carloalberto
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venerdì 22 novembre 2019
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essere per la verità
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Con il suo J’accuse Roman Polanski ha voluto rendere omaggio al cinema di Alfred Hitchcock, in particolare penso ai film Il Delitto perfetto e Nodo alla gola, ricostruendo la nota storia di Dreyfus in sequenze che intrecciano, sin dall’inizio, le vicissitudini ed il carattere della vittima con le azioni del suo salvatore, il colonnello Picquart, concatenandosi in un contesto già compiuto, destinato ad evolversi in un finale prestabilito in cui il misfatto è svelato grazie ad un errore fatale del criminale che ha architettato malamente il piano delittuoso, e lasciando allo spettatore il compito di ripercorrere mentalmente l’ordito della trama per giungere, infine, ad una conclusione emotiva inaspettata che disorienta ed invita alla riflessione.
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Con il suo J’accuse Roman Polanski ha voluto rendere omaggio al cinema di Alfred Hitchcock, in particolare penso ai film Il Delitto perfetto e Nodo alla gola, ricostruendo la nota storia di Dreyfus in sequenze che intrecciano, sin dall’inizio, le vicissitudini ed il carattere della vittima con le azioni del suo salvatore, il colonnello Picquart, concatenandosi in un contesto già compiuto, destinato ad evolversi in un finale prestabilito in cui il misfatto è svelato grazie ad un errore fatale del criminale che ha architettato malamente il piano delittuoso, e lasciando allo spettatore il compito di ripercorrere mentalmente l’ordito della trama per giungere, infine, ad una conclusione emotiva inaspettata che disorienta ed invita alla riflessione.
Nel Delitto perfetto c’è qualcosa che il criminale ha lasciato al suo posto, ma che non avrebbe dovuto trovarsi più lì, la chiave sotto lo zerbino, che qui diventa il documento segreto tenuto in cassaforte dal maggiore Henry. In Nodo alla gola l’elemento incriminante è sotto gli occhi di tutti, ma uno soltanto lo vede per quello che è, il laccio che è servito per strangolare l’amico qui diventa il testo autografo incorniciato che falsamente incolpava Dreyfus.
La firma che autentica l’omaggio è l’apparizione dello stesso Polanski, con baffoni asburgici, sullo sfondo di una scena tra gli invitati ad un ricevimento, come piaceva fare al “maestro del brivido”.
La sovrapposizione dei temi, propria di un film ispirato a vicende storiche, la questione dell’antisemitismo, le lotte politiche e lo strapotere dell’Esercito nella Francia dell’ultimo scorcio del XIX secolo e degli inizi del XX, pur costituendo la struttura del film non predominano soffocando il dramma, ma anzi donano il giusto colore agli ambienti ed il calore della vita vera ai protagonisti, impegnati in un duello a distanza, Dreyfus e Picquart. I due eroi combattono entrambi il mondo, ma da una prospettiva diversa e per una causa diversa, la vittima per difendere la propria vita ed il proprio onore, il salvatore per difendere il principio etico della Verità che travalica ogni obbligo sociale e ogni dovere di fedeltà e di coerenza derivante dall’appartenenza all’Esercito, alla Nazione, alla razza…
Nella scena finale, ricomposto il dramma storico, si riaffrontano i duellanti, ma ora le prospettive sono capovolte. Dreyfus invoca la modifica di una legge per affermare il principio etico dell’Equità, Picquart, rientrato nei ranghi con il grado di generale, gli oppone la contingenza politica che impedisce in quel momento di cambiare una legge ingiusta. Gli obblighi sociali hanno ripreso il sopravvento e la rivoluzione per la Verità ha lasciato il posto alla gestione burocratica del potere.
La parabola umana di Picquart diventa metafora di tutte le rivoluzioni.
Ma il finale emotivo inaspettato che coinvolge lo spettatore è dovuto all’antipatia che suscita il personaggio di Dreyfus, che invece di ringraziare colui che gli ha salvato la vita, va da lui per recriminare la sua mancata promozione al grado superiore. Polanski vuole dirci che al di là dell’antipatia, ovvero delle passioni e dei sentimenti che ci suscitano le persone o i popoli, occorre riflettere sulla pretesa che essi avanzano. In questo caso Dreyfus sta chiedendo ciò che gli spetta in virtù del principio etico di Giustizia e nient’altro. E di questo parla il film, di principi etici, di Verità, di Giustizia, di Equità, che superano la vicenda storica contingente del caso Dreyfus, che non appartengono soltanto alla storia della Francia del XIX o XX secolo, ma alla storia dell’uomo, al suo essere per la verità e che vale la pena riaffermare oggi, nel XXI secolo, come valori ormai obliati dal mondo contemporaneo.
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(di antonio montefalcone)
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loland10
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lunedì 25 novembre 2019
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verità e falsità
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“L’ufficiale e la spia” (J’accuse, 2019) è il ventitreesimo lungometraggio del regista-sceneggiatore polacco (naturalizzato francese) Roman Polanski.
Al ventitreesimo film arriva Il summa polanskiano: inchiesta, processo, falsità, verità, potere e corruzione. In poco più di due ore sono concentrate molte cose che aspetti e oltre delle cose che non aspetti perché non finisca l’atmosfera magica di un cinema che si usa poco o forse mai più.
Il cineasta imposta il tutto in modo classicheggiante, con forme e corpi che hanno movenze minimi. Il movimento è dentro lo schermo e la ripresa che combaciano in modo sincronistico e perfetto.
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“L’ufficiale e la spia” (J’accuse, 2019) è il ventitreesimo lungometraggio del regista-sceneggiatore polacco (naturalizzato francese) Roman Polanski.
Al ventitreesimo film arriva Il summa polanskiano: inchiesta, processo, falsità, verità, potere e corruzione. In poco più di due ore sono concentrate molte cose che aspetti e oltre delle cose che non aspetti perché non finisca l’atmosfera magica di un cinema che si usa poco o forse mai più.
Il cineasta imposta il tutto in modo classicheggiante, con forme e corpi che hanno movenze minimi. Il movimento è dentro lo schermo e la ripresa che combaciano in modo sincronistico e perfetto. Polanski trae una filmografia totale in un unicum tutto suo, come sempre. Nella pochezza dei personaggi (carnale e venere in pelliccia) o nella totalità di comparse non inquadrate si trova a proprio agio: il sunto è ciò che di c’è. L’interno è importante ma quasi superfluo. Verrebbe da dire che il muto cinema di ieri è complementare al mutismo scenografico del nostro Roman: parole tante, conflitti veri, falsità perenni ma soprattutto spazi raccontati come nessuno. Quelli minimi tra porte, maniglie, valigie, tavoli, carte e foto più o meno sporche, vie piatte e scalinate dove le ringhiere hanno un significato, persino gli occhialini spostati come i cappelli hanno una posizione a tutto tondo. In questo film i particolari contano e parecchio, le visuali anche, il silenzio fondamentale e le scrivanie sono lì a impreziosire il potere francese di fine ottocento.
