Io politicamente scorretto (e Ammaniti mio complice)
di Federica Lamberti Zanardi Il Venerdì di Repubblica
In Come Dio comanda un padre insegna al figlio a essere «maschio» e violento. Eppure, suscita simpatia e comprensione: Così, sapendo che il film realizzato con lo scrittore farà discutere. Il regista dice: «Io non ho paura».
Piove che Dio la manda, il bosco è un groviglio di rovi e di fango, il cielo un buco nero che vomita lampi: due uomini urlano di rabbia e dolore. La cena è il cuore di Come Dio comanda, l'ultimo film di Gabriele Salvatores, tratto dal romanzo di Biccolò Ammaniti (Premio Strega 2007). Il regista e lo scrittore, che ha partecipato alla sceneggiatura, si sono dunque ritrovatiancora insieme cinque anni dopo il successo di Io non ho paura.
Gli attori, sotto quel diluvio universale, in una terra gelida e desolata raccontano di un omicidio, di uno stupro, di follia e emarginazione. Le riprese sono state realizzate in Friuli, dove soffia un vento ghiacciato e la natura pare sul punto di esplodere. «Il paesaggio dei luoghi cari a Pasolini ha fatto da sfondo al tormento interiore dei protagonisti». Dice Salvatores, mentre scorrono sullo schermo alcune immagini che il regista ci ha mostrato in anteprima. Il film sarà nelle sale dal 12 dicembre, ma durante il Courmayeur Noir in Festival, Salvatores e i suoi attori leggeranno poesie e testi di autori legati alla storia raccontata da Ammaniti.
Delle cinquecento pagine del romanzo il regista e lo scrittore hanno tagliato trame e personaggi e isolato il nucleo essenziale: il rapporto fra un padre e un figlio, che, come in una tragedia greca, si evolve a causa di un evento drammatico. Rino Zena (interpretato da Filippo Timi) è un emarginato, un uomo sconfitto che cerca una rivincita: fascista, anzi nazista, educa suo figlio alla violenza. Ma, paradossalmente, lo fa con molto amore. Cristiano (Alvaro Caleca) ha 14 anni e un'ammirazione smisurata per suo padre: il legame è forte, radicato, primordiale. Accanto a loro, Quattro Formaggi, il «matto», il folle shakespeariano, divenuto «strano» dopo un incidente. Sullo sfondo, il profondo Nord italiano, con gli immigrati che «tolgono» posti di lavoro, le sue indifferenze, la sua violenza sotterranea. Nella notte di pioggia accade qualcosa che cambierà le vite di tutti.
La storia è potente, il film pieno di sfumature e di livelli di interpretazione, girato con camera a mano, con quella intelligenza emotiva che hanno tutti i film di Salvatores, quella capacità di commuovere in modo lieve e sommesso.
Rino Zena ha svastiche disegnate sui muri di casa, una pistola, che «è la vera libertà», il culto della forza fisica. Eppure, alla ime, non si può fare a meno di essere dalla sua parte. Vi accuseranno di essere politicamente scorretti. «Sì, penso che accadrà e non mi fa paura. Sono sempre stato di sinistra, ma penso sia venuto il momento di riflettere su certe cose». Anche sul diritto al lavoro degli immigrati?
«Rino non ce l'ha con loro, ma con i padroni, con chi sfrutta il lavoro della povera gente: prima hanno spremuto italiani come Quattro Formaggi, poi sono passati ai romeni, ai cinesi, ai senegalesi. Una lotta fra poveri. Ma il senso di appartenenza alla propria terra, che Rino esprime, è un sentimento nobile, da salvare».
Quando scopre che il figlio in una rissa le ha solo prese, Rino si sente colpevole di non avergli insegnato a difendersi e dice: per saper fare a botte non bisogna essere campioni di karate, ci vuole solo cattiveria. Scorrettissimo.
«Vede, io penso che Rino sia un archetipo che questa società ha rimosso, negando così una vera identità a noi uomini. Lui, per insegnare a vivere a suo figlio, deve dargli il senso del limite, il coraggio, la capacità di superare la sofferenza. Sarà un padre politicamente scorretto, ma è un padre con cui confrontarsi. Pasolini diceva: un po' di bastone ogni tanto, per favore».
Vuole dire che gli anni Settanta hanno dato un colpo mortale alla figura del padre?
«Non ho figli, però se ne avessi uno vorrei avere con lui il rapporto che Rino ha con Cristiano: indissolubile e fondato sull'amore e la fiducia totale. La confusione dei ruoli che è nata negli anni Settanta è stata sicuramente salutare, ma ha portato con sé molti danni, primo fra tutti la fuga dei padri. Vedo intorno a me donne che crescono i figli da sole e soprattutto ragazzi disorientati dall'assenza di qualcuno che dia loro un limite e insegni anche a gestire l'aggressività, la violenza che fa parte della natura maschile».
Lei, che ha raccontato storie di uomini anche in Mediterraneo, che idea ha della «natura maschile»?
«Lo scrittore israeliano Meir Shalev, nel suo romanzo Per amore di una donna, scrive: "I fringuelli, d'inverno, si separano dal coniuge. Mentre le femmine si dirigono verso sud, i maschi rimangono a proteggere il nido e a gelare di freddo, solitudine e nostalgia. Quando la femmina torna, stanca ma piena di sole, lui capisce tutta la riconoscenza che c'è nell'amore". Non è vero che è la donna l'angelo del focolare, sono gli uomini che devono tenere saldo il nido».
Come mai ha scelto, per il ruolo di Rino, Filippo Timi? Molto bravo, ma poco noto.
«Ho dovuto combattere per averlo. I produttori dicevano: sì, è bravo, ma non è ancora famoso. A Filo, quando lo conosci, non puoi fare a meno di volere bene. La sua capacità di trasmettere le emozioni nasce dal dolore profondo che si porta dentro, come lui stesso ha raccontato in un libro, in seguito a un abuso subito da ragazzino». L'interpretazione di Elio Germano di Quattro Formaggi a volte sfiora il grottesco e un po' anche infastidisce.
«Quattro Formaggi è un personaggio ambiguo, non così ingenuo come sembra all'inizio. Ë il buffone di corte che dietro il sorriso nasconde un fondo malvagio. Sa di avere dentro di sé qualcosa di oscuro. Che, infatti, all'improvviso dilaga. Volevo che s'avvertisse questa ambiguità». Alvaro Caleca, un esordiente, sembra nato per il ruolo di Cristiano. Come l'avete trovato? «Dopo quattrocento provini. Ma la scelta è stata felice. Sul set, fra lui e Timi si è creato un vero rapporto paterno. Filippo gli faceva perfino fare i compiti».
E tutta quella pioggia? Fa venire l'angoscia solo a guardarla. «Abbiamo usato 150 mila litri di acqua. Era notte, faceva un freddo cane, il fango ci entrava dappertutto. Quando tornavamo stremati in albergo eravamo così infangati che non ci facevano entrare se non ci lavavamo prima con l'idropulitrice».
Da Il Venedì di Repubblica, 27 Novembre 2008
di Federica Lamberti Zanardi, 27 Novembre 2008