Werner Herzog è fondamentalmente un esploratore. Nella sua lunga filmografia ha ritratto luoghi estremi, personaggi in fuga, spazi poetici e apocalittici e maestose solitudini.
Le quattro puntate monografiche di casi giudiziari in “Death row” sono raccontate con la solita distaccata partecipazione, ossimoro solo apparente per chi è avvezzo con il cinema “partecipato” del regista di “Grizzly man” e “L’ignoto spazio profondo”.
In questa tetralogia lo sguardo da entomologo del regista tedesco si posa su casi borderline di condannati a morte che sanno di essere sul punto di perdere la vita, raro e terribile caso in cui il fatale orologio è già fissato e ben poche speranze possono cambiare il percorso che il destino ha loro riservato. Gli spazi scenici sono le anguste nicchie riservate agli ospiti dei carcerati e i racconti sono intervallati da fredde foto della polizia scientifica e brevi testimonianze dei parenti stretti e dei detective che ne hanno raccolto i primi interrogatori. Un progetto, confessa Herzog “non propriamente militante”, ma che inizia in ogni episodio con l’affermazione esplicita “da ospite degli Stati Uniti, dissento rispettosamente dall’utilizzo della morte come condanna”; e l’umanità che ne può trapelare -continua il regista contestando qualche accusa in tal senso- non è mera pietas, ma semplicemente frutto dell‘“essere” uomo.
Se nel precedente lavoro “The cave of forgotten dreams” il viaggio nelle viscere della grotta Chauvet in Francia, aveva disvelato i primi sogni dell’uomo (forse il primo cinema in assoluto) simboleggiati da meravigliose pitture rupestri, qui i “dreams”, i sogni, diventano “forbidden”, proibiti. La negazione della speranza è la vera mostruosità che la G(g)iustizia umana produce nel sistema americano (nemmeno il peggiore in fondo) e sono la più evidente sottotraccia di un progetto che, come sempre in Herzog, scava nel profondo dell’animo esplorandone l’immensità. Fabrizio Dividi
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