AVE, CESARE! (USA/UK, 2016) diretto da JOEL & ETHAN COEN. Interpretato da JOSH BROLIN, GEORGE CLOONEY, SCARLETT JOHANSSON, CHRISTOPHER LAMBERT, TILDA SWINTON, RALPH FIENNES, CHANNING TATUM, DOLPH LUNDGREN, WAYNE KNIGHT, JONAH HILL, FRANCESC MCDORMAND, ALDEN EHRENREICH, ALISON PILL
Ecco a voi Eddie Mannix, presentato dalla voce narrante di Michael Gambon (Michele Kalamera nella versione italiana), stratagemma già adoperato dai due registi nella loro precedente filmografia, agente cinematografico e presidente di un immenso Studio di Hollywood, la Capital Pictures. Siamo nel 1951, e la storia racconta gli episodi, nell’arco di ventisette ore, di attori, sceneggiatori, registi e produttori dell’apogeo hollywoodiano, stuzzicando l’interesse dello spettatore mediante vizi, virtù, capricci, intrighi, giochi di potere, manipolazioni, motteggi e operazioni segrete sottobanco. Al centro c’è il rapimento dietro riscatto (ma loro lo chiamano risarcimento) di Baird Witlock, centurione romano convertito al Cristo in una produzione in costume dal titolo Hail, Caesar!, il che costerà a Mannix la bellezza di 100 milioni di dollari, racchiusi in una valigia che sarà poi depositata a vantaggio dei sequestratori, i comunisti, che perderanno il denaro durante una traversata da Malibù (dove Witlock è stato portato, e dove verrà salvato da un collega, Hobie Doyle) in cui il loro comandante deve salire su un sottomarino battente l’immancabile stella rossa. Fra i documenti accusatori di McCarthy e gli impegni improrogabili che lo tengono occupato notte e giorno, Eddie si deve destreggiare incontrando numerose personalità, una più indisponente e melliflua dell’altra, fra cui: l’affascinante DeeAnna Moran, protagonista di un musical dove interpreta il ruolo di una sirena che fuoriesce da un lago artificiale di ninfee, appena uscita da una gravidanza indesiderata e con l’obiettivo di adottare legalmente il figlio, ignorando chi sia il padre; Thora e Tessaly Thacker, due sorelle reporter totalmente agli antipodi, la prima giornalista impegnata a caccia di scoop e la seconda redattrice di gossip che si nutre di abbondanti scandali; Laurence Laurentz, regista di un film drammatico girato in un teatro di posa, uomo severo e posato che ha il suo daffare nell’insegnare a Hobie Doyle, attore di western abituato più a sparare e cavalcare che all’uso della parola, come pronunciare una battuta semplicissima da intendere; Burt Gurney, ballerino di tip-tap in un musical sui marinai che devono partire per un posto privo di fanciulle, anch’egli comunista in gran segreto; e Arne Slessum, produttore rivale che propone al fixer protagonista un’offerta vantaggiosa per uno Studio rivale, da lui prontamente rifiutata dopo qualche esitazione per poter continuare a risolvere i noccioli problematici dei suoi imprevedibili ma in fondo affezionati attori-immagine. Come sottofondo, una serie di scandali che esploderanno in un magico e soave finale a sorpresa. I Coen dirigono questa spiritosa commedia imbastendo un’ottima recitazione corale che lascia a tutti il giusto spazio espressivo, facendo risaltare un Brolin in formissima che veste i panni di un businessman in carriera capace di fronteggiare le situazioni più ardue dando sfoggio della sua ineguagliabile abilità di mediatore col pensiero fisso (e corretto) che si fa cinema per esprimere le gioie, i dolori e le bellezze della settima arte. Un atto d’amore per la recitazione cinematografica, un meta-racconto di qualità e una discesa esilarante nelle psicologie travagliate di una troupe che non lesina critiche né denunce della società americana appena entrata in un nuovo decennio, quello che concluse l’epoca del cinema statunitense classico e pose una pietra sopra un’età d’oro che i Coen ritraggono con verosimiglianza disarmante e il piglio di chi vuole divertire e al contempo indurre riflessioni non troppo leggere. Un cast stellare di attori uno più bravo dell’altro, a cominciare da Clooney, amabile guascone autoironico, per poi esaminare: la Swinton, eccellente nella duplice parte della giornalista affamata; la Johansson, nuotatrice di spettacoli acquatici rimasta incinta da nubile; Hill, ragioniere di poco conto e ragazzo non troppo brillante, che sposerà la donna di cui sopra in un matrimonio appositamente allontanato e diventerà il padre putativo del bimbo; Ehrenreich, cowboy ganzo che ruota la pistola, con scarsissime doti recitative ma dotato di un cuore aperto ai richiami dell’amicizia e del sentimento; Tatum, il cui ruolo richiama a gran voce Gene Kelly, secondo la detta di alcuni critici, invischiato nelle sottotrame politiche che gironzolano silenziosamente nello Studio e affiliato alla masnada comunista senza che nessuno lo sappia; Fiennes, cineasta impegnato che si lamenta col protagonista di aver ricevuto in dotazione un attore incapace per il suo dramma da camera. Con il ricorso efficacissimo ai finti film proiettati in sala, i due infallibili registi completano una vicenda interessante che sa prendersi in giro e ridere con gaiezza di sé stessa, instillando al contempo un germe di innocente malevolenza sullo star system che imperava allora e che oggi è addirittura degenerato, mostrando un dietro le quinte di disarmante sincerità che coglie nel segno e centra appieno il bersaglio. Il che non impedisce all’ottima sceneggiatura di puntare il dito contro l’utilizzo della cultura che spesso i film usciti dalla maggiore fucina di pellicole al mondo approntano, per pompare appositamente le storie e inventare trame al solo scopo di ottenere il gradimento del pubblico e costruirsi attorno un’aura di un determinato tipo, per quanto possibile austera e intoccabile. L’ironia, il sarcasmo, l’umorismo british e le costruzioni satiriche di Joel ed Ethan non smetteranno mai di sorprendere gli spettatori più coriacei: la loro intelligenza artistica è fuori da ogni sospetto o classificazione.
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