The Lives of Mecca |
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Un film di Stefano Etter.
Con 'Crazy' Johnny Razo, Patrick Adams, Tom Vitali
Documentario,
durata 54 min.
- Svizzera, Italia, USA 2015.
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La terapia dell'handaballdi ValskFeedback: 100 |
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sabato 12 marzo 2016 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Ci si può ritenere fortunati quando, senza molte aspettative, ad un piccolo festival di Torino si può assistere a un film capace di farti cambiare il punto di vista sul mondo. Questo è il caso di The Lives of Mecca, che in poco meno di un’ora riesce a trascinarti dentro un mondo visibile a tutti ma (forse per questo) completamente sconosciuto. Siamo a Coney Island, la città dei Guerrieri della notte. Sono passati quasi quarant’anni dal capolavoro di Walter Hill, ma sembra che il contesto urbano e sociale non sia cambiato particolarmente. O meglio, sembra che i personaggi di quel film, ormai invecchiati, siano stati presi e scaraventati nel mondo reale e si ritrovino ogni giorno dentro un piccolo campo da handball (soprannominata la Mecca) per passare le loro giornate insieme. E non solo. Quel luogo e quel contesto serve a tutti gli avventori per “fare terapia”, per dimenticarsi dei problemi della vita (in alcuni casi davvero estreme) e per darsi una possibilità di redenzione. Eppure tutto questo avviene senza inutili piagnistei. Non manca di sorridere, o addirittura ridere, alle situazioni in cui si/ci trascinano i personaggi, alle prese di posizione che hanno sulla vita e sul film stesso. Nella fattispecie la storia si sofferma su tre protagonisti: Tom Vitali, “Crazy” Johnny e Patrick Adams. Personaggi completamente diversi tra loro, che nel film non s’incontreranno mai (o quasi), e che sono accomunati da un forte desiderio di riscatto oltre che dall’amore per questo sport. Il film è quasi interamente girato all’interno del campo. La macchina da presa raramente mostra i panorami newyorkesi a cui siamo abituati. Primi piani, interni macchine, campi da gioco sempre chiusi ai 3 lati, poche inquadrature degli spazi aperti e spesso con l’obiettivo puntato più verso il basso che verso il cielo. Una costante sensazione di claustrofobia in uno spazio aperto, che porta a coinvolgerti maggiormente nelle loro vite e nelle loro storie. E' un racconto dal ritmo giusto, mai noioso, mai pretestuoso. Il regista si muove agilmente all'interno della storia senza mai sfociare nel banale o nel patetico, nonostante il pericolo fosse dietro l'angolo. A coronare il tutto una bellissima fotografia, velata e quasi monocroma, e una colonna sonora divertente e puntuale, scelta e “suonata” sul campo dagli stessi personaggi. Un’opera prima che lascia davvero stupefatti, capace di parlati della vita e del cinema. Merce rara in questi tempi.
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