Siamo nel 1894 in una Francia da ‘belle epoque’, il potere e la politica fanno passi che anticipano molto il futuro è quasi una cartina di tornasole dell’oggi. Il capitano Alfred Dreyfus viene accusato di essere un traditore e una spia per aver dato informazioni segrete ai ‘tedeschi’: viene degradato dal punto di vista militare di tutto e condannato all’esilio-carcerario nell’isola del diavolo. Ebreo e per di più colpevole. Quale buona notizia e miglior capro espiatorio per esercitare con forza la legge (manipolata) sui deboli. Antisemitismo e pregiudizio si incontrano bene per far fuori chi capita e chi conviene.
L’ufficiale colonnello Marie-Georges Picquart (non certo amico degli ebrei ma amante della verità, come lui dice) indaga sul caso e si convince dell’innocenza di Dreyfus e della manipolazione delle prove. Scritti e lettere che lo studio grafologico indicano come non prove contro Dreyfus: ma non sue le parole indicate. La non colpevolezza porterebbe ad uno scandalo che gli alti poteri non accettano. L’ufficiale deve tirarsi indietro ma i tempi e il’J’accuse’ di Emile Zola danno la strada per riaprire il tutto. I tempi cambiano come cambiano i venti. L’antisemitismo non scompare certamente. Il capitano e il colonnello si incontreranno. Una volta e mai più La riabilitazione completa di Dreyfus non avviene. Siamo arrivati al 1907.
Un film di suggestione interiore dove ogni dibattito a due è scadenza di prefinale e dove ogni ripresa di spalle corre sul binario di un carteggio ingiallito. Puzzle di carte, foglietti, parole troncate, nemesi del potere, letture e foto adesive. Le mani sui fascicoli miseri, pochi e ingranditi dalle miserie dei sotterfugi aprono il non visto o accantonato.
‘Il caso Dreyfus’ non c’è, lasci stare colonnello. Mi dia quello che ha’: la Francia militare e politica vuole nascondere tutto. La verità al di sopra delle parti, il potere insinuante in ogni riga e lo studio delle scritture pare un giallo alla Agatha Christie. Polanski ci dà dentro senza problemi raccontando quello che è stato e quello che oggi accade. I suoi fatti come un ‘ebreo in fuga’. La ricostruzione temporale, i carteggi, le lettere, il processo e gli incontri danno smalto scarno ad un film molto secco dove il sonoro non è effetto cine ma pause tra silenzi e parole. La musica scopre arriva quasi alla fine dove la via del colonnello fa da apripista a tutto il finale e all’incontro con il ‘nemico-amico’.
La finestra de ‘Il Pianista’ (2002) è chiusa per osservare la strada, qui (scena delle tante ma efficace) la finestra si chiude quando il colonnello scende in strada per aprire la via della ‘verità’.
Il buio dello schermo tra pezzi di spade e le onorificenze ancora per terra, la croce di un processo sfinito. Un finale di indagine umana sfinente e angosciante. L’antisemitismo a diverso livello, uomo contro uomo per il potere non certo per nessuna gloria.
Originale: scrittura e lettera, emme e millimetri; come dire non scrivete mai come vi pare, se stessi per non essere riconosciuti;
Copia: mancavano cartucce e stampanti ma chi sa quanti marchingegni veritieri e subdoli nel mondo che disconosce la verità, è arguzia sulla copia di essa;
Falso: scrivete per voi e per gli amici, la grafologia è arte pura o scienza delle parole intransigenti, fatevi vedere senza pennino di piuma e con un moderno vuoto di penne annerite;
Vero: la verità prima cosa da inseguire per l’ufficiale. Il resto non conta, anche se per lui il conto è andare oltre al suo comando dell’oggi. L’uso di qualcosa per fini personali.
Jean Dujardin(M.G. Picquart) e Luois Garrel (A. Dreyfus) sono veramente esemplari nelle parti, nelle movenze, nei corpi, nei tragitti, negli sguardi vitrei e nelle storie interiori. Prove glaciali e piene di ardore. Il primo tiene il campo con vera saggezza antica e prova attoriale senza sbavature; il secondo inchioda il nostro sguardo quando teso e nervoso si rimette gli occhialini al posto giusto mentre una vittoria pare avvicinarsi. L’incipit è di rara forza registica come l’incontro finale tra i due: asciutto ed essenziale, asonoro e asciutto.
Tutto il cast ha importanza rilevante: nessun sovrappiù e ridondanze generiche; la messa in scena resta scolpita e ferma, mai una ripresa di spettacolarizzazione intensa; solo la musica (di Alexandre Desplat) dilata il pensiero dell’inquadratura e dei personaggi (nella parte finale); la fotografia di Pawel Edelman (già più volte collaboratore del regista) restituisce vigore e lineamenti, oscurità e movimenti ad un’epoca che non pare così ‘belle’.
Regia di Roman Polanski a tutto tondo, immediata e fortemente incisiva. L’esempio di un cinema dove ogni immagine è un ‘romanzo’ e dove ogni luogo è una storia a se. Cinema fermo e in grande movimento (e qui sarebbe lungo l’attacco a diversi modi di ‘ripresa’ oltre al suo mondo).
Voto: 10/10 (*****) -cinema intenso- (capolavoro).
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mercoledì 27 novembre 2019
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il potere della fine dell’ottocento
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Roman Polanski, a ottantasei anni, si conferma ancora una volta un ottimo regista con quest’ultimo film di impianto classico. Al di là delle polemiche su una presunta identificazione del regista, nell’ingiustamente accusato Dreyfuss, il film, con il titolo in italiano, “L’ufficiale e la spia”, riporta sullo schermo un fatto reale già rappresentato al cinema nel 1937 da Wiliam Dieterle in “Emile Zola” e nel 1958 da José Ferrer in “L’affare Dreyfuss”.
Il film è tratto dal romanzo omonimo del 2013 di Richard Harris, che ne ha curato anche la sceneggiatura assieme al regista.
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Roman Polanski, a ottantasei anni, si conferma ancora una volta un ottimo regista con quest’ultimo film di impianto classico. Al di là delle polemiche su una presunta identificazione del regista, nell’ingiustamente accusato Dreyfuss, il film, con il titolo in italiano, “L’ufficiale e la spia”, riporta sullo schermo un fatto reale già rappresentato al cinema nel 1937 da Wiliam Dieterle in “Emile Zola” e nel 1958 da José Ferrer in “L’affare Dreyfuss”.
