vanessa zarastro
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venerdì 14 settembre 2018
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la famiglia come comunità
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In “Shoplifters”, titolo internazionale dell’ultimo film di Koreeda che in italiano vuol dire taccheggiatori, il regista prosegue la sua operazione di scavo nella famiglia contemporanea giapponese. Già autore dello stesso tema in “Ritratto di famiglia con tempesta” del 2016, “Little Sister” del 2015 e “Father & Son” del 2013, in “Un affare di famiglia” Koreeda svuota la famiglia dai rapporti biologici riproponendola come comunità, come gruppo protettivo che vive e affronta assieme la vita. I saperi vengono tramandati dagli anziani ai giovani così come avviene nelle famiglie biologiche.
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In “Shoplifters”, titolo internazionale dell’ultimo film di Koreeda che in italiano vuol dire taccheggiatori, il regista prosegue la sua operazione di scavo nella famiglia contemporanea giapponese. Già autore dello stesso tema in “Ritratto di famiglia con tempesta” del 2016, “Little Sister” del 2015 e “Father & Son” del 2013, in “Un affare di famiglia” Koreeda svuota la famiglia dai rapporti biologici riproponendola come comunità, come gruppo protettivo che vive e affronta assieme la vita. I saperi vengono tramandati dagli anziani ai giovani così come avviene nelle famiglie biologiche.
La poetica figurativa di “Shoplifters” è composta da gesti, sguardi e suoni; è messo in evidenza il linguaggio del corpo in tutti i suoi movimenti, suoni, umori. Così come mostrato già nelle scene di “Father and Son” il regista enfatizza i rapporti fisici di una famiglia proletaria versus una certa repressione degli affetti nella famiglia borghese di intellettuali. Nel film del 2013 erano presentati anche due modi diversi di essere padre: il commerciante più fisico e genuino versus l’architetto più razionale e meno emotivo.
Qui c’è l’apoteosi dell’intimità corporea, tra le persone che condividono uno spazio minuscolo dove mangiano, giocano, vivono e fanno (raramente) l’amore. È, infatti, in questo misero tugurio, che abitano ammonticchiati gli Shibata, padre, madre, nonna, una figlia adolescente, un bambino, cui si aggiungerà una bimba. Delicatissmo è l’affresco dipinto da Koreeda di quest’ultima casa sopravvissuta, una sorta di baracca con il verde attorno, circondata ormai dall’urbano contemporaneo e da nuovi edifici residenziali più attrezzati e muniti di confort. Un Giappone molto diverso da quello scintillante e sofisticato delle riviste patinate. A parte una vista panoramica dal cantiere del grattacielo, e una scena nella spiaggia, presumibilmente di Isumi city, il film è girato prevalentemente in interno – come faceva anche il grande regista Yaujiro Ozu - e della metropoli è mostrata una parte suburbana povera.
I membri della famiglia di questo film sono una sorta di “zingari stanziali in versione giapponese”. Sono persone che vivono di espedienti e di piccole illegalità: Nobuko (Sakura Ando) vive con il marito Osamu (Lily Frankly), il capofamiglia che lavora come operaio a cottimo in un’impresa edile, ma fa anche il taccheggiatore e si approvvigiona il cibo rubacchiando. Hatsue Shibata (Kirin Kiki), l’anziana nonna, ha una pensione cui assomma un provento più o meno lecito (forse un ricatto?) da un figlio che vive in una casa unifamiliare a due piani, in un’altra parte della città. La giovane Aki (Mayu Matsuoka) è studentessa, ma lavora anche come semi prostituta in un peep-show.
Accolgono a casa loro Juri (Miyu Sasaki), una carina e dolce bambina di cinque anni trovata sola, denutrita e maltrattata dai veri genitori; peraltro avevano già accolto Shota (Jyo Kairi) un ragazzino abbandonato in un’auto nel parcheggio di una zona di giochi e slot-machines. Di fatto ci sarebbero gli estremi di un rapimento, anche se, data la maniera affettuosa di occuparsi dei bambini, non si riesce proprio ad addossare loro alcuna colpa. Qui non c’è neanche la cattiveria dickensiana nell’insegnare a rubare ai bambini (Oliver Twist), infatti, interrogato sul perché avesse instradato il bambino al furto Osamu Shibata risponde: «era l’unica cosa che potevo insegnargli». Anche l’assistente sociale vorrebbe raddrizzare la vita della famiglia (e dei membri che conosce…) che però rappresenta uno splendido “equilibrio tra devianza e coesione affettiva interna”.
