Il Sapore del riso al tè Verde

Un film di Yasujirô Ozu. Con Shin Saburi, Michiyo Kogure, Koji Tauruta, Chishû Ryû, Keiko Kaujima.
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Titolo originale Ochazuke No Aji. Commedia drammatica, Ratings: Kids+13, durata 115 min. - Giappone 1952.
   
   
   

il gusto perduto delle tradizioni Valutazione 3 stelle su cinque

di carloalberto


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sabato 28 novembre 2020

 Il sapore del riso al tè verde non è una delle opere migliori di Ozu, uno dei suoi tanti capolavori, come Viaggio a Tokyo o Il gusto del sakè. Il prolungarsi delle sequenze finali e l’eccesso nelle stesse di dialoghi didascalici, in cui il medesimo concetto è ripetuto più volte, sottrae poesia ad un’opera che era già compiuta e perfetta qualche scena prima.
E’, comunque, un film da vedere, per la presenza degli stilemi caratteristici della sua originale tecnica di regia e di tutti i temi della sua poetica, che, peraltro, si ripetono quasi ossessivamente in ogni suo film: la nostalgia del passato visto come un’epoca d’oro quasi del tutto scomparsa, il rimpianto degli antichi valori della società tradizionale erosi dalla modernizzazione imposta dagli americani, la ribellione delle nuove generazioni alle regole degli adulti ed in particolare all’uso del matrimonio combinato, il mono no aware per il trascorrere inesorabile del tempo ed il rapido alternarsi delle stagioni della vita.
Non mancano, come sempre, i riferimenti alle nuove manie popolari che, nel secondo dopoguerra, occupavano il tempo libero dei giapponesi, il gioco del pachinko ed il baseball, e la rituale sosta al bar in compagnia di un amico prima di tornare a casa. Anche in questo film, come in tanti altri, la rimpatriata del protagonista con vecchi compagni d’armi, in questo caso l'incontro fortuito con un marinaio, interpretato da Chishū Ryū, che lo riconosce come il suo vecchio comandante durante la guerra, è l’occasione per ricordare i bei tempi delle illusioni giovanili, intonando insieme un canto nostalgico in cui  rivivono, per qualche attimo, i sogni di gloria, ora miseramente naufragati nello smarrimento e nel grigiore del presente di una anonima sala di pachinko.
La compostezza dei personaggi nell’affrontare i mutamenti irreversibili che lo scorrere del tempo produce, esalta, per contrasto, il senso di struggente malinconia per la perdita delle cose e della loro bellezza. E tuttavia, la tristezza non sfocia mai in disperazione, ma piuttosto si trasforma in pacificata rassegnazione.
Occorre avere la cultura millenaria del buddismo zen alle spalle per raggiungere certi equilibri, purtroppo lontani dal sentire occidentale, in cui pathos e logos permangono scissi.
Al centro di questo film, che, come al solito, trae spunto da una vicenda intimista, per poi elevarsi in modo naturale dal particolare all’universale, c’è una coppia di coniugi abbienti di mezza età, senza figli, che non ha più nulla da dirsi, a parte qualche scambio di battute dettate dalla preoccupazione di assicurare un futuro stabile alla giovane nipote in età da marito, che ritroveranno il piacere di stare insieme grazie alla condivisione di un pasto frugale, preparato di notte senza l’ausilio della servitù, a base di riso al tè verde, la pietanza semplice della tradizione contadina che sopravvive nei ricordi di bambino del protagonista, interpretato da Shin Saburi. La coppia, distratta dal lavoro, dalle chiacchiere, dalle cose superflue che riempiono la vita delle persone agiate, riscoprirà l’importanza dei valori essenziali della tradizione, dell’onestà e della schiettezza nei rapporti umani, in quel semplice piatto di riso al sapore del tè verde, che anche la donna alla fine saprà apprezzare.
Ritorna il paragone, che qualcuno dirà azzardato, con Eduardo e la sua Napoli milionaria, quando la moglie del protagonista nella scena finale comprende di aver smarrito il senso delle cose più semplici e vere della vita e persino l’amore per le persone più care, abbagliata dai soldi e dalle lusinghe della modernità.
 

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