Il film è tratto dal romanzo omonimo del 2013 di Richard Harris, che ne ha curato anche la sceneggiatura assieme al regista. Era la fine dell’Ottocento e l’antisemitismo si stava affermando anche in Francia. Durante la Terza Repubblica francese nel 1894, Madame Bastian, un'anziana addetta alle pulizie nell'Ambasciata di Germania a Parigi, consegnò, come faceva sempre, il contenuto del cestino per la carta straccia dell'attaché militare Maximilian von Schwartzkoppen, al maggiore Hubert J. Henry vice-direttore del bureau di controspionaggio del Ministero della Guerra francese, chiamato Section de statistiques. Il maggiore trovò una nota, chiamata bordereau, in cui si dava una lista di cinque documenti segreti che l'anonimo scrivente si offriva di vendere ai tedeschi: alcuni di quei documenti riguardavano i cannoni, altri la mobilitazione. Alla Sezione statistica si pensò che solo un ufficiale di stato maggiore, che avesse prestato di recente servizio nell'artiglieria, avrebbe potuto aver accesso ai documenti in questione. Fra i quattro ufficiali sospettabili c'era il trentacinquenne alsaziano Alfred Dreyfus (interpretato da Louis Garrel), la cui grafia parve vagamente somigliante a quella vergata sul bordereau e che, naturalmente, fu subito accusato, a causa della sua appartenenza alla religione ebraica.
Nel 1895 Dreyfus fu degradato pubblicamente nel cortile della Scuola militare e mandato in prigione sull’Isola del Diavolo nella Guayana francese, dopo un processo sommario fatto a porte chiuse basato su prove fragili e opinabili, e nonostante si professasse innocente. Alphon Bertillon, grafologo, fu il principale responsabile per aver confermato la coincidenza della grafia.
Il tenente colonnello Georges Piquard, (molto ben interpretato da Jean Dujardin) che era stato anche un suo maestro, aveva assistito alla degradazione, viene promosso e nominato responsabile del contro-spionaggio sostituendo l’ormai malato grande accusatore di Dreyfus. In questo ruolo Piquard ha modo di verificare che il vero colpevole è Ferdinand W. Esterhazy e vorrebbe riabilitare Dreyfuss con un nuovo processo, ma tutti i suoi superiori gli sono contro. Il colonnello Picquart fu rimosso dalla guida dei servizi segreti e spedito in zona di guerra in Africa.
La novità del film di Polanski risiede forse in questo: il protagonista del film non è Dreyfus bensì Piquard, con la sua rettitudine quasi maniacale. Non ha particolare simpatia per l’accusato, né tantomeno per la popolazione ebraica, non è politicamente schierato, ed è particolarmente legato all’Esercito da ben 25 anni. La sua determinazione nel perseguire la giustizia e ciò che lui giudica sia giusto fare, lo porta a inimicarsi tutti quelli che contano e che gestiscono il potere: dal Generale Mercier al generale Billot, dal Generale de Boisdeffre al Generale Gonse.
Sempre più convinto dell’innocenza di Dreyfus, Georges Piquard riuscì ad avvertire un gruppetto di politici e di intellettuali: George Clemenceau, il famoso radicale soprannominato “Il Tigre” che iniziò la sua campagna per la revisione del processo e ospitò sul suo giornale “L’Aurore”, il 13 gennaio 1898, la famosa lettera di Émile Zola al Presidente della Repubblica Félix Faure intitolata: J’accuse!
Zola fu inquisito per vilipendio, ma il giorno successivo, sempre su "L'Aurore", fu pubblicata la Petizione degli intellettuali, che reca tra i firmatari metà dei professori della Sorbona e numerosi artisti, come Gallè, Manet, Jules Renard, André Gide, Anatole France. Il potere della stampa fu determinante.
Dopo essere stati imprigionati e processati sia Piquard sia Zola furono riabilitati nel 1900 dopo che Henry, il principale accusatore di Dreyfus membro del controspionaggio, dichiarò di essere l'autore di una lettera falsa del 1896 in cui è menzionato Dreyfus, e di aver contraffatto parecchi documenti del suo dossier segreto. Imprigionato, si suicidò in carcere con un rasoio. Alla fine anche Dreyfus fu riabilitato, ma solo nel 1906.
Per vent’anni l’affare Dreyfus fu alla ribalta e divise la popolazione, francese e non, in innocentisti e colpevolisti.
Bellissime sono le scene del film, in particolare mi ha colpito quella di apertura nel cortile della Scuola militare, in campo lungo, che ha la capacità di farci percepire la dimensione abnorme degli spazi così come la tradizione architettonica francese ci ha lasciato. Invece, l’ambientazione fatiscente dove lavora l’intelligence del controspionaggio e dove apre le missive intercettate (a secco o a vapore, ognuno aveva il suo metodo) mi ha ricordato quella della Stasi in “Le vite degli altri” di Florian Henckel von Donnersmark del 2007. Degno di nota il tableau vivant omaggio al Déjeuner sur l’herbe di Édoard Manet con l’amante di Piquard, interpretata da Emanuelle Seigner, e suo marito interpretato da Luca Barbareschi, coproduttore del film.
Suggestiva è la musica composta dal pluripremiato Alexandre Desplat.
Il film, vincitore del Gran premio della giuria alla 76ma Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, presenta due eccezionali interpreti: Jean Dujardin è un perfetto Georges Picquart, mentre Louis Garrel è un inusuale e non simpaticissimo Alfred Dreyfus, tutto teso verso la giustizia e il ripristino della verità.
Polanski delinea, con dovizie di particolari e con un pizzico di ironia, queste figure che credono nel loro ruolo istituzionale e che sono così fedeli al principio di giustizia che rischiano la propria libertà. Ma come saranno questi stessi protagonisti che hanno lottato contro l’ingiustizia, una volta che avranno preso il potere e che saranno diventati Generale o Ministri?
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nadia meden
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domenica 8 dicembre 2019
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la storia insegna.......
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Ho potuto assistere all' ultimo capolavoro Roman Polanski " L'ufficiale e la spia ", un film accuratissimo ed elegante con un cast di attori molto, molto bravi tra i quali spiccano sicuramente Louis Garrel nei panni del Capitano Alfred Dreyfus e Jean Dujardin nei pani del Colonnello Picquart. Il film tratta di una storia vera , meglio conosciuta come L' affare Dreyfus e si svolge in Francia alla fine del 1800, dove il Capitano dell' esercito Dreyfus viene giudicato colpevole di alto tradimento e "svestito militarmente " sulla pubblica piazza di fronte a tutto il Corpo Militare. Egli verrà destinato a prigionia sull' isola del Diavolo e gli verrà tolta anche la posssibilità di parlare.