Una tematica attuale è se la genitorialità risieda in una questione di sangue o sia da riscontrarsi nell’affetto costante e continuo che cresce col figlio nei suoi primi anni di vita. Chi sono i veri genitori, quelli che procreano o quelli che allevano i figli e li proteggono dal mondo là fuori? Lo stesso interrogativo il regista l’aveva posto in “Father & Son” qualche anno prima, dove due famiglie giapponesi di due diversi ceti sociali, si vengono a trovare nella sciagurata situazione di sapere, sei anni dopo, dello scambio dei reciproci bambini nella nursery. Cosa fare? Chi incolpare? Come superare il trauma? Come non far vivere un trauma ai bambini? E quanto contano i legami di sangue e quelli acquisiti? Cos’è dunque una famiglia?
La seconda parte del film consiste in una resa dei conti, un disvelamento, prima per lo spettatore, poi per i personaggi stessi. Sono mostrati gli interrogatori individuali dei membri della ormai scoperta “famiglia”. Primi piani, quadri fissi o lentissimi movimenti di macchina. Vengono fuori i problemi morali su cui la storia è costruita e Nobuko, incensurata, si addossa tutte le responsabilità.
Mi faceva notare, la mia compagna di cinema, che è probabile che Kore-eda abbia amato particolarmente il film “Germania anno zero” del 1948, e che nel finale pur nella sua ambiguità, potrebbe essere stato suggestionato dal film di Rossellini.
Il film è stato premiato meritatamente con la Palma d'Oro al Festival di Cannes del 2018.
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writer58
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sabato 10 novembre 2018
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famiglie d'oggi
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Non so bene perché, ma questo film di Kore'eda Hirokazu mi ha spinto a interrompere un silenzio che durava ormai da parecchi mesi e che, via via, diventava sempre più difficile superare.
"Un affare di famiglia" (traduzione non particolarmente felice del titolo internazionale "Shoplifters") mi è parso un lavoro stimolante e molto ben interpretato che propone uno spaccato particolare della società giapponese e dei suoi interstizi marginali.
All'interno di un modello ipertecnologico e postindustriale, segnato da solitudini, patologie individuali e di coppia e indifferenza, sopravvive un nucleo formato da sei persone, che vive in uno spazio ridottissimo e fatiscente, a ridosso di edifici moderni e cantieri, una "famiglia" formata da persone che non sono legate tutte da vincoli di parentela, ma che si prendono cura uno degli altri salvaguardando uno spazio di relazioni ed affetti che i nuclei famigliari convenzionali sembrano avere smarrito.
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Non so bene perché, ma questo film di Kore'eda Hirokazu mi ha spinto a interrompere un silenzio che durava ormai da parecchi mesi e che, via via, diventava sempre più difficile superare.
"Un affare di famiglia" (traduzione non particolarmente felice del titolo internazionale "Shoplifters") mi è parso un lavoro stimolante e molto ben interpretato che propone uno spaccato particolare della società giapponese e dei suoi interstizi marginali.
All'interno di un modello ipertecnologico e postindustriale, segnato da solitudini, patologie individuali e di coppia e indifferenza, sopravvive un nucleo formato da sei persone, che vive in uno spazio ridottissimo e fatiscente, a ridosso di edifici moderni e cantieri, una "famiglia" formata da persone che non sono legate tutte da vincoli di parentela, ma che si prendono cura uno degli altri salvaguardando uno spazio di relazioni ed affetti che i nuclei famigliari convenzionali sembrano avere smarrito. Questa "famiglia" sottoproletaria, che vive di espedienti (dai furti nei negozi ai lavori in un negozio "a luci rosse") accoglie due minori abbandonati che trovano al suo interno una nuova appartenenza e legami più caldi e meno impersonali. Come a dire che solo un'esperienza di devianza può generare valori positivi se l'assetto sociale imperante è di fatto spersonalizzante e basato su ideologie competitive e consumistiche.
La narrazione di Kore'eda non è manichea, non ci propone un ritratto agiografico della famiglia Shibata, ritratta efficacemente nelle sue ambiguità e nei suoi slanci. Il film è pieno di sequenze intense, di primi piani che inquadrano volti e corpi, momenti di tenerezza e piccole miserie quotidiane, la difficoltà dei minori a chiamare "papà" o "mamma" gli adulti che si prendono cura di loro, un'escursione di gruppo sulla spiaggia, l'irruzione della legge che scompagina l'organizzazione famigliare e restituisce i minori ai loro nuclei di origine.
Un'opera bella e girata con grande sensibilità, che si avvale di un cast eccellente, vincitrice meritatamente della Palma d'oro del 2018 a Cannes.
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maurizio.meres
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lunedì 17 settembre 2018
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intenso,profondo e vero,un film di grande spessore
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Senza dubbio un film di grande valore,ambientato in una periferia degradata di una metropoli Giapponese,anche se non viene menzionata si tratta di Tokyo,lo scorrere della vita quotidiana di un gruppo di persone ai margini della vita sociale che con espedienti non proprio onesti cerca di vivere.
