Straordinario esordio alla regia dei fratelli Hughes nel loro primo lungometraggio, girato sulla scia del successo di Spike Lee nel raccontare l’emarginazione dei giovani afroamericani negli USA, ambientato negli anni ’90 in California a Watts, un quartiere dormitorio di Los Angeles, un ghetto abitato per lo più da povera gente di colore, ispanica ed orientale. Il film è la storia di uno dei tanti ragazzi di quel ghetto cresciuto in una famiglia di criminali, madre tossicodipendente e padre spacciatore ed assassino, allevato dai nonni, che cercano invano di insegnargli con l’amore ed i sermoni i valori tradizionali, in un posto dove regna il degrado e la violenza ed ai giovani non è lasciata altra scelta se non delinquere o fuggire emigrando altrove in cerca di fortuna.
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Straordinario esordio alla regia dei fratelli Hughes nel loro primo lungometraggio, girato sulla scia del successo di Spike Lee nel raccontare l’emarginazione dei giovani afroamericani negli USA, ambientato negli anni ’90 in California a Watts, un quartiere dormitorio di Los Angeles, un ghetto abitato per lo più da povera gente di colore, ispanica ed orientale. Il film è la storia di uno dei tanti ragazzi di quel ghetto cresciuto in una famiglia di criminali, madre tossicodipendente e padre spacciatore ed assassino, allevato dai nonni, che cercano invano di insegnargli con l’amore ed i sermoni i valori tradizionali, in un posto dove regna il degrado e la violenza ed ai giovani non è lasciata altra scelta se non delinquere o fuggire emigrando altrove in cerca di fortuna.
La voce narrante del protagonista ricorda quella di Ray Liotta in Quei bravi ragazzi di Scorsese. Il ritmo delle riprese è sincopato, scandito dalla musica hip hop di Quincy Jones III che ha curato la colonna sonora, lo stile crudamente iperrealistico descrive la rabbia incontrollata ed il cinismo dei giovani afroamericani, con una deriva sentimentale, una improbabile storia d’amore tra il protagonista ed una ragazza madre, che addolcisce la ferocia che pervade ogni scena del film rivelando inaspettatamente il lato umano ed infantile dei personaggi, senza mai, tuttavia, cadere nel patetico.
Il razzismo, tema occulto della pellicola, pur non essendo mai rappresentato in modo diretto, se non nella sequenza del pestaggio subito dai poliziotti bianchi, è indicato quale causa nascosta della condizione disperata dei giovani di colore e traspare indirettamente dal loro linguaggio, in particolare nella parola “negro”, utilizzata nel loro gergo per appellarsi l’un l’altro. Uno dei ragazzi dirà: dovremmo smettere di chiamarci negro e l’altro proseguirà indifferente, come se non avesse ascoltato, continuando a rivolgersi all’amico con la stesso tono di prima chiamandolo “negro”.
E’ un film che può ingannare offrendosi ad una visione superficiale come uno dei tanti gangster movies tarantiniani, un pulp di puro intrattenimento. In realtà è un film denuncia dalla rara potenza espressiva, pessimista e realista, che mostra con assoluto verismo la condizione sociale dei neri d’America negli anni ’90. Nessuna via d’uscita, nessuna prospettiva di un futuro migliore, nessuna speranza di sfuggire alla condanna del ghetto per i giovani afroamericani che portano marchiato nell’anima quell’appellativo dispregiativo, la parola “negro”, fino a farne un mantra ossessivamente ripetuto nel loro vivere quotidiano, cercando di esorcizzare la paura di essere nati prede in un mondo di cacciatori bianchi.
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