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Ho potuto assistere all' ultimo capolavoro Roman Polanski " L'ufficiale e la spia ", un film accuratissimo ed elegante con un cast di attori molto, molto bravi tra i quali spiccano sicuramente Louis Garrel nei panni del Capitano Alfred Dreyfus e Jean Dujardin nei pani del Colonnello Picquart. Il film tratta di una storia vera , meglio conosciuta come L' affare Dreyfus e si svolge in Francia alla fine del 1800, dove il Capitano dell' esercito Dreyfus viene giudicato colpevole di alto tradimento e "svestito militarmente " sulla pubblica piazza di fronte a tutto il Corpo Militare. Egli verrà destinato a prigionia sull' isola del Diavolo e gli verrà tolta anche la posssibilità di parlare. Il Colonnello Picquart è convinto che egli venga accusato non perchè colpevole ma in quanto ebreo e per dimostrare la verità si batterà per lungo tempo. Polanski ci da' una lezione storica sull' antisemitismo che ha radici molto molto lontane e che purtroppo , ahimè sta ritornando di "moda" . Dovremmo tutti pensare molto bene a cosa ha portato l' odio razziale e capire che non è il caso di innescare nuovamente tali brutalità. Grazie
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mirko
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giovedì 10 settembre 2020
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ecco come si fa un film storico !
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Sul finire dell’Ottocento un capitano ebreo dell’esercito francese viene dichiarato colpevole di tradimento. Spetta al neo capo dei servizi segreti far luce sull’accaduto. Appassionante cinepezzo da antologia, minuziosamente ambientato e dalla narrazione fitta, con delle performance incredibilmente credibili. Dall’omonimo romanzo di Robert Harris, che ha anche collaborato alla sceneggiatura. Si è aggiudicato il Gran premio della giuria a Venezia.
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nicolò scialfa
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mercoledì 4 dicembre 2019
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un film memorabile
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Roman Polanski ci offre un film memorabile e i fatti narrati meritano un’accurata ricostruzione. Dal 1894 al 1906, più o meno negli stessi anni in cui il governo russo fabbricava e metteva in circolazione i falsi Protocolli dei Savi di Sion, la Francia fu sconvolta da un caso giudiziario – il caso Dreyfus – che riuscì a scatenare nella gente violente passioni coinvolgendo grandi temi quali il rapporto tra Stato e Chiesa, la lealtà repubblicana di magistratura e esercito, il nesso fortissimo tra antisemitismo, cattolicesimo, militarismo, golpismo. Col caso Dreyfus nacquero l’antisemitismo “scientifico” e il sionismo, la figura dell’intellettuale moderno e l’uso propagandistico dell’im-magine.
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Roman Polanski ci offre un film memorabile e i fatti narrati meritano un’accurata ricostruzione. Dal 1894 al 1906, più o meno negli stessi anni in cui il governo russo fabbricava e metteva in circolazione i falsi Protocolli dei Savi di Sion, la Francia fu sconvolta da un caso giudiziario – il caso Dreyfus – che riuscì a scatenare nella gente violente passioni coinvolgendo grandi temi quali il rapporto tra Stato e Chiesa, la lealtà repubblicana di magistratura e esercito, il nesso fortissimo tra antisemitismo, cattolicesimo, militarismo, golpismo. Col caso Dreyfus nacquero l’antisemitismo “scientifico” e il sionismo, la figura dell’intellettuale moderno e l’uso propagandistico dell’im-magine. Il 26 settembre 1894 il controspionaggio francese, il cosiddetto “Ufficio Statistica”, entrò in possesso di un foglio di carta quadrettata – una nota (bordereau) destinata al colonnello tedesco von Schwartzkoppen, addetto militare all’ambasciata tedesca a Parigi – che conteneva informazioni militari di modesto interesse ma che certamente proveniva da un ufficiale francese forse appartenente allo Stato Maggiore. Il maggiore Hubert Joseph Henry, membro della sezione statistica e in seguito direttore della stessa, aveva più il fiuto del poliziotto che dell’ufficiale. Di scarsa cultura, era però dotato di grande furbizia ed era esperto nella manipolazione di documenti al punto da trarre in inganno colleghi e superiori. Henry informò il suo superiore diretto, colonnello Jean Sandherr, e gli tracciò subito un possibile profilo del colpevole: ufficiale di artiglieria, che si trovava allo Stato Maggiore nel ruolo di stagiaire, cioè ufficiale in prova, nella condizione ideale per essere informato di questioni interessanti. L’elenco degli stagiaires era corto e tra i pochi nomi Henry si soffermò su quello di Alfred Dreyfus, capitano di artiglieria che aveva fatto esperienza in vari settori dello Stato Maggiore, alsaziano, dal nome tedesco e soprattutto ebreo. Henry conosceva bene i pregiudizi nutriti da Sandherr verso gli ebrei e non gli fu difficile indirizzare i sospetti verso Dreyfus. Alcuni documenti scritti da Dreyfus furono confrontati con il bordereau e due calligrafi su tre dissero che le calligrafie erano molto somiglianti, mentre un terzo esperto era di parere diverso. In realtà il tipo di scrittura in esame era molto diffuso all’epoca: esisteva allora una sorta di moda nella grafia epistolare. Le indagini sul passato dell’ufficiale furono del tutto negative: non c’era niente contro di lui; Dreyfus, come tutta la sua famiglia, era legatissimo alla Francia, di sentimenti antitedeschi; le sue condizioni economiche floride non giustificavano un tradimento per lucro; la sua condotta in privato e nell’esercito era sempre stata irreprensibile. Eppure si volle vedere in lui il colpevole. Il mattino di sabato 13 ottobre 1894 un sottufficiale recapitò a casa del capitano Dreyfus, una comunicazione di servizio con l’ordine di presentarsi il lunedì successivo 15 ottobre alle ore nove al ministero della Guerra, vestito in borghese per una “ispezione generale”. Arrivato al ministero fu introdotto nell’ufficio del capo di Stato Maggiore dove trovò il sostituto dell’ufficio, maggiore marchese Ferdinad Du Paty de Clam in divisa e tre sconosciuti in borghese. Du Paty de Clam dopo aver fatto scrivere alcune righe a Dreyfus, gli comunicò che era in arresto, accusato di alto tradimento. Poi gli tese una pistola perché concludesse “da ufficiale la sua vergogna”. Il capitano Dreyfus