Questa famiglia,e qui il regista impone allo spettatore la domanda sulla creazione di un nucleo famigliare,si può scegliere,in questo caso creatasi dalla disperazione,in un paese così detto civile dove questo tipo di emarginazione fa diventare le persone solo ombre che girano nel vuoto della loro solitudine e il mangiare in continuazione diventa quasi l'unico scopo di vita,ma in ognuno di loro esce la parte più pura dell'anima in un sentimentalismo di pietà reciproca solo per dare ad ognuno un segnale di esistenza.
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Senza dubbio un film di grande valore,ambientato in una periferia degradata di una metropoli Giapponese,anche se non viene menzionata si tratta di Tokyo,lo scorrere della vita quotidiana di un gruppo di persone ai margini della vita sociale che con espedienti non proprio onesti cerca di vivere.
Questa famiglia,e qui il regista impone allo spettatore la domanda sulla creazione di un nucleo famigliare,si può scegliere,in questo caso creatasi dalla disperazione,in un paese così detto civile dove questo tipo di emarginazione fa diventare le persone solo ombre che girano nel vuoto della loro solitudine e il mangiare in continuazione diventa quasi l'unico scopo di vita,ma in ognuno di loro esce la parte più pura dell'anima in un sentimentalismo di pietà reciproca solo per dare ad ognuno un segnale di esistenza.
Il regista compone una storia di una drammaticità cruda e allo stesso tempo crudele,coglie in ognuno dei personaggi entrando nel profondo intimo ogni attimo di tristezza e allo stesso tempo di gioia vivere,con piccole cose ma importanti per loro,da una perfetta immagine di usi e costumi di un Giappone assente,egoistico,e tollerante.
Le riprese sono intense e profonde,di una dolcezza unica sono i due bambini,i loro sguardi,così come tutta la tematica del film penetrano nel profondo dell'essere umano in una riflessione personale sulla disuguaglianza sociale,su ciò che veramente siamo e il perché ci siamo,dove i meno fortunati vengono privati della propria dignità,la morte vista con molta marginalità quasi una liberazione reciproca,il film si svolge in Giappone ma poteva essere in qualsiasi parte al mondo.
Consigliatissimo
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loland10
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lunedì 17 settembre 2018
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miserie di un 'gruppo familiare'
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“Un affare di famiglia” (Manbiki kazoku, 2018) è il diciannovesimo lungometraggio del regista di Tokyo Hirokazu Kore'da.
Le essenze dei luoghi, gli incroci tra le persone, il vivere inerme, lo studio di ripresa di un gruppo. La famiglia come indagine di vita o meglio il silenzio tra persone conviventi: una famiglia che tale non è. Il titolo del film parla dì ‘taccheggiatori’, una strada per vivere la giornata.
Le aspettative, inutile negarle, erano tante prima di entrare in sala.
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“Un affare di famiglia” (Manbiki kazoku, 2018) è il diciannovesimo lungometraggio del regista di Tokyo Hirokazu Kore'da.
Le essenze dei luoghi, gli incroci tra le persone, il vivere inerme, lo studio di ripresa di un gruppo. La famiglia come indagine di vita o meglio il silenzio tra persone conviventi: una famiglia che tale non è. Il titolo del film parla dì ‘taccheggiatori’, una strada per vivere la giornata.
Le aspettative, inutile negarle, erano tante prima di entrare in sala. Un qualcosa che non soddisfa c’è. L’evitare di non entrare dentro i personaggi, la sola ripresa quasi da documento, il muoversi poco, gli accadimenti minimi e quasi palpabili. Quando arriva la pioggia e la ruberia può fare cilecca, pare già tutto in anticipo come ogni silenzio dei corpi in movimento.
Che dire, qualcuno ha trovato il film capolavoro e da incorniciare quasi pura poesia, per chi scrive meno: un susseguirsi di piccoli episodi e di vite in attesa dei tempi. Sia dentro che fuori. Importante è mangiare qualcosa, arrangiarsi e, senza conoscersi, potersi aiutare.
Una famiglia che non c’è. Una nonna che ha una pensione. Un uomo che vivacchia con qualche lavoretto in cantiere. Una donna che ogni tanto fa la stiratrice. Un bambino che adopera le mani per rubare tra mercati e negozi. Una bambina in aggiunta che impara il mestiere.
Un film semplice nei gesti e nelle parole dove ogni sguardo sembra complice di qualcuno che stai imparando a conoscere. Una vita soffusa, misera, nascosta. Dentro le mura di una casa piccola, quasi senza luoghi, non delimitata, un gruppo di persone sono in compagnia, complici di silenzi interiori e di vite vissute. Tutto scorre cercando il cibo tra sotterfugi, ruberie, lavori saltuari e la pensione della nonna. Nessuno è padre, nessuna è madre. Per essere madre si deve partorire. Ma sei madre se non partorisci. I luoghi comuni, i gesti giornalieri e le miserie interiori sono lì davanti a loro: tutto va avanti senza tempo, quasi senza contrapposizioni. Ma fuori qualcosa cambia, i tempi si possono interrompere e il lavacro di una pioggia come di una fuga da una piccolo furto trovano il passo ad un cambio che nessuno osserva. Nessuno si accorge di quello che è attorno, ma è l’attorno che entra dentro e vede tutto quello che di famiglia, in gergo arcaico e semplice, non c’è. Praticamente tutto.
