Lo zio di Brooklyn

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Un film di Daniele Ciprì, Franco Maresco. Con Pippo Agusta, Francesco Arnao, Antonino Bruno, Rosario Carollo, Marcello Miranda.
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Grottesco, durata 90 min. - Italia 1995. - Filmauro uscita venerdì 13 ottobre 1995. MYMONETRO Lo zio di Brooklyn * * 1/2 - - valutazione media: 2,50 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Ririri pi non chianciri (Ridere per non piangere). Valutazione 5 stelle su cinque

di salvonastasi


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martedì 28 dicembre 2010


Il film si apre con un uomo che si accoppia, a pagamento, con un asino. Già questo è un banco di prova, per ogni spettatore. Chi non ha lo stomaco si alza e se ne va, la visione cinematografica non facendo testo in quanto il fatto di pagare il biglietto può falsare la reazione.
Dopo questa scena edificante, c'è un uomo solo - avanzante in campo lungo (inquadratura questa, fra le preferite di questo lungometraggio) in una strada a due corsie, ampia e deserta, con un lampione sullo sfondo, sfocato e quasi disegnato, frutto di una fotografia che tende all'allucinazione -  che con un italiano stentato, anzi con l'italiano popolare tipico di chi in italiano a parlare non è per niente abituato, ci dice che questo film ha per scopo di introdurci Palermo, città bellissima, approdo e culla di mille civiltà, che purtroppo invero, è solo ricordata per "spiacevolissimi fatti di cronaca".
La mafia, a cui gli autori ovviamente si riferiscono, non è uno "spiacevolissimo fatto di cronaca", e di questo gli autori, ancora più ovviamente, ne sono pienamente consapevoli. E' questa un'incongruenza che, non casuale, potrebbe indicarci percorsi di risposta alle ragioni del perchè tanta radicalità e cercata, voluta, intenzionalmente esposta e sovraesposta (come la fotografia appunto).
Si, perchè a leggere le recensioni a questo ed a altri film del fantastico duo di registi palermitani, positive o negative che siano, il tratto dell'eccesso, della radicalità, del grottesco, del trasgressivo, dell'esagerato insomma, del troppo esagerato che poi quindi si ha ragione di accusare di maledettismo, di estetismo e di qualche altro ismo, è ipso facto la stigmata di questi film, la sua componente impossibile da non vedere.
Insomma, io la prima volta che vidi sia Totò che questo Lo zio, l'unica cosa che ricordi chiaramente è che mi sentii male dal ridere. E come me tutta la comitiva di amici, giovani e siciliani nei primi anni 2000 come me.
Risate incontenibili, fino alle lacrime.
E tutti sapevamo che non era solo una questione di giochi di parole, delle battute siciliane che sono irresistibili solo per come vengono pronunciate.
No, quelle risate erano le risate di chi vede la propria realtà più immediata, la propria quotidianità più incombente, la propria, identica sino all'incredulità, immagine più che vera riflessa in quello specchio e non può fare a meno di "RIRIRI PI NON CHIANCIRI", ridere per non piangere, detto in siciliano.
Quei film sono la Sicilia, sono l'anima più profonda della sicilia e dello spirito siciliano, al punto di annichilimento a cui è arrivato ai nostri giorni, al punto di non ritorno.
Quella bestialità, quell'afasia, quel desiderio che non è altro che di sesso animale, di ingozzamento selvaggio, di meteorismo violento, di morti di ogni tipo, di incontrollabile ritorno all'inorganico, lo spegnersi definitivo di ogni intelligenza, femminilità, linguaggio, pensiero, azione, comprensione, solidarietà, quello non è un film, una cosa trasgressiva, quella noi la viviamo ogni giorno.
Quando non gli resistiamo in qualche maniera incredibile e inenarrabile, siamo noi che viviamo e assistiamo a questo spettacolo macabro, a questa "ricognizione dei fatti" che spiega il perchè di tanti omicidi dentro le gabbie-famiglia.
I cani che abbaiano dietro la porta, affamati e strazianti nel cuore della notte, non sono solo un riferimento a una realtà esistente, sono anche l'immagine di un'umanità che non ha mai trovato se stessa.
L'unica voce di purezza, d'ingenuità, l'unica anima che spinge all'effusione nel film, che saluta e chiede scusa alle bestie che nel suo cammino incontra, a lui, a Tirone, viene chiesto come mai non sia ancora finita in manicomio.
Di fronte a questa disumanità di fondo, a questa catastrofe di ogni mondo, di ogni rapporto,allora forse, potrebbe anche essere consentito di pensare alla mafia come "spiacevolissimi atti di cronaca".
Il film si chiude con lo stesso omino della scena iniziale che ringrazia chi, produttore, ha avuto il coraggio di offrire allo spettatore un'immagine totalmente affrancata dagli ormai luoghi logori comuni che affliggono bla bla bla (incapacità a parlare e a pensare non casuale, ma di certo sistemica) ringraziamento a cui sentitamente ci uniamo.


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