respinse l’accusa – e l’arma – con sdegno. Venne trasferito nel carcere di Cherche-Midi. Il direttore del carcere militare, il maggiore Ferdinand Forzinetti, uomo intelligente e sensibile, ebbe subito la certezza dell’innocenza del capitano ebreo. I poteri di Forzinetti erano limitati, ma il maggiore fece quanto possibile per alleviare la pena del presunto reo. Il generale Mercier, ministro della Guerra, aveva ordinato nell’affare la massima segretezza, senonché il 29 ottobre, sedici giorni dopo l’arresto, La Libre Parole, un quotidiano antisemita, legato agli ambienti militari, si chiedeva se fosse vera la notizia dell’arresto di un traditore. Qualcuno evidentemente aveva interesse a far scoppiare uno scandalo. Direttore del giornale era Edouard Drumont che, otto anni prima aveva avuto un clamoroso successo con un libro intitolato La France juive, nel quale indicava gli ebrei come i massimi responsabili dei mali della Francia ed in particolar modo della pesante recessione economica che attanagliava il paese. Drumont interpretava tutta la storia occidentale come lotta tra ariani e semiti, anticipando di mezzo secolo le teorie hitleriane. Il libro ebbe successo anche grazie all’appoggio della Chiesa e degli ambienti cattolici: i parroci francesi ne raccomandavano la lettura ai fedeli. Visto il successo del libro, Drumont comprese che esisteva lo spazio per un quotidiano antisemita e così fondò La Libre Parole che negli anni del caso Dreyfus raggiunse una tiratura di oltre duecentomila copie. Il tradimento di un ufficiale ebreo era quel che ci voleva per scaldare il clima politico e realizzare in Francia una decisa svolta a destra. Le esitazioni del perito calligrafo che aveva rilevato notevoli dissomiglianze tra la grafia di Dreyfus e quella del bordereau, vennero accantonate e si presero per buone le conclusioni di un nuovo esperto, del tutto conformi ai desideri del ministro Mercier e dei capi dello Stato Maggiore. Drumont scatenò una campagna di stampa furiosamente antisemita; un altro giornalista, Henry Rochefort, scriveva sull’Intransigeant che i ministri non erano che “gli uscieri di Rothschild”. Altri giornali antisemiti o cattolici quali il Triboulet, il Pèlerin, La Croix soffiarono sul fuoco sostenendo che bisognava farla finita con gli ebrei. Dreyfus, aveva nominato suo difensore uno dei più stimati penalisti di Parigi, ma persino un grande avvocato era impotente di fronte alla violenza della campagna antisemita. Dreyfus era disorientato: continuava a sostenere la propria innocenza ma non riusciva a capire come fosse finito in quell’orribile macchinazione. Quando, il 19 dicembre si aprì il dibattimento di fronte al Consiglio di Guerra, la sorte del capitano ebreo appariva già compromessa. Le sedute, a porte chiuse, durarono tre giorni. La sentenza, unanime, fu di colpevolezza. Dreyfus fu condannato alla deportazione perpetua, il che comportava, naturalmente la degradazione. La cerimonia della degradazione avvenne il 5 gennaio 1895 alla presenza di una gran folla eccitata da cui si levava il grido “Morte agli ebrei”. Tra la folla c’era, quale corrispondente della Neue Freie Presse un giornalista ebreo arrivato da Vienna, che rimase sconvolto dal comportamento della folla: si chiamava Theodor Herzl, il futuro fondatore del sionismo. Il 17 gennaio iniziò il viaggio di Dreyfus verso l’isola del Diavolo, nella Guayana francese. Lungo il viaggio da Parigi a La Rochelle, nonostante la presenza di una forte scorta, folle tumultuanti tentarono di linciare “il traditore ebreo”. Dall’isola del Diavolo si usciva in due modi: o graziati o morti. Per due anni non accadde nulla, anche se la famiglia di Dreyfus si adoperava per farne riconoscere l’innocenza. Ai primi di novembre 1896 un intellettuale ebreo francese di idee libertarie, Bernard Lazare, fece stampare a Bruxelles – per non incorrere nella censura francese – un opuscolo di sessanta pagine, Une erreur judiciaire. La vérité sur l’affaire Dreyfus, che non fu messo in commercio ma spedito a giornalisti, uomini politici e magistrati. Il 18 novembre 1896 il deputato André Castelin presentava un’interpellanza per sapere se rispondesse a verità che “un ufficiale francese era stato condannato grazie ad un documento prodotto ai giudici a sua insaputa e che non aveva potuto discutere”. Il nuovo ministro della Guerra Jean-Baptiste Billot dichiarò in Parlamento sul suo onore di soldato che Dreyfus era stato “giustamente e legalmente condannato” e tutto parve finire lì. Esisteva già allora un documento che avrebbe completamente scagionato il condannato ma che fu reso noto soltanto molto più tardi, nel 1930, dopo la morte del colonnello von Schwartzkoppen, il quale in un rapporto inviato a suo tempo a Berlino aveva scritto di non aver mai conosciuto Dreyfus e di ignorare l’esistenza del documento che aveva condotto alla sua condanna. Il colonnello Picquart, anch’egli alsaziano, aveva sostituito Sandherr a capo dell’Ufficio Statistica. Nel mese di marzo del 1896 aveva intercettato un telegramma molto compromettente che proveniva dall’ufficio del colonnello von Schwartzkoppen, preparato ma non spedito, e indirizzato a un ufficiale francese di nobile famiglia, il Comandante Esterhazy. Un altro traditore? Picquart, informato il capo di Stato Maggiore, avviò un’inchiesta. La calligrafia del bordereau che aveva fatto condannare Dreyfus, risultò identica a quella di Esterhazy. Ma molti alti ufficiali erano del parere che si trattasse di un complotto ebraico per salvare Dreyfus e gettare discredito sull’esercito. Picquart, convinto dell’innocenza di Dreyfus, inviò un rapporto al capo di Stato Maggiore, che, turbato e irritato passò la questione al suo vice. Quest’ultimo convocò Picquart e gli disse a muso duro che bisognava tutelare il buon nome dell’esercito e che quindi era escluso che il caso potesse essere riaperto. Picquart fu trasferito nel Tonchino prima e in Africa poi, ma nell’estate del ‘97 consegnò l’intera documentazione, ad un amico, l’avvocato Leblois vincolandolo però al proprio consenso prima di avviare qualsiasi azione. Leblois nel luglio del ’97 consegnò l’incartamento al vicepresidente del Senato Scheurer-Kestner, il quale però poté fare ben poco, legato com’era all’impegno di non rivelare le fonti delle sue informazioni. Alla fine d’ottobre l’anziano senatore incontrò il presidente della Repubblica Félix Faure che lo ascoltò distrattamente e con atteggiamento malevolo; poi si