Ed ecco che arriva la tv con i giornalisti a frotte, la legge con le domande senza risposta, i cadaveri e gli scheletri reali e veramente nascosti. Il giorno e il suo peregrinare, la notte dormiente, il passare qualche ora lieta, il mare come vero diversivo, lasciano il passo al funereo, macabro è triste mondo che non vediamo.
Quando la bambina passa in tv, con l’appello dei genitori, sembra tutto normale, tutto appare in linea: basta un taglio dei capelli, un cappellino e il viso sembra di una altra. Ma il vivere, anche con la legge è di un bastimento umano indegno, indecoroso anche quando il fare l’amore toglie le soddisfazioni tra due persone sconosciute. La bambina in questo marasma sembra trovarsi bene, basta che ‘non mi picchi’. Una società acre, amara, lignea e con un cuore al contrario. Stare con qualcuno appare difficile, stare con i bambini logico, stare con il rubare e il nascondere corpi è un qualcosa che non ti avvedi. Non si vede nulla. Anche il mangiare è senza preparazione. La vita va avanti, il cibo e la morte si piacciono senza farsi vedere.
Un film che dice molto, un film che lascia segni, un film che distribuisce verità ma il suo porsi, per chi scrive, è una lentezza fuori dalle righe, una dire stretto e un non pronunciamento dei nomi ‘familiari’. Dire ‘papà’ non è semplice. Una partenza, un distacco segnano l’unione tra un adulto e un figlio non suo.
La scena della spiaggia appare delicatamente retrò, un senso di vuoto e spaesamento per una nonna che vede la ‘sua famiglia’ unita. Finale (senza dirlo) o meglio ultima inquadratura che si legge più volte e in anticipo par di capirla. Il realismo senza filtri.
Regia di poco movimento e teatrale.
Voto 7-/10 (***).
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sergiodalmaso
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martedì 27 novembre 2018
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l'unica famiglia è quella felice
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“L’unica famiglia è quella naturale: padre, madre e figli. Altre non ne esistono” (un politico)
“L’unica famiglia è quella felice” (un bambino)
Cos’è una famiglia? Bastano i legami di sangue per definirla? O contano di più quelli affettivi?
Decisamente strana è quella formata da Osamu, un goffo e maldestro operaio precario, ladruncolo per necessità, e la compagna Nobuko, stiratrice a chiamata. Vivono nell’umile appartamento dell’anziana nonna Hatsue assieme alla nipote Aki, studentessa che arrotonda in un locale a luci rosse, e Shota, un ragazzino in difficoltà “adottato” dalla famiglia allargata e anch’esso iniziato al furto.
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“L’unica famiglia è quella naturale: padre, madre e figli. Altre non ne esistono” (un politico)
“L’unica famiglia è quella felice” (un bambino)
Cos’è una famiglia? Bastano i legami di sangue per definirla? O contano di più quelli affettivi?
Decisamente strana è quella formata da Osamu, un goffo e maldestro operaio precario, ladruncolo per necessità, e la compagna Nobuko, stiratrice a chiamata. Vivono nell’umile appartamento dell’anziana nonna Hatsue assieme alla nipote Aki, studentessa che arrotonda in un locale a luci rosse, e Shota, un ragazzino in difficoltà “adottato” dalla famiglia allargata e anch’esso iniziato al furto.
Vivono nell’anonimato, socialmente isolati come la fatiscente casetta immersa nel lussuoso quartiere residenziale. Un microcosmo famigliare fragile e instabile, che per proteggersi ha reciso tutti i legami sociali affidandosi solo a quelli affettivi. Malgrado l’indigenza e la povertà materiale, malgrado si siano “scelti” inizialmente solo per necessità, c’è tra i componenti della famiglia Shibata un affetto profondo, un’umanità e un calore domestico del tutto sinceri. Per Osamu e Nobuko sarà assolutamente naturale aiutare la piccola Juri lasciata dai genitori per punizione al gelo nel terrazzo,e poi accoglierla nella famiglia dopo aver visto i lividi che ha sulle braccia. Non si fanno domande, seguono quello che gli dice il cuore, anche se sanno che socialmente è sbagliato, che giuridicamente potrebbero essere accusati di rapimento di un minore.
Con questo ennesimo capolavoro il maestro giapponese Kore-Eda continua la sua ricerca sulle tematiche che caratterizzano il suo cinema come i legami famigliari e il senso della genitorialità. Un affare di famiglia sembra chiudere la tetralogia iniziata con Father and Son e proseguita con Little Sister e Ritratto di famiglia con tempesta. Come sempre è un cinema poetico, misurato, che non ha bisogno di pathos sensazionalistico né di enfatizzare gli aspetti drammatici. Bastano i dettagli, gli sguardi, i sorrisi malinconici. Non serve ostentare i maltrattamenti subiti da Yuri, basta mostrare con pudore i segni delle bruciature sulle braccia.
