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Il mondo dei replicanti riporta al cinema il concetto di comando a distanza di un altro corpo

Willis torna in un film d'azione.
di Gabriele Niola

Dal robot al surrogato, gli umani non umani del cinema
Bruce Willis (Walter Bruce Willis) (70 anni) 19 marzo 1955, Idar-Oberstein (Germania) - Pesci. Interpreta L'agente Greer nel film di Jonathan Mostow Il mondo dei replicanti.

giovedì 7 gennaio 2010 - Approfondimenti

Dal robot al surrogato, gli umani non umani del cinema
Il rischio di Il mondo dei replicanti era quello di avvicinarsi troppo alla saga di Terminator, impiegando il regista del terzo film e gli sceneggiatori del quarto, invece il risultato (dal punto di vista delle scelte visive) sembra guardare più a Matrix e al trasferimento di coscienza in un luogo altro che ai robottoni omicidi.
Ognuno ha una sua idea di come sia il nostro futuro dunque ogni film ha una sua idea di come interagiscano quelle componenti che solitamente amiamo vedere nella fantascienza. Una delle più comuni sono proprio i finti uomini. Golem, robot, umanoidi, androidi, replicanti, terminator, droidi o infine surrogati, il punto rimane sempre il medesimo: un essere finto e non vivente dotato di intelligenza propria (solitamente artificiale) o che, e questo è il caso di Il mondo dei replicanti, è controllato da un essere umano in un altro luogo. Concetto che tra poco sarà alla base anche di Avatar.
In ogni caso il problema è sempre stato quello di rendere l'entità in questione umana ma non troppo, in grado di ingannare i personaggi e in qualche caso anche gli spettatori, senza essere però identica in tutto e per tutto ad un uomo. Solitamente si procede in senso inverso al normale, ovvero non si crea qualcosa di simile ad un uomo ma si fa recitare un attore in modo innaturale così da sembrare artificiale. Per Il mondo dei replicanti però serviva qualcosa di ancora diverso perchè i surrogati del film per definizione devono sembrare migliori delle loro controparti reali le quali scelgono di agire attraverso di loro proprio perchè più performanti di un corpo di carne.

Tra digitale usato male apposta e make-up
I surrogati di Il mondo dei replicanti sono troppo perfetti e per questo poco umani. Sono belli, alti, forti e atletici perchè i personaggi li scelgono per essere migliori del loro corpo reale. Per rendere questo si procede in due fasi, prima si invecchiano e si danneggiano visibilmente i corpi veri (e con queste cose Bruce Willis ci va a nozze), secondo si elaborano digitalmente le immagini dei surrogati per renderle irreali, con il risultato che sembrano un effetto visivo fatto male.
Il surrogato che ha necessitato del lavoro più duro è stato ovviamente quello protagonista di Bruce Willis. L'attore è stato scannerizzato digitalmente per crearne un modello controfigura di bit, poi ripulito all'inverosimile, levandogli rughe e segni del tempo fino a che il volto non appare inverosimilmente giovane. Eternamente bloccato in un'età fuori dal tempo.
"Ballavamo sul crinale della perfezione" spiega il supervisore agli effetti visivi "e se avessimo fatto tutto quello che Jonathan [Mostow, il regista ndr] ci chiedeva avremmo prodotto qualcosa che sembrava un brutto lavoro. Ma a pensarci, quel look è esattamente quello che il film richiede".
La controfigura digitale, pulita e perfetta, che fa da surrogato a Bruce Willis viene progressivamente sporcata, quando il film la coinvolge in sequenze d'azione, seguendo sempre il criterio di apportare le modifiche al computer così che sembrino innaturali.
Proprio per continuare a rafforzare l'effetto di "falsità" del surrogato quando questi vengono smembrati o aperti e si intravede lo scheletro metallico sotto la pelle sono stati utilizzati solo effetti di trucco. Pellicole di finta pelle ed esoscheletri indossati da attori, perchè il surrogato spento sembrasse esattamente ciò che è stato utilizzato sul set: un oggetto.

Design da trasferimento di coscienza: le lampade abbronzanti
Tutto il senso di un film come Il mondo dei replicanti sta nei replicanti in questione (che il film chiama surrogati ma che la traduzione italiana fa diventare dickianamente "replicanti"), ovvero i corpi robotici che popolano il film. Essi devono essere meno umani degli umani e più perfetti, devono essere digitali quando il corpo umano è analogico per comunicare ansia distopica al pari di familiarità tecnologica.
Il punto è che la fantascienza al cinema ha senso nella misura in cui riesce a trovare una dimensione primariamente estetica in grado di parlare di futuro, suggerendo con immagini, oggetti, luoghi o suggestioni visive ciò che non c'è ma potrebbe arrivare. Grande importanza ha quindi da sempre il design degli ambienti e degli oggetti. Già Matrix metteva in scena il trasferimento della coscienza umana ad un'altra entità attraverso la quale compiere cose altrimenti impossibili posizionando il personaggio su una sedia da dentista e "loggandolo" ad un'immaginaria rete che fa da connettore tra il sè interiore e quello fittizio grazie ad un grosso cavo infilato nella nuca (come già si faceva con più brutale carnalità in eXistenZ). In quel caso il design era volutamente spartano per suggerire la precarietà anche tecnologica di un mondo allo sfascio nel quale non c'è spazio per un concezione industriale degli oggetti e quindi non esiste il design ma solo la rielaborazione di oggetti già esistenti (la sedia simile a quella del dentista). Il mondo dei replicanti messo in scena da Jonathan Mostow però parlando di un tempo in cui il trasferimento di coscienza è fatto a livello industriale, attraverso prodotti comprati e venduti, utilizza un lettino da analista e un dispositivo simile ad una lampada abbronzante per dare l'illusione dello spostamento di coscienza senza elaborare nulla di nuovo in termini di immagine. E tra qualche settimana anche Avatar replicherà il modulo "lampada abbronzante" per mettere in scena un'altra tipologia di trasferimento della coscienza verso un corpo estraneo.
Un cunicolo in cui inserire la testa, occhialini da apporre sugli occhi e infine lucine che illuminano il viso suggerendo l'attivazione del dispositivo corrispondono ad un immaginario che è tutto fuorchè nuovo e che rimanda a tecnologie poco innovative e per nulla suggestive. Aveva ragione Matteo Garrone nel girare la scena d'apertura di Gomorra in quel centro abbronzante nel quale sembra di essere in un film di fantascienza.

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