recò da Méline, primo ministro, legato ai circoli militari e quindi contrario a rimettere in discussione il caso. Alla fine si recò a cena col suo vecchio amico generale Billot, ministro della Guerra, che dopo averlo ascoltato per tre ore tagliò corto: “Dreyfus è colpevole”. Solo a questo punto Scheurer-Kestner decise di uscire allo scoperto. Scrisse una lettera al Temps dichiarando di aver inoltrato al governo i documenti che scagionavano completamente Dreyfus. I giornali antisemiti gridavano al complotto anticattolico (Scheurer-Kestner e Leblois erano protestanti), insinuavano dubbi sulla lucidità mentale del vecchio parlamentare. Il governo riaffermò la sua contrarietà alla revisione del processo. I socialisti erano indifferenti al caso di un ufficiale alto-borghese, esponente di una classe sociale nemica. Quando si cominciò a parlare di Esterhazy come del vero autore del bordereau i vertici militari ordinarono un’inchiesta, il cui risultato fu l’incriminazione di Picquart e la proclamazione dell’innocenza di Esterhazy. Picquart, accusato di aver divulgato documenti militari riservati, fu radiato dall’esercito e arrestato. Quando la situazione pareva volgere al peggio, avvenne un fatto clamoroso che riaprì la partita: l’incontro tra l’avvocato Leblois e il noto scrittore Émile Zola. Da tempo Zola si era convinto dell’innocenza di Dreyfus e il giornale Le Figaro aveva ospitato qualche suo intervento in questo senso, ma ora appariva restio a continuare su posizioni dreyfusarde. Zola si rivolse allora a Georges Clemenceau, caporedattore de L’Aurore. Anche Clemenceau riteneva che non ci fossero possibilità di riaprire il caso Dreyfus; poi, man mano che venivano fuori imbrogli e falsificazioni, e soprattutto l’impudenza di Esterhazy e dei suoi protettori, si decise a dar battaglia. Il 12 gennaio 1898 Zola consegnò a Clemenceau l’articolo intitolato Lettera al signor Félix Faure, presidente della Repubblica; Clemenceau lasciò immutato il testo ma cambiò il titolo in J’accuse che fu stampato a caratteri di scatola. Il giornale andò a ruba; un’enorme emozione s’impadronì di Parigi, poi di tutta la Francia, dell’Europa, degli Stati Uniti. Da quel giorno l’Affaire Dreyfus diventò L’Affaire e basta, la questione per eccellenza. La lunga lettera di Zola ripercorreva tutte le tappe del caso e concludeva con otto j’accuse. L’articolo portò Zola in tribunale, come lo stesso Zola aveva previsto e voluto con l’intenzione di riaprire in questa sede l’affare Dreyfus. Il processo si tenne dal 7 al 23 febbraio 1898. Tra i testimoni a suo favore sfilarono anche Anatole France e Jean Jaurès oltre a Scheurer-Kestner. Ottomila lettere di solidarietà allo scrittore, tra cui quelle di Giuseppe Verdi e di Lev Tolstoi, erano giunte da tutto il mondo a casa di Zola. Dentro e fuori il tribunale il clima era decisamente ostile a Zola e folle di scalmanati, sapientemente guidate da agitatori antisemiti, gridavano “Viva l’esercito” e “Morte agli ebrei”. La posta in gioco era molto alta: ragion di Stato contro società civile, conservazione sociale e difesa dell’onore dell’esercito contro l’innocenza manifesta di Dreyfus. La condanna di Zola era scontata. Intanto si era formato un nuovo governo nel quale ministro della Guerra era il generale Cavaignac, figlio del generale che aveva represso i moti operai del ‘48. Colpevolista convinto, Cavaignac si oppose strenuamente alla revisione del processo fino a quando, nel mese di agosto del ‘98, a causa di altri scandali piovuti sulla testa di Esterhazy, il dubbio non s’insinuò anche in lui e quindi decise di esaminare con più attenzione tutti gli incartamenti. Ne uscì convinto dell’innocenza di Dreyfus e della colpevolezza dell’uomo che aveva fabbricato le prove contro di lui: il tenente colonnello Henry. Convocato il 30 agosto e messo alle strette Henry confessò. Il 31 agosto fu arrestato e la sera stessa fu trovato esangue sul letto della sua cella: si era suicidato o, come molti sospettarono, era stato ucciso con due colpi di rasoio alla gola. Il 3 settembre Cavaignac si dimetteva mentre Esterhazy fuggiva in Inghilterra. L’istanza di revisione del processo presentata alle sezioni riunite della Corte di Cassazione non poteva essere accettata dagli ambienti militari perché la sua approvazione avrebbe segnato la superiorità dei tribunali civili su quelli militari, che era appunto il principio su cui aveva sempre insistito Clemenceau, e si parlò addirittura della possibilità di un colpo di stato militare. Comunque iniziò l’iter, lungo e faticoso, della revisione processuale e vennero alla luce tutte le malefatte dei vertici militari responsabili dell’affaire. Il 3 giugno viene annullato il verdetto del dicembre ’94 e Dreyfus rinviato a un nuovo processo da tenersi davanti alla Corte marziale a Rennes. Nello stesso giorno Esterhazy da Londra confessa di essere l’autore del bordereau, ma di averlo fatto dietro istruzioni superiori. L’indomani una grande manifestazione antidreyfusarda all’ippodromo di Auteil mostra come gli antisemiti non solo non si arrendevano di fronte all’evidenza ma sostenevano ancor più, dopo la confessione del vero colpevole, la tesi del complotto giudaico. Il 9 giugno Dreyfus inizia il viaggio di ritorno dall’isola del Diavolo verso la Francia: erano passati quasi cinque anni dal giorno del suo arresto. L’11 giugno al campo di corse di Longchamp nel Bois de Boulogne un’immensa folla manifestò la sua decisione di difendere gli ordinamenti repubblicani contro le mene della destra reazionaria e antisemita. Il governo cadde e fu sostituito da un governo a maggioranza radical-socialista e dreyfusarda. Ma il caso Dreyfus non era ancora chiuso. La sentenza della Corte marziale a Rennes condannò di nuovo, scandalosamente, Dreyfus per tradimento ma gli concesse circostanze attenuanti non meno insussistenti dei capi d’accusa. In tutto il mondo ci furono indignazione e sgomento. Il governo era propenso a ricorrere alla Cassazione ma il ministro della Guerra, volle tentare come al solito di salvare capra e cavoli e si oppose al ricorso ricordando al governo che la Francia “è nella sua maggioranza antisemita”. A questo punto il presidente del Consiglio Waldeck-Rousseau, fece sapere alla famiglia Dreyfus che il governo avrebbe sollecitato il capo dello Stato a concedere la grazia purché Dreyfus accettasse il provvedimento. Accettare la grazia significava riconoscersi colpevoli. Dreyfus, stanco e amareggiato, accettò