I dialoghi sono sobri ed essenziali, perché per Kore-Eda conta più il linguaggio del corpo, la gestualità del non detto, la verità che emerge dai dettagli.
Splendidi per la grazia e la delicatezza sono gli episodi di vita famigliare, come la serata con i fuochi d’artificio o la giornata passata al mare in cui la nonna commossa, in una delle scene più belle, riesce solo a sussurrare “grazie”. La notevole bravura del registra giapponese si rivela anche nel dirigere i bambini e gli adolescenti con una naturalezza e una espressività mai fuori misura, sempre credibili. Molto efficaci le sequenze girate dentro le caotiche e anguste stanze della casetta, riprese dal basso e con una fotografia calda e luminosa, opposta a quella fredda e grigia degli esterni.
Nell’ultima parte, dopo che l’incantesimo si sarà spezzato e l’isolamento sociale degli Shibata avrà termine, il film cambia rapidamente registro. L’entrata in scena delle figure istituzionali preposte - assistenti sociali, magistrati, psicologi – disvela, con freddi e asettici interrogatori, le bugie e l’oscuro passato dei vari componenti della famiglia. I legami sociali ufficiali potranno così essere ripristinati.
Un affare di famiglianon ha alcun intento pedagogico, tantomeno moralista, non c’è nessun buonismo ad effetto. Kore-Eda si limita a sollevare delle domande, senza forzare delle risposte che, su temi così sensibili, ognuno deve cercare da solo. Magari ce le fa suggerire dallo sguardo triste di Yuri che sale sullo sgabello e guarda dal balcone per vedere se sono tornati quei personaggi strani che gli avevano dato affetto e serenità.
O Shota che sull’autobus riesce alla fine a sussurrare a se stesso quella parola che non aveva avuto la forza di dire a Osamu. La loro vita cambierà, ma resteranno vivi i ricordi dei momenti felici, dell’affetto dato e ricevuto. Già, perché come dice Kore-Eda “è il sangue o il tempo che passi assieme che forma una famiglia?”
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flyanto
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mercoledì 19 settembre 2018
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quale famiglia risulta migliore?
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Premiato l’anno scorso all’ultimo Festival del Cinema a Cannes, “Un affare di Famiglia” di Kore’da Hirokazu esce finalmente nelle sale cinematografiche italiane presentando ancora una volta, come è consuetudine di questo regista giapponese, una storia strettamente familiare.
La famiglia protagonista è composta da un’anziana nonna sulla quale, in pratica, si basa tutto il suo sostentamento economico, da un padre operaio che trascorre parte delle proprie giornate a compiere dei furti al fine di procurarsi il necessario e non, insegnando, nel frattempo, al figlioletto la stessa ‘pratica’, da una madre molto più giovane che lavora in una lavanderia da dove poi viene licenziata, e da una giovane ragazza di circa 18 anni che, nel tempo libero o quando non si reca a scuola, si prostituisce in una sorta di locale a luci rosse.
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Premiato l’anno scorso all’ultimo Festival del Cinema a Cannes, “Un affare di Famiglia” di Kore’da Hirokazu esce finalmente nelle sale cinematografiche italiane presentando ancora una volta, come è consuetudine di questo regista giapponese, una storia strettamente familiare.
La famiglia protagonista è composta da un’anziana nonna sulla quale, in pratica, si basa tutto il suo sostentamento economico, da un padre operaio che trascorre parte delle proprie giornate a compiere dei furti al fine di procurarsi il necessario e non, insegnando, nel frattempo, al figlioletto la stessa ‘pratica’, da una madre molto più giovane che lavora in una lavanderia da dove poi viene licenziata, e da una giovane ragazza di circa 18 anni che, nel tempo libero o quando non si reca a scuola, si prostituisce in una sorta di locale a luci rosse. Scoprendo, un giorno, nel quartiere in cui vive il nucleo familiare, una bimba di circa 5 anni sola, infreddolita ed affamata, il padre decide, concordi più o meno tutti i componenti, di annetterla alla famiglia, prendendosene cura e non denunciandone, invece, la scomparsa alla polizia. Quando viene trasmesso il notiziario in TV con la notizia della suddetta scomparsa, i nuovi ‘genitori adottivi’ decidono di continuare a tenerla con sé, cambiandole il taglio di capelli ed il nome al fine di non renderla più riconoscibile a nessuno. Trascorrono così parecchi mesi e la convivenza tra tutti si dimostra quanto mai armonica ed affettuosa: anche alla bimba, ovviamente, viene insegnata la pratica di rubare nei negozi, ma al di là di ciò l’amore che tutti i componenti provano per lei è talmente sincero e profondo da far sì che ella si leghi sempre più a loro e viceversa, legarla a loro. Quando una giorno improvvisamente muore l’ormai anziana nonna, la situazione cambierà radicalmente…..
