misterolbi
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martedì 15 marzo 2016
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meravigliosa e brutale umanità
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Ci sono stato alla Mecca. Coney Island, NY. La fine degli anni '90. Gli Opulenti. Le limousine, gli abiti firmati, i ristoranti. Tutto molto bello. L'11 settembre era nemmeno lontanamente immaginabile.
Le mille luci del Luna Park, la ruota panoramica, i gabbiani che sfidano il vento tra il boardwalk e il mare. E la Mecca. Era li, mezza infossata nel suo chiassoso silenzio. Guarda e passa. Gente strana che tira una pallina contro il muro. Un po' come quelle persone che compongono lo sfondo delle foto. Stanno li, tutti le vedono, ma nessuno le osserva davvero.
Poi arriva un giorno diciotto anni dopo che mandi un whtsapp alla tua fidanzata. "Ei, ci vediamo stasera? Cosa facciamo?". "Andiamo in via Cagliari a vedere un film, che mi sembra interessante" ha risposto lei.
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Ci sono stato alla Mecca. Coney Island, NY. La fine degli anni '90. Gli Opulenti. Le limousine, gli abiti firmati, i ristoranti. Tutto molto bello. L'11 settembre era nemmeno lontanamente immaginabile.
Le mille luci del Luna Park, la ruota panoramica, i gabbiani che sfidano il vento tra il boardwalk e il mare. E la Mecca. Era li, mezza infossata nel suo chiassoso silenzio. Guarda e passa. Gente strana che tira una pallina contro il muro. Un po' come quelle persone che compongono lo sfondo delle foto. Stanno li, tutti le vedono, ma nessuno le osserva davvero.
Poi arriva un giorno diciotto anni dopo che mandi un whtsapp alla tua fidanzata. "Ei, ci vediamo stasera? Cosa facciamo?". "Andiamo in via Cagliari a vedere un film, che mi sembra interessante" ha risposto lei. Quindi, dopo quasi dodici ore di ufficio, salgo in bici e pedalo. Arrivo, sigaretta, bacio, biglietto, poltrona. Un tipo altissimo con i capelli lunghi (che poi ho scoperto essere il regista) bofonchia qualcosa al microfono, pubblico disordinato. Si spengono le luci. "Stefano"(pronuncia da slang americano) una delle prime battute. Mi sono innamorato subito.
Sono stati 50 minuti intensi. 50 minuti che sono sembrati 5. Ad un tratto ero li, proiettato nella vita di quelli dello sfondo delle foto. Nella vita di quei tipi strani che tiravano la pallina contro il muro, venti anni prima e che avevo snobbato. Stefàno non ha avuto il mio stesso pregiudizio; è sceso nella Mecca e con quelle persone ci ha parlato, instaurando con loro un rapporto profondo, una amicizia forse. E li ha presentati così come sono, in medias res, dimostrando che forse si impara di più nel campo della Mecca che nelle aule blasonate delle Columbia. Avrebbe potuto far piangere Stefàno. E invece ha fatto sorridere, ridere a volte. La sua ingombrante presenza fisica, sullo schermo è scomparsa, traducendosi in una delicatezza disarmante. In una grande onestà intellettuale, mai giudicante. Ha raccontato i protagonisti della Mecca, facendoli raccontare a loro stessi. Con questo film è riuscito a mettere a proprio agio le persone in sala con quelle sullo schermo. Perché fintanto che non si sono riaccese le luci, potevi essere anche tu seduto lì, sulle panchine scrostate della Mecca, proprio di fronte a Jonny mentre cade a terra e grida a dio che lo ama e di salutargli suo fratello Joe. E' raro e fa emozionare nella sua meravigliosa e brutale umanità.
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valsk
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sabato 12 marzo 2016
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la terapia dell'handaball
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Ci si può ritenere fortunati quando, senza molte aspettative, ad un piccolo festival di Torino si può assistere a un film capace di farti cambiare il punto di vista sul mondo.
Questo è il caso di The Lives of Mecca, che in poco meno di un’ora riesce a trascinarti dentro un mondo visibile a tutti ma (forse per questo) completamente sconosciuto.
Siamo a Coney Island, la città dei Guerrieri della notte. Sono passati quasi quarant’anni dal capolavoro di Walter Hill, ma sembra che il contesto urbano e sociale non sia cambiato particolarmente. O meglio, sembra che i personaggi di quel film, ormai invecchiati, siano stati presi e scaraventati nel mondo reale e si ritrovino ogni giorno dentro un piccolo campo da handball (soprannominata la Mecca) per passare le loro giornate insieme.
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Ci si può ritenere fortunati quando, senza molte aspettative, ad un piccolo festival di Torino si può assistere a un film capace di farti cambiare il punto di vista sul mondo.
Questo è il caso di The Lives of Mecca, che in poco meno di un’ora riesce a trascinarti dentro un mondo visibile a tutti ma (forse per questo) completamente sconosciuto.