pur di farla finita. Un convinto dreyfusardo, Charles Péguy, scrisse in proposito: “Noi saremmo morti per Dreyfus, ma Dreyfus non è morto per Dreyfus”. L’atto di clemenza fu firmato dal presidente della Repubblica Loubet il 19 settembre 1899; tre giorni dopo Dreyfus uscì dalla prigione. Waldeck-Rousseau il 17 novembre propose un’amnistia generale che, come disse Zola, avrebbe messo nello stesso sacco vittime e carnefici, onesti e farabutti. Solo nel 1904, sotto la pressione del leader socialista Jean Jaurès, il verdetto di Rennes venne riesaminato. Nel luglio 1906 il Parlamento approvò la reintegrazione di Dreyfus nel grado di maggiore e il rientro nei ranghi di Picquart col grado di generale: il 21 luglio nel cortile dell’École Militaire Dreyfus ottenne la Legion d’onore. Il 25 ottobre Clemenceau venne eletto primo ministro e nominò Picquart ministro della Guerra. Il 4 giugno di due anni dopo, con una solenne cerimonia, le ceneri di Zola, che era morto nel 1902, furono trasferite al Pantheon; nel corso della cerimonia un attentatore ferì Dreyfus ad un braccio. Di fatto, le forze reazionarie non si erano rassegnate e avevano continuato a considerare Dreyfus un traditore e a soffiare sul fuoco dell’odio antisemita. Ecco il punto: l’antisemita nega l’evidenza, a lui non importa dove stiano il torto e la ragione, la verità e la menzogna, a lui importa soltanto vedere la propria verità; l’ebreo, in quanto tale, è in ogni caso colpevole. Tra il 1940 e il 1944, i nipoti degli antisemiti sconfitti nel 1906, collaboreranno con i nazisti a deportare gli ebrei nei campi di sterminio.
Non è il primo film su ”l’affaire” ma è sicuramente il più rigoroso, duro e incisivo. Il regista usa il mezzo Cinema, un mezzo che padroneggia da maestro, per invocare giustizia pubblica e privata. Roman Polanski mette in luce quelle che Marc Bloch chiamava Fausses Nouvelles e che oggi più che mai inquinano la nostra esistenza. Dujardin sembra nato per interpretare Picquart, un uomo che oltrepassa le proprie convinzioni per affermare la verità e la giustizia. Non stima Dreyfus né come uomo né come soldato, però sa che è innocente. Mette a rischio vita e carriera, finisce in carcere ma non arretra di un passo. Un film necessario, di grande nitore formale, pulito, asciutto, tagliato con l’accetta, paragonabile ad Orizzonti di gloria di Kubrick. La colonna sonora accentua i toni cupi e oppressivi, così come la finestra chiusa dell’ufficio di Picquart. Un antidoto contro il veleno delle gogne mediatiche oggi presenti in modo massiccio, contro la propalazione di false notizie e l’uso distorto dell’informazione. Un film che suona come un avvertimento, un grido, un allarme contro i falsi moralisti, i fomentatori di odio, le piccole persone rancorose ed invidiose, contro coloro che vogliono carceri e manette in modo indiscriminato invece che giustizia e verità. Abbiamo urgente bisogno dei Picquart per sconfiggere i pigmei rancorosi e ottusi, e sono molti, che ci circondano.
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(di giuliog02)
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giuliog02
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venerdì 27 dicembre 2019
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se ne sentiva il bisogno
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Eccellente ricostruzione del caso Dreyfus con attori validi che ben interpetano la propria parte, una sceneggiatura curata, attenta ai particolari ed all'ambientazione, ed una regia eccellente.
Il film è di estrema attualità per due ragioni contingenti nel degrado culturale e sociale in cui siamo immersi. Di queste due ragioni, entrambe fondamentali, la condanna del razzismo antiebraico è la seconda. La prima, il vero e proprio obiettivo centrale, è una chiamata all'etica, al senso di giustizia, all'onestà intellettuale, alla necessità di rettitudine e del coraggio di agire secondo le proprie convinzioni, costi quello che costi.
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Eccellente ricostruzione del caso Dreyfus con attori validi che ben interpetano la propria parte, una sceneggiatura curata, attenta ai particolari ed all'ambientazione, ed una regia eccellente.
Il film è di estrema attualità per due ragioni contingenti nel degrado culturale e sociale in cui siamo immersi. Di queste due ragioni, entrambe fondamentali, la condanna del razzismo antiebraico è la seconda. La prima, il vero e proprio obiettivo centrale, è una chiamata all'etica, al senso di giustizia, all'onestà intellettuale, alla necessità di rettitudine e del coraggio di agire secondo le proprie convinzioni, costi quello che costi.
Il regista c'è riuscito: alla fine della proiezione il pubblico resta seduto, guarda lo scorrere dei testi finali, ma è una scusa: sta meditando!
La stragrande maggioranza degli spettatori resta colpita dalla trama, dall'infingardaggine di alti ufficiali, del ministro della guerra, dei giudici militari, dall'incapacità del governo di condursi con intelligenza politica oltre che onestà d'intenti. Si è vista anche la bestialità della folla, manipolata dalle destre e ottusamente antiDreyfusiana. Si mette in risalto l'uso o l'abuso del termine "traditore" rivolto al Capitano Dreyfuss dai varri infingardi nelle diverse situazioni di discussione tra il colonnello Picquart e gli oppositori alla revisione del processo, ma i veri traditori della patria erano loro, che opponendosi alla revisione della condanna a un innocente e, addirittura, assolvendo la vera spia (Estherazy), consentivano alla vera spia di proseguire i suoi traffici a danno della nazione. Anche su questo meditavano gli spettatori seduti a fine proiezione.
Bel film. Lo rivedrò e lo consiglio vivamente
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francesco izzo
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domenica 29 dicembre 2019
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vero come un pugno in faccia
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Purtroppo il film è talmente vero e realistico da fare male, come fa male un pugno in faccia.
Il potere che fa quadrato attorno alla sua corporazione ed all'eventuale problema sorto in essa non è una novità. Vorrei dire, soprattutto in Italia; e forse mi consolo, ma non troppo, a vedere che invece questa è una storia francese.
Si trova sempre chi, felice di appartenervi, è pronto a mentire, a vendersi, a prostituirsi contento.