Kore’da Hirokazu ritorna ancora una volta ad affrontare, appunto, tematiche concernenti la famiglia e la società in tutti i suoi aspetti. Già con i precedenti “Father & Son”, “Little Sister” and “After the Storm” egli pone la famiglia sempre in primo piano: famiglie per lo più allargate e perfettamente rispecchianti la società contemporanea in cui vivono con le sue contraddizioni, debolezze e anche lati positivi. Ma il tema specifico sul valore e sull’importanza attribuita ai genitori naturali od adottivi viene in “Un Affare di Famiglia” ripreso, sebbene in un contesto del tutto nuovo e singolare, direttamente dal precedente “Father & Son”, con anche un uguale richiamo, per ciò che concerne, invece, la situazione dell’arrivo della bambina in una nuova famiglia, a “Little Sister”. In questa sua ultima opera cinematografica Kore’da si spinge però anche oltre, presentando una storia che all’inizio può apparire come deplorevole moralmente parlando se non, addirittura provocatoria, ma verso la fine della pellicola, l’intera vicenda viene spiegata con maggior chiarezza e, pertanto, più giustificata, arrivando a sollevare nello spettatore molteplici quesiti sul valore della famiglia, delle leggi, dell’assetto sociale generale e delle sue radicate ipocrisie. Il tutto viene perfettamente ed elegantemente presentato da Kore’da con il suo solito andamento lento, lucido e lineare di girare i films, facendo sì che l’atmosfera intima, dolce e di perfetta e serena armonia affettiva di un ambiente familiare predomini, rendendo i suoi lavori unici ed altamente poetici.
Giustamente premiato a Cannes con la Palma d’Oro, “Un Affare di Famiglia” è da considerarsi senza alcun dubbio un incontestabile esempio di ottimo cinema all’insegna della grazia e della delicatezza più autentiche.
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[+] una dolente riflessione umanista sul presente
(di antoniomontefalcone)
[ - ] una dolente riflessione umanista sul presente
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fabio
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venerdì 28 settembre 2018
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una riflessione delicata sulla famiglia e non solo
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La Palma d'Oro è andata a questo film e questo certo ingenera aspettative. Sono uscito perplesso ma dichiaro subito che il film mi è piaciuto. Le perplessità riguardano solo l'andamento un po' lento e certe ripetizioni che si potevano tagliare; insomma, il film è di 2 ore "stiracchiate" ma non arriva ad annoiare.
Al contrario, il racconto va' meditato bene e lasciato "decantare" per scoprirne la bellezza che a primo assaggio può sfuggire.
Avremmo bisogno di questi film e di registi sensibili e capaci per capire di più il Giappone ma anche per riflettere su noi stessi.
Cosa significa famiglia? Che vuol dire essere padre o madre o fratello? C'è solo una comunità di mutuo sostegno nei bisogni materiali, una specie di cooperativa, o c'è altro?
L'essere umano ha una sua bellezza: così sembra volerci dire il regista.
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La Palma d'Oro è andata a questo film e questo certo ingenera aspettative. Sono uscito perplesso ma dichiaro subito che il film mi è piaciuto. Le perplessità riguardano solo l'andamento un po' lento e certe ripetizioni che si potevano tagliare; insomma, il film è di 2 ore "stiracchiate" ma non arriva ad annoiare.
Al contrario, il racconto va' meditato bene e lasciato "decantare" per scoprirne la bellezza che a primo assaggio può sfuggire.
Avremmo bisogno di questi film e di registi sensibili e capaci per capire di più il Giappone ma anche per riflettere su noi stessi.
Cosa significa famiglia? Che vuol dire essere padre o madre o fratello? C'è solo una comunità di mutuo sostegno nei bisogni materiali, una specie di cooperativa, o c'è altro?
L'essere umano ha una sua bellezza: così sembra volerci dire il regista. Nella realtà i genitori non ce li scegliamo, ma possiamo immagginare un mondo dove i legami veri, quelli più profondi, possiamo trovarli da noi; possiamo essere genitori anche senza diventarlo mai.
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goldy
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mercoledì 19 settembre 2018
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il cinema è anche spettacolo
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E’ condizione sufficiente che un film sia ben fatto perché sia amato e apprezzato? Dubito. Se non coinvolge, non emoziona, non suscita riflessioni innovative la bravura registica lascia un po’ il tempo che trova. Il film ha ottenuto La Palma d’Oro a Cannes perché i giurati specializzati sanno apprezzano aspetti estetici e equilibri narrativi un po’ fini a se stessi. Altri sono le pulsioni di chi va al cinema per godere anche di uno spettacolo.