Siamo a Coney Island, la città dei Guerrieri della notte. Sono passati quasi quarant’anni dal capolavoro di Walter Hill, ma sembra che il contesto urbano e sociale non sia cambiato particolarmente. O meglio, sembra che i personaggi di quel film, ormai invecchiati, siano stati presi e scaraventati nel mondo reale e si ritrovino ogni giorno dentro un piccolo campo da handball (soprannominata la Mecca) per passare le loro giornate insieme. E non solo. Quel luogo e quel contesto serve a tutti gli avventori per “fare terapia”, per dimenticarsi dei problemi della vita (in alcuni casi davvero estreme) e per darsi una possibilità di redenzione.
Eppure tutto questo avviene senza inutili piagnistei. Non manca di sorridere, o addirittura ridere, alle situazioni in cui si/ci trascinano i personaggi, alle prese di posizione che hanno sulla vita e sul film stesso.
Nella fattispecie la storia si sofferma su tre protagonisti: Tom Vitali, “Crazy” Johnny e Patrick Adams. Personaggi completamente diversi tra loro, che nel film non s’incontreranno mai (o quasi), e che sono accomunati da un forte desiderio di riscatto oltre che dall’amore per questo sport.
Il film è quasi interamente girato all’interno del campo. La macchina da presa raramente mostra i panorami newyorkesi a cui siamo abituati. Primi piani, interni macchine, campi da gioco sempre chiusi ai 3 lati, poche inquadrature degli spazi aperti e spesso con l’obiettivo puntato più verso il basso che verso il cielo. Una costante sensazione di claustrofobia in uno spazio aperto, che porta a coinvolgerti maggiormente nelle loro vite e nelle loro storie.
E' un racconto dal ritmo giusto, mai noioso, mai pretestuoso. Il regista si muove agilmente all'interno della storia senza mai sfociare nel banale o nel patetico, nonostante il pericolo fosse dietro l'angolo.
A coronare il tutto una bellissima fotografia, velata e quasi monocroma, e una colonna sonora divertente e puntuale, scelta e “suonata” sul campo dagli stessi personaggi.
Un’opera prima che lascia davvero stupefatti, capace di parlati della vita e del cinema. Merce rara in questi tempi.
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frank
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mercoledì 16 marzo 2016
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possibile?
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Ho visto "The Lives of Mecca" e ho pensato: possibile?
Per chi come me non ha mai varcato i confini europei, l'America e' sempre stata quella del 'Padre della sposa': case enormi, giardini fantastici, famiglie felici. L'america.
Poi ripensando al film mi son detto: possibile!
Non può che essere così, ma la realtà fa sempre un certo effetto, e questo film la realtà la mostra in tutta la sua franchezza.
Coney Island è l'America e coloro che praticano l'handball come sfogo non son altro che quello che siamo noi: persone. Contenitori di ansie.
L'handball riesce attraverso lo sforzo fisico e la partecipazione a coinvolgere e a cercare di far superare le angoscie quotidiane.
E si vede che avviene, e per "convinzione" naturale.
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Ho visto "The Lives of Mecca" e ho pensato: possibile?
Per chi come me non ha mai varcato i confini europei, l'America e' sempre stata quella del 'Padre della sposa': case enormi, giardini fantastici, famiglie felici. L'america.
Poi ripensando al film mi son detto: possibile!
Non può che essere così, ma la realtà fa sempre un certo effetto, e questo film la realtà la mostra in tutta la sua franchezza.
Coney Island è l'America e coloro che praticano l'handball come sfogo non son altro che quello che siamo noi: persone. Contenitori di ansie.
L'handball riesce attraverso lo sforzo fisico e la partecipazione a coinvolgere e a cercare di far superare le angoscie quotidiane.
E si vede che avviene, e per "convinzione" naturale. Ci si incontra, e si vuole stare insieme, per giocare e fare terapia correndo davanti ad un muro
anziché stare fermi, seduti in un cerchio.
I protagonisti sono assolutamente straordinari:
Patrick, incredibile, in poche parole esprime concetti e umanità sconvolgenti
Tom, lascia allibiti, per quello che si può subire, diventare e infine ridiventare.
Johnny, è la disperazione fatta uomo.
E questo viene mostrato nel film come se fossimo presenti fisicamente, in amicizia con queste persone che rivelano episodi della loro vita che forse difficilmente
altri riuscirebbero a condividere.
La naturalezza con cui il regista riesce a coinvolgere le persone, immaginando che nonostante tutto non sia stato facile farsi accettare violando la loro intimità con telecamere e microfoni, dimostra una grande sensibilita' e umilta'.
E la sfumatura e i colori della fotografia danno un velo di malinconia, ma che si riscatta di fronte alla reazione dei personaggi.
E' un'america che non ci si aspetta o che forse è proprio quella che si teme, quella che si vede in questo film perché è più un film che un documentario.
