"Parla di un tipo, Charlie Brigante detto Carlito"... A vederla così, à la Marra, è pure troppo riduttivo. Specialmente se il tipo in questione non è "un tipo" qualunque, bensì un Pacino in una delle sue performance migliori e più convincenti.
Inutile stare qua a raccontarci la storia di Carlito, quello che fa e quello che dice. E' storia vecchia e conosciuta da chiunque il cinema lo bazzichi anche solo per diletto.
Inutile anche sprecarsi in stupidi e irriverenti, quanto inutili e pochissimo attendibili, paragoni con altre pellicole come "Il Padrino", "Scarface", fino ad arrivare a scomodare Leone con il suo "C'era una volta in America". De gustibus si direbbe... anzi, amen.
Quello che potrebbe essere argomento di discussione è la prova cinematografica di Al, ma non solo sua.
Qualcuno lo preferirà à la Tony Montana, duro, eccentrico, delirante di onnipotenza, sboccato, impastato dalla coca e sempre pronto a farsi prendere la mano, ma in Carlito's way il Nostro offre qualcosa di più, qualcosa che non mostra direttamente, ma che lascia solo intuire, come solo i grandissimi attori, quelli che guardano gli altri dall'alto, sanno fare. E allora la storia di Charlie diventa, anzichè rimanere solo il semplice racconto di una vita in bilico, la metafora di un cambiamento, iniziato, ma mai portato veramente a termine, perchè come direbbe lui, <non sono io che cerco questa merda, è questa merda che cerca me>, ed è quindi impossibile scappare. Il cambiamento di una vita storta, nata da una radice portoricana trapiantata in una New York povera, che cerca di essere sotterrata, ma che è dura da far morire. E allora, nonostante i tentativi, si scopre che la strada più breve per cambiare vita è continuare con la vita precedente, e non sempre va bene.
Un Pacino apparentemente sotto le righe (sempre scomodando stupidi paragoni con Scarface), ma che in verità nasconde un'interpretazione perfettamente riuscita, in un ruolo facilissimo da sfigurare, deformare e violentare, proprio a causa della maestosità del personaggio da interpretare.
Duro ma pacato, aggressivo ma riflessivo, coerente ma controverso... uno spettacolo. Uno sfoggio di abilità interpretativa davvero notevole.
Ma il film non parla solo di Carlo Brigante. Parla anche del suo amico avvocato, quel Kleinfeld che gli ha risparmiato 25 anni di galera, e al quale va data eterna (o quasi) riconoscenza, perchè "Kleinfeld è mio fratello".
Interpretato da un Sean Penn assolutamente sopra le righe per l'epoca in cui è stato girato il film, perfettamente calato nella parte dell'avvocato arrivista e arrivato, assetato di potere e schiavo della coca. Un'interpretazione al limite dell'allucinazione, smaccatamente eccessiva, in grado di oscurare addirittura la prova di Pacino durante tutta la seconda parte del film.
Una regia capace come quella di De Palma, che alterna lo spazio e pure il tempo di ripresa a seconda delle necessità, che riesce a dare un effetto "flashback su flashback" con riprese in tonalità di grigio sapienti e ponderate, che si fa coadiuvare da una voce fuori campo utile e rassicurante, per quanto distaccata e poco presente.
Ottime anche le interpretazioni dei "non protagonisti" (buon Dio, anche Penn dovrebbe essere un "non"), con buone prove di un buon Guzman, e di un bravo, seppur molto limitato Mortensen. Unico neo, l'interpretazione tiepidina e un po' macchinosa della Miller, che non riesce ad essere all'altezza del compagno di set.
Insomma, un film assolutamente da ricordare tra i capolavori del cinema, con interpretazioni di assoluto spessore tecnico e interpretativo.
Alla faccia di chi i premi ha preferito darli ad altri...
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