La tematica affrontata mi pare molto lontana dal nostro sentire. Il concetto di famiglia naturale come unico nucleo capace di offrire affettività e valori ha superato la soglia del sospetto e della diffidenza e la famiglia oggi è quanto di più variegato si possa immaginare.
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E’ condizione sufficiente che un film sia ben fatto perché sia amato e apprezzato? Dubito. Se non coinvolge, non emoziona, non suscita riflessioni innovative la bravura registica lascia un po’ il tempo che trova. Il film ha ottenuto La Palma d’Oro a Cannes perché i giurati specializzati sanno apprezzano aspetti estetici e equilibri narrativi un po’ fini a se stessi. Altri sono le pulsioni di chi va al cinema per godere anche di uno spettacolo.
La tematica affrontata mi pare molto lontana dal nostro sentire. Il concetto di famiglia naturale come unico nucleo capace di offrire affettività e valori ha superato la soglia del sospetto e della diffidenza e la famiglia oggi è quanto di più variegato si possa immaginare. Non sembra essere così in Giappone. Ne prendo atto ma non mi si chieda di esultare per questo film.
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mauro.t
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sabato 22 settembre 2018
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famiglia e' dove c'e' amore
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In un minuscolo appartamento giapponese vive una piccola comunità di persone legate da rapporti di parentela, che si chiariranno solo alla fine, svelando un passato criminale. Osamu, il padre di famiglia, è operaio edile a cottimo. Anche la sua compagna Nobuyo è operaia e perderà il posto in un drammatico scontro a eliminazione diretta con una collega. La nonna Hatsue vive di una pensione non certo legale. La giovane Aky fa lavori particolari in un locale a luci rosse. Il papà arrotonda come taccheggiatore e insegna i rudimenti dell’arte al bambino Shota. Una sera si portano a casa una bambina piccola (Yuri), che vedono sola e abbandonata: di fatto un rapimento.
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In un minuscolo appartamento giapponese vive una piccola comunità di persone legate da rapporti di parentela, che si chiariranno solo alla fine, svelando un passato criminale. Osamu, il padre di famiglia, è operaio edile a cottimo. Anche la sua compagna Nobuyo è operaia e perderà il posto in un drammatico scontro a eliminazione diretta con una collega. La nonna Hatsue vive di una pensione non certo legale. La giovane Aky fa lavori particolari in un locale a luci rosse. Il papà arrotonda come taccheggiatore e insegna i rudimenti dell’arte al bambino Shota. Una sera si portano a casa una bambina piccola (Yuri), che vedono sola e abbandonata: di fatto un rapimento. Anche la piccola sarà avviata al taccheggio. Insomma, una comunità di sottoproletari che vive nell’illegalità, ma dove circola più amore che in molte famiglie borghesi. La piccola Yuri, che nella sua famiglia biologica veniva picchiata e aveva sulle braccia lividi e segni di bruciature, trova in questo appartamento un calore umano mai conosciuto. Non si può non apprezzare l’armonia di questa strana famiglia durante la giornata trascorsa al mare. Ritratto sociale e culturale potente. La classe operaia si sta liquefacendo ed è rimasto il “Lumpenprioletariat” di Marx, che qui però assurge a portatore di valori in via di estinzione. Il regista sembra portare un’idea provocatoria: la violenza nelle comunità di piccoli delinquenti non è superiore a quella della società giapponese nel suo complesso. Famiglia non è dove nasci, ma dove c’è amore. Tuttavia la legge sociale non è d’accordo. Felici le simmetrie tra i genitori “adottivi” e i bambini: le bruciature sulle braccia di Nobuko e della piccola Yuri, la gamba rotta di Osamu e di Shota. Alla fine, un commerciante intelligente e bonario darà una lezione al piccolo Shota, il quale, già mosso dai dubbi, cercherà di salvare la sorellina dalla cattura dei sorveglianti del supermercato, e si farà male nella fuga, scatenando l’indagine degli inquirenti. Il disvelamento a cascata sul passato dei membri della comunità rotolerà sullo spettatore con una gragnuola di primi piani durante gli interrogatori, svelando ulteriori crimini. Nobuyo, incensurata, si addosserà tutte le colpe. La piccola Yuri tornerà a casa, alla violenza che già conosce. Il piccolo Shota andrà in una comunità. Toccante il momento in cui, solo, sull’autobus che si sta allontanando, chiamerà “papà” Osamu, che lo aveva tanto desiderato, ma che non potrà mai sentirlo. Film intenso, assolutamente da vedere, ma che ha l’unico difetto di basarsi (purtroppo) su un falso storico-sociale: i piccoli delle famiglie sottoproletarie, che vivono ai margini della legalità, sperimentano solitamente violenze maggiori di quelle dei bambini benestanti.