Un film dove i protagonisti sono gli attori della loro vita.
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ivan.r
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sabato 18 giugno 2016
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vite (stra)ordinarie
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Il film racconta attraverso la saggia naturalezza del documentario tre storie, tre vite disgraziate e difficili, ma proprio per questo straordinarie. Tre rette parallele, tre persone distinte, trovano un punto di convergenza in quella che diviene la loro personalissima Mecca, il luogo in cui praticare l’handball. Questo sport, che consiste banalmente nel lancio di una pallina contro un muro, diviene per loro terapia, valvola di sfogo. Tom Vitali, “Crazy” Johnny e Patrick Adams si riuniscono qui, come tanti altri, non solo per giocare, ma per entrare in contatto, per raccontarsi all’altro. Ed eccoli rivelarsi alla telecamera, parlare delle proprie infanzie, dei propri padri, del passato e delle piccole manie.
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Il film racconta attraverso la saggia naturalezza del documentario tre storie, tre vite disgraziate e difficili, ma proprio per questo straordinarie. Tre rette parallele, tre persone distinte, trovano un punto di convergenza in quella che diviene la loro personalissima Mecca, il luogo in cui praticare l’handball. Questo sport, che consiste banalmente nel lancio di una pallina contro un muro, diviene per loro terapia, valvola di sfogo. Tom Vitali, “Crazy” Johnny e Patrick Adams si riuniscono qui, come tanti altri, non solo per giocare, ma per entrare in contatto, per raccontarsi all’altro. Ed eccoli rivelarsi alla telecamera, parlare delle proprie infanzie, dei propri padri, del passato e delle piccole manie.
Ben diversi dai protagonisti tradizionali, queste tre persone, con i loro modi di fare eccentrici, con le loro parolacce, con le loro musiche a tutto volume, danno un originalissimo apporto ad una pellicola che vuole dipingere la realtà esattamente com’è, nuda e cruda. Niente ricamature, niente aggiunte, tutto è così, esattamente come lo si vede in quei fotogrammi, e l’atmosfera grigia di New York è tanto autentica da far credere che qualcuno di loro possa attraversare lo schermo e venirsi a sedere in platea.
The lives of Mecca colpisce per la concretezza e per la profondità di analisi psicologica. Arrabbiandosi, cantando, sussurrando e urlando con la più estrema disinvoltura, questi tre uomini stropicciano la propria anima e la gettano in terra, ai piedi della cinepresa. Etter ingegnosamente la raccoglie, la ripulisce, facendone un film.
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s.stano
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lunedì 31 ottobre 2016
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il tempio dell'ozio e del riscatto
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Questa Mecca si trova in occidente, a Brooklyn, Coney Island. Questo è il luogo in cui i maestri dell'ozio hanno fatto (e continuano a fare) il loro pellegrinaggio per indulgere in una passione comune: l'Handball americano.
Gli uomini, la maggior parte di loro freaks di età piuttosto avanzata, si alternano come giocatori attivi o semplici spettatori.
In una scena due personaggi stanno discutendo circa il titolo giusto da dare al film stesso. "Deve essere incentrato sull’Handball", dice il primo, che prende il gioco sul serio e ritiene che il suo spirito sia sacro come una religione. Il secondo vuole invece che sia strettamente legato alla fauna locale. Ai personaggi che, come l'erba cattiva, crescono in tutto il campo da gioco: "The lives of Mecca” appunto.
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Questa Mecca si trova in occidente, a Brooklyn, Coney Island. Questo è il luogo in cui i maestri dell'ozio hanno fatto (e continuano a fare) il loro pellegrinaggio per indulgere in una passione comune: l'Handball americano.
Gli uomini, la maggior parte di loro freaks di età piuttosto avanzata, si alternano come giocatori attivi o semplici spettatori.
In una scena due personaggi stanno discutendo circa il titolo giusto da dare al film stesso. "Deve essere incentrato sull’Handball", dice il primo, che prende il gioco sul serio e ritiene che il suo spirito sia sacro come una religione. Il secondo vuole invece che sia strettamente legato alla fauna locale. Ai personaggi che, come l'erba cattiva, crescono in tutto il campo da gioco: "The lives of Mecca” appunto.
Questo è Patrick, il barbone/custode del campo. A volte filosofo panteista, altre volte dittatore della musica che fa sprigionare da un vecchio ghetto blaster, e che ricopre il ruolo di terapeuta in questo luogo poco accogliente, sospeso fra millantatori e taciturni, bambini e anziani, il perturbato e l'imperturbabile.
Ognuno di loro è un talentoso performer della propria storia e di ciò che rappresenta veramente: La diversità dei margini. Il caos della vita quotidiana. La travolgente energia di questo sport. La rilassante pacatezza generata dallo stare insieme. La redenzione grazie alla possibilità grazie a se stessi.
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