Rapito

Raccomando di accompagnare la visione del film con la lettura dei saggi di David Kertzer su Pio IX (“Il Papa che voleva essere Re”) e sulle vicende storiche dello stesso caso Mortara (“Prigioniero in Vaticano”) per apprezzare lo sforzo filologico di Bellocchio di rendere verità storica a questa triste vicenda. Sulla quale, è bene dirlo subito, il regista non concede alcuno spazio ad un giudizio mediato dai centosessanta anni e passa che da quei fatti ci separano. E' difficile anche per una sensibilità laica riuscire a sovrapporre le figure di quel Papa Re con il profilo dei Pontefici del nostro presente, anche se solo nel 2000 il Papa Atleta di Dio proponeva al mondo contemporaneo la beatificazione di Pio IX, destando non poche riserve in molti ambienti intellettuali.

Da un punto di vista filmico è un Marco Bellocchio in stato di grazia che getta il suo sguardo implacabile e privo di ogni indulgenza, di possibilità di redenzione sugli anfratti oscuri ed onirici di questo incubo. L'occhio implacabile del regista è privo di ogni possibilità di riscatto. La cifra stilistica è quasi di natura giornalistica, priva di suggestioni letterarie. Le figure compaiono sulla ribalta di questa storia come personaggi manzoniani, ciascuno a dare il proprio pezzo di verità. Ma qui non c'è catarsi, non c'è composizione dei conflitti, nessuna risoluzione della Provvidenza. Solo le miserie umane snocciolare una accanto all'altra in un devastante massacro a cui la dignità non sopravvive.
Una fotografia cupa e angosciante spesso monocromatica, luci obique e taglienti quasi caravaggesche ed una colonna sonora nervosa e incombente, sono ingredienti che richiamano stilisticamente il genere classico del noir degli anni 50.
Un'opera, come ci ha abituato Bellocchio, che ci lascia sospesi tra la tragedia umana e lo sforzo del rigore della verità storica.