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eugenio
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venerdì 22 febbraio 2019
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memorie (di una famiglia) dal sottosuolo
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Un piccolo capolavoro l’ultimo film del regista Koreeda Hirokazu, palma d’Oro al Festival di Cannes del 2018 e ora in dvd., Un film fatto di silenzi, delicato, intenso, che ha come cuore il fulcro familiare, un dramma alla Yausjiro Ozu che abbraccia anche echi del cinema di Kurosawa.. E con Un affare di famiglia (titolo originale Shoplifter), quell'abbraccio è feroce, bello e amorevole come quello di una madre che cerca di eliminare tutte le paure di suo figlio.
C’è una summa del pensiero di Koreeda Hirokazu in questo film: tristezza, degrado, felicità, passione e apparenza.
Perché in Un affare di famiglia niente è ciò che sembra e l’analisi a misura d’uomo lucida e spietata di una famiglia giapponese “improvvisata” all’ultimo gradino della scala sociale non sembra proprio un modello da seguire con la sua alternanza di lavori molto umili e piccoli furti o prostituzione.
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Un piccolo capolavoro l’ultimo film del regista Koreeda Hirokazu, palma d’Oro al Festival di Cannes del 2018 e ora in dvd., Un film fatto di silenzi, delicato, intenso, che ha come cuore il fulcro familiare, un dramma alla Yausjiro Ozu che abbraccia anche echi del cinema di Kurosawa.. E con Un affare di famiglia (titolo originale Shoplifter), quell'abbraccio è feroce, bello e amorevole come quello di una madre che cerca di eliminare tutte le paure di suo figlio.
C’è una summa del pensiero di Koreeda Hirokazu in questo film: tristezza, degrado, felicità, passione e apparenza.
Perché in Un affare di famiglia niente è ciò che sembra e l’analisi a misura d’uomo lucida e spietata di una famiglia giapponese “improvvisata” all’ultimo gradino della scala sociale non sembra proprio un modello da seguire con la sua alternanza di lavori molto umili e piccoli furti o prostituzione. Qualcosa di cui in parte potremmo rimaner indignati, un rivolo di rabbia che si gonfia, si ramifica e poi esplode a delta nei momenti finali in una foce di un fiume nervoso ed empatico, in un umanesimo che abbraccia il cinema moderno dispiegando compassione.
Comincia con una vena delicatamente comica, leggera come una colonna sonora, il padre Osamu (l'insostituibile Franky Lily) e il tipo di figlio Shota (Kairi Jyo) si muovono con grazia in un supermercato con il figlioletto che viste le modeste necessità della famiglia, infila qualcosa nel suo zaino. Vivono in un appartamento angusto che appartiene alla loro nonna non vera (il bravo Kilin Kiki) e che condividono con la moglie di Osamu Nobuyo (Sakura Ando, ottima la sua perfomance solitaria nella scena finale luminosa e straordinaria) e la prostituta Aki (Mayu Matsuoka). Nessuna di queste persone ha un vero e proprio legame di sangue, ma si definiscono collettivamente Shibata. Sono quindi una famiglia che sta per diventare più numerosa. Sulla strada di casa in una notte gelida, Osamu e Shota notano, infatti, una bambina, Juri (Sasaki Miyu), abbandonata e la portano con loro. All'inizio Nobuyo non vuole avere niente a che fare con lei, ma a tempo debito si affezionerà alla ragazza con una tenerezza penetrante, verso la quale crescerà progressivamente un legame affettivo, forse superiore a quella della madre “putativa”.
La bellezza di Un affare di famiglia non è la storia, o almeno, non è questo l’intento del regista. Sono i dettagli, piccoli, minimi a rendere la pellicola nelle sue due ore, intensa e unica. Il ballo sensuale di Aki dinanzi a un “cliente” incapace di parlare, l’abbraccio di due reietti che trovano nel sesso lo sfogo e il denaro, l’atmosfera da “mangiatori di patate” di un quadro di Van Gogh, è una bellezza così suggestiva da sembrare effimera eppure così acuta da apparir dolore. E l’abilità del cineasta è riuscire a trasmettere le emozioni, senza mai rallentar il colpo, senza un momento di noia. Persino all’inizio nel fischiettar incurante del piccolo Shota a sostituir merce dagli scaffali, invertendo prezzi e cifre, si aggira già qualcosa nel corridoio della nostra anima: emozione.
Un’emozione che Koreeda riesce a comporre al culmine, nello sviluppo lento ma necessario di una famiglia. La precarietà, l'unione incerta, introduce elementi sorprendenti e oscuri che ci costringono a rivalutare le motivazioni di Shibata, interrogandoci sull'idea, centrale nel corpo di lavoro di Koreeda di “famiglia”, coacervo consanguineo o acquisito? in una conclusione dai vaghi rimandi all’Arminuta della Pietrantonio (per citare un esempio “italiano” letterario) amara e ineluttabile, mettendo in campo società, felicità e libero arbitrio. In questo lamento sommesso e ameno di questi Shoplifters ovvero “taccheggiatori del sottosuolo”, in questo mondo che anche se preferiamo non vedere, appartiene a tutti noi.
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