Il capitano che ascolta la sua coscienza sa il fatto suo, si sa difendere bene, ma alla fine nulla può contro il potere coalizzato contro di lui. Lo cava d'impaccio Emile Zola con la forza e la serratezza delle sue accuse pubbliche.
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Purtroppo il film è talmente vero e realistico da fare male, come fa male un pugno in faccia.
Il potere che fa quadrato attorno alla sua corporazione ed all'eventuale problema sorto in essa non è una novità. Vorrei dire, soprattutto in Italia; e forse mi consolo, ma non troppo, a vedere che invece questa è una storia francese.
Si trova sempre chi, felice di appartenervi, è pronto a mentire, a vendersi, a prostituirsi contento.
Il capitano che ascolta la sua coscienza sa il fatto suo, si sa difendere bene, ma alla fine nulla può contro il potere coalizzato contro di lui. Lo cava d'impaccio Emile Zola con la forza e la serratezza delle sue accuse pubbliche.
Forse Dreyfus alla fine si sarebbe dovuto accontentare della sua liberazione e riabilitazione.
Non perché non avesse ragione nel rivendicare ciò che al suo difensore era stato riconosciuto, e cioè l''avanzamento al grado superiore; ma alla fine per puro buon senso, gratitudine ed aderenza ad una realtà che, fino a poco prima, era stata con lui implacabile.
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mardou_
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venerdì 31 gennaio 2020
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la vérité en marche
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Espressioni quali " Affaire Dreyfus" o "Caso Rosenberg" sono usate comunemente quando si vuole indicare, come direbbe Gadda, un qualche pasticciaccio brutto che coinvolge per lungo tempo un paese, in cui qualcuno viene messo alla gogna con prove indiziarie spesso dalla nebulosa veridicità, ma che hanno un forte impatto sull'opinione pubblica.
L' accusa di tradimento e spionaggio a favore della Germania, mossa nei confronti del capitano alsaziano di origine ebraica Alfred Dreyfus, sulla base di documenti secretati e dell'inquinamento di prove inconfutabili, altro non fu che il più grave episodio di antisemitismo della Francia durante Terza Repubblica.
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Espressioni quali " Affaire Dreyfus" o "Caso Rosenberg" sono usate comunemente quando si vuole indicare, come direbbe Gadda, un qualche pasticciaccio brutto che coinvolge per lungo tempo un paese, in cui qualcuno viene messo alla gogna con prove indiziarie spesso dalla nebulosa veridicità, ma che hanno un forte impatto sull'opinione pubblica.
L' accusa di tradimento e spionaggio a favore della Germania, mossa nei confronti del capitano alsaziano di origine ebraica Alfred Dreyfus, sulla base di documenti secretati e dell'inquinamento di prove inconfutabili, altro non fu che il più grave episodio di antisemitismo della Francia durante Terza Repubblica.
In un clima di forte nazionalismo ed isolamento della nazione, gli apparati militari, in pieno espansionismo coloniale, mostrarono il pugno di ferro contro le altre istituzioni , mentre l'affaire e le sue conseguenze di propagarono per quasi due decenni fino alla vigilia della Prima Guerra Mondiale.
La struttura della pellicola segue un impianto classico ed il ritmo di una pièce teatrale, dove il colonnello Picquart ha il volto dell'ottimo Jean Dujardin, mentre l'ebreo Dreyfus ha la sofferenza opaca e l'onore violato di Louis Garrel. Il loro dialogo è presente sulla scena ininterrottamente, anche quando è l'assenza di uno dei due a prenderne il posto, grazie alla regia di Roman Polansky che regala chiarezza e completezza alla vicenda storica, senza alcuna sbavatura o licenza poetica.
Così la storia inizia esattamente quando sembra essersi conclusa, mentre uno degli atti più salienti è rappresentato dallo J'Accuse di Émile Zola , la celebre lettera al Presidente della Repubblica del 13 gennaio 1898 che lo scrittore pubblicò sul quotidiano L'Aurore, dando vita al movimento intellettuale che sostenne la campagna innocentista...
"La Vérité En Marche
Émile Zola"
Un messaggio potente, che non conosce confini e che ci impone alla riflessione nel suo essere sempre così attuale.
Elisabetta Baou
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felicity
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lunedì 6 aprile 2020
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un saggio sul potere
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Da un episodio che ha prodotto una vastità di libri, ma poche storie al cinema, Polanski approda a un saggio sul potere e a un thriller dove coabitano racconto piano e tensivo, il dramma di un uomo e l'ottusa farsa, quasi somatica, gestuale, corporea, come dipinta più che filmata, di chi mente, falsifica, manipola, con una regia precisissima d'opera in costume che è anche un libero, individualistico film-puzzle, una stratificazione perfetta di segmenti narrativi che inclinano il senso insieme a ciò che la parola dice e nasconde.
Dreyfus è già tutto in quella bellissima, tremenda sequenza della degradazione militare che apre il film e sa schiudere già il Cinema.
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Da un episodio che ha prodotto una vastità di libri, ma poche storie al cinema, Polanski approda a un saggio sul potere e a un thriller dove coabitano racconto piano e tensivo, il dramma di un uomo e l'ottusa farsa, quasi somatica, gestuale, corporea, come dipinta più che filmata, di chi mente, falsifica, manipola, con una regia precisissima d'opera in costume che è anche un libero, individualistico film-puzzle, una stratificazione perfetta di segmenti narrativi che inclinano il senso insieme a ciò che la parola dice e nasconde.
Dreyfus è già tutto in quella bellissima, tremenda sequenza della degradazione militare che apre il film e sa schiudere già il Cinema.
J’accuse elogia il "fare il proprio dovere", mette alla berlina le alte cariche tronfie e fatue, i sottoposti correi e corrivi, divelle l’ingranaggio del potere, l’homo homini lupus istituzionalizzato, e apre alla residua speranza: tocca all’uomo, anzi, a un uomo conoscere perché non si possa più ignorare, scoprire perché non si possa più annichilire, affrancare perché non si possa più ingiustamente punire.
Dujardin ha calma, eleganza e probità, Garrel è perfetto: thriller per genere, commedia umana per guadagno, trattatello politico per analisi, grande cinema per immagini.
Con non pochi riflessi della propria vicenda personale, Polanski vuole gettare una luce, fredda e malinconica, sul nostro presente di faziosità animose, di fake news, di cacce alle streghe e agli stregoni,
Polanski non si dà arie, non si pavoneggia, solo ci fa vedere meglio: le focali lunghe della Storia, il nostro qui e ora. Chi dimentica è complice, anzi, carnefice.
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