che gli viene offerto, carico di responsabilità, di impegni, di fatica, si sente troppo piccolo per esserne all’altezza, e la sua mente vacilla mentre guarda la finestra che dovrebbe mostrarlo al mondo consacrando davanti ad una sterminata moltitudine il suo volto e la sua investitura. La finestra lentamente si svuota, e tra le tende rosse appare un buco nero pieno di mistero e di incertezza. La piazza ammutolisce.
Comincia così un viaggio introspettivo che il nuovo Vicario di Cristo intraprende per risolvere i suoi dilemmi; lui non si sente il più bravo, come è sicuro di essere (“me lo dicono tutti”) lo psicanalista chiamato in fretta e furia dai cardinali attoniti e che ben poco può fare davanti ad un caso così anomalo. Ha bisogno di tempo e soprattutto di astrarsi dalla gabbia dorata nella quale si è sviluppata la sua identità di uomo di vertice di chiesa; ora ha bisogno di ricercare la sua identità di uomo, scrostata dai ruoli, dagli obblighi della fede, dai riti, da ogni tipo di schiacciante condizionamento. In fuga anonima nel mondo pulsante della città, che conosceva solo indirettamente attraverso i filtri della curia, si sperde tra la gente comune, vi si mescola e si confronta, sapendo che solo attraverso una full immersion tra i suoi simili può trovare l’essenza della propria dimensione umana e scoprire i propri limiti senza intermediazioni convenzionali, senza maschere; solo così è in grado di considerare il potere, l’immenso potere di un impero transnazionale e senza confini non più come inderogabile dovere ma come una libera scelta. La decisione da assumere sarà quindi consequenziale, anche se ai limiti della blasfemia (la trasgressione dell’imprimatur divino). Terminato il sofferto percorso di autoanalisi, potrà serenamente affrontare la finestra e sbandierare la ritrovata umanità.
Il Moretti autore ci regala un film sull’umanesimo, sul diritto di ciascuno di sentirsi inadeguato ad assumere missioni che travalichino i propri limiti, sull’umiltà di riconoscere le debolezze, la fallacia, la capacità di sbagliare quali tratti comuni imprescindibili dell’essere umano, qualunque sia il ruolo che si è chiamati a ricoprire, sulla grandezza ed il coraggio di riconoscere di non essere all’altezza di compiti ai limiti del sovrumano, per il bene non tanto di sé ma di chi dello svolgimento di quei compiti sarà beneficiario. Un film sulla solitudine, poiché davanti a certe decisioni vitali non ci sono psicoanalisti, colleghi di fede o sodali di percorso che possano aiutarci, siamo soli con le componenti della nostra dimensione interna fatta di pensiero, sensazioni, emozioni, esperienze, la cui risultante è il frutto della nostra libera identità personale. Dopo il Caimano, incentrato sulla perversione del potere e la degenerazione umana, Habemus Papam sottolinea il rapporto variabile tra valori e potere e riabilita la forza dell’umiltà e del riconoscimento della limitatezza della natura umana.
Il Moretti regista ci offre un’opera perfettamente equilibrata dove non c’è una sola immagine di troppo né un solo passaggio lacunoso, dove l’alternarsi della commedia e del dramma non impedisce lo scorrere fluido di una vicenda, peraltro articolata in due piani: quello del coro orfano del nuovo Padre ed in attesa degli eventi, e quello del protagonista in cerca di se stesso, che confluiranno nella grande performance finale (teatro nel teatro).
Il Moretti attore porta la verve e l’ironia tipica del suo cinema; il terapeuta che, per non smentire la sua convinzione di essere il più bravo durante una forzata pausa professionale, organizza passatempi ludici per i vegliardi, risvegliandone reminiscenze giovanili.
Come era prevedibile, l’uscita del film ha generato un ginepraio di giudizi e posizioni, soprattutto in ambito cattolico, spesso negative fino ad arrivare all’invito al boicottaggio nelle sale cinematografiche. Ma a torto, perché non una sola immagine o frase o semplice parola, per quanto laica, contiene alcunché di irrispettoso nei confronti delle gerarchie vaticane o della chiesa in generale, ma al contrario il film dimostra che in natura non esistono supereroi e, quanto a connotati fondamentali, tutti gli uomini sono uguali, non esclusi coloro che sono chiamati ad alte missioni. Quanto al grande Michael Piccoli, ogni parola è superflua: non credo che un altro attore avrebbe reso meglio il personaggio così come è stato concepito dagli autori. Splendido.
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