A classic Horror Story è un film che se, ironicamente, nel titolo attua una precisa scelta di campo verso la tradizione, nei fatti rivela un’ambizione più complessa. Innanzitutto attraverso l’uso del commento musicale, con le note liete di Il cielo in una stanza di Gino Paoli e La casa di Sergio Endrigo che accompagnano le scene più cruente. Può sembrare semplicemente un abile utilizzo in controbattuta, ma c’è di più: c’è la scelta di brani che descrivono uno spazio chiuso eppure aperto, delimitato ma senza confini e per questo disponibile a ribaltare gli assiomi, che poi è la chiave di lettura dell’intero film.
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A classic Horror Story è un film che se, ironicamente, nel titolo attua una precisa scelta di campo verso la tradizione, nei fatti rivela un’ambizione più complessa. Innanzitutto attraverso l’uso del commento musicale, con le note liete di Il cielo in una stanza di Gino Paoli e La casa di Sergio Endrigo che accompagnano le scene più cruente. Può sembrare semplicemente un abile utilizzo in controbattuta, ma c’è di più: c’è la scelta di brani che descrivono uno spazio chiuso eppure aperto, delimitato ma senza confini e per questo disponibile a ribaltare gli assiomi, che poi è la chiave di lettura dell’intero film.
Pertanto, il primo passo è definirlo quell’assioma, attraverso una messinscena che passa in rassegna alcuni topoi del new horror codificato dagli scorsi decenni: c’è quindi un gruppo di protagonisti in camper, che si imbatte in una “casa col mostro”, lungo coordinate da folk horror all’italiana. Di per sé è già uno spunto interessante per come iscrive umori e tradizioni radicate tradizionalmente nel Nord America (o al limite nel Nord Europa) negli scenari della foresta umbra pugliese (il film è comunque ambientato in Calabria). Un’altra bella variazione rispetto agli schemi consolidati, in un gioco che è al contempo di ribaltamenti e rispecchiamenti, dove ogni elemento definito è al contempo sempre scentrato. Come quell’affascinante chalet a forma di stella che da solo sembra incrociare e riassumere tanto la concretezza materica del Raimi di Evil Dead.
Il tutto immerso in una dimensione fatta di nebbia, terra e legno, con il rosso sangue a fungere da tinta dominante. E in mezzo, come una direttrice inattesa che spezza ancor di più la possibile linearità del plot, c’è il rimando alla tradizione “mitologica” con cui la mafia racconta sé stessa attraverso la presunta progenitura dai cavalieri Osso, Mastrosso e Carcagnosso, qui trasformati in creature cui innalzare sacrifici, naturalmente ai danni degli sventurati avventori.
La virata della seconda parte, su cui si è in larga parte concentrata la campagna promozionale del film, non può dunque che giocare questo doppio registro del ribaltamento e del rispecchiamento nei confronti del pubblico stesso, in un movimento continuo a entrare e uscire dalla narrazione, con una valenza più satirica.
Il rischio naturalmente è che il film resti fagocitato dal meccanismo e dalla logica del colpo di scena a tutti i costi, ma c’è un ulteriore slittamento, operato sull’iconografia della magnifica Matilda Lutz (corpo horror per eccellenza della scena contemporanea dopo l’exploit di Revenge): è lei che prende in mano la narrazione, commenta, agisce, ma viene anche agita dal film stesso, fino a un lirico finale.
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