The Road to Guantanamo

Roberto Nepoti

Tre anni fa Michael Winterbottom vinse l’Orso d’oro per Cose di questo mondo, dramma sulle peregrinazioni di due giovani rifugiati afghani raccontano con tratti di realismo documentaristico. Il suo ritorno alla Berlinale prosegue, in un certo senso, il discorso di allora; ma lo fà in modo ancor più radicale e importante. Perché il cineasta britannico, che questa volta condivide la regia con Mat Whitecross, non soltanto affronta un tema difficile come le torture a Guantanamo, ma adotta un partito preso linguistico che richiede coraggio: fare, della rinuncia alla “stilizzazione” uno stile.
Fino dalle prime inquadrature il viaggio di quattro pakistani emigrati in Inghilterra — Asif, Ruhel, Shafiq e Monir, ma quest’ultimo morirà - è narrato come un reportage o come un “film di famiglia” dalle immagini sgranate e mobili. Partiti per celebrare una festa di matrimonio, i ragazzi compiono una deviazione del tragitto, affrontandola come un’avventura: andranno in Afghanistan per aiutare la popolazione in pericolo.
Il loro arrivo a Kandahar, però, coincide con il primo bombardamento americano; ostaggi dei Talebani, finiscono in un camion container in cui molta gente muore per soffocamento; quindi cadono nelle mani delle truppe Usa. La loro odissea culmina nel trasferimento alla base cubana di Guantanamo, dove sono interrogati e sottoposti a torture fisiche e morali, Partiti nell’autunno del 2001, torneranno in libertà solo tre anni dopo.
Road to Guanranamo è una “via crucis” epica, però rappresentata senza il minimo accenno di retorica. L’intonazione realistica, a metà tra ricostruzione e reportage (con materiali d’archivio e interviste al personaggi reali), mobilita la memoria dello spettatore animando le immagini, viste tante volte sui giornali e in tv, dei detenuti con la tuta arancione e la testa nascosta in un sacco nero, che corrono nudi tra i latrati dei dobermann. Scene così eloquenti che la cinepresa non ha bisogno di enfatizzarle, poiché un uso retorico della regia non farebbe che smussarne l’efficacia.
Consapevole di ciò, Winterbottom lascia che le situazioni si commentino da sé; anche quando insinua note di umorismo amaro, come l’insostenibile pretesa, da parte degli inquisitori, che i ragazzi siano riconoscibili in un video accanto a Osama Bin Laden e Mohammed Atta. Le immagini – in altre parole - si possono far mentire; ed è proprio per questo che occorre mantenerle il più possibile aderenti alla realtà.
Da La Repubblica, 15 febbraio 2006


di Roberto Nepoti, 15 febbraio 2006