Continua il viaggio di Bilbo Baggins verso la Montagna Solitaria, agognata meta dei tredici nani, smaniosi di riprendersi ciò che fu loro ingiustamente sottratto; continua anche il percorso di Peter Jackson tra i paragrafi della narrativa tolkeniana, ormai giunto al quinto adattamento, che dopo il primo mezzo passo falso, giunge a questo secondo capitolo con le idee più chiare e con un’estetica più risoluta: l’atmosfera a tratti è plumbea, tragica, e si riduce drasticamente anche la comicità – un po’ ridicola – presente in Un viaggio inaspettato. La dichiarazione non potrebbe essere più chiara e ora Jackson ha capito più a fondo da che parte stare, mentre continua il suo processo di costruzione di un vero e proprio prequel de Il signore degli anelli.
La desolazione di Smaug si discosta moltissimo – per intreccio e stile – dal testo letterario e il regista, che aveva distillato la magia di Frodo e Compagnia, si scopre ora creatore e autore di magie. Costruisce attorno a Bilbo un mondo più vasto e complesso, meccanicamente connesso alla Terra di Mezzo di sessant’anni più tardi tramite Neri Sussurri, occhi infuocati, vecchie conoscenze e una nota locanda. L’ingranaggio comincia a muoversi, con più fluidità e sicurezza; la ruggine affligge ancora qualche ruota, ma l’efficacia complessiva è più che soddisfacente. C’è, dal mio punto di vista, un notevole miglioramento nella fluidità e nella coerenza complessive dell’opera, la qual cosa sorprende ancora di più, tenuto conto dell’abitudine di Jackson di girare contemporaneamente le tappe delle proprie saghe cinematografiche: il tanto criticato hfr inoltre giova molto alle sequenze più concitate del film (come la pazzesca fuga/battaglia sul fiume, appena evasi dal regno di Thranduil) donando una definizione sbalorditiva a ogni gesto, a ogni fendente. Gli innesti narrativi, è vero, a volte si lasciano prendere la mano (leggi: Tauriel e Kili?! L’ultimo discendente della stirpe di Nùmenor era meno sfacciato!) ma nel complesso riescono ad amalgamarsi bene nel racconto che si propongono di costruire. Come ne Le due Torri, la compagnia si divide, e il film segue due, poi tre, sentieri differenti: Gandalf indaga sul Buio di Dol Guldur, Bilbo e i nani attraversano Bosco Atro, e sono poi costretti a dividersi durante la partenza da Esgaroth verso la Montagna Solitaria. La frammentazione regala ritmo e una diversificazione più marcata di situazioni e ambientazioni, che non può non giovare all’economia di un film incentrato su viaggio e ricerca.
Come tutti i narratori che si rispettino, Jackson, come fece nel 2012, cala la sua carta migliore nel finale, e i protagonisti ancora una volta sono Bilbo Baggins e la motion capture (ma non solo, non solo…). Ed ecco, ancora turbati dalla stupefacente quantità d’oro presente nei saloni di Erebor, una duna gialla che freme, dolcemente frana, tintinnio di monete: il drago. Mai una massa digitale così imponente ha avuto movenze più fluide (forse alcuni dei Kaiju di Pacific rim?) e convincenti e certo nessuna massa digitale così imponente è mai riuscita a imbastire un dialogo così brillante con un hobbit. Gioia per occhi e orecchie, la sala del cinema non esiste più: siamo io, Bilbo e Smaug. Protagonista assoluto dell’ultima mezz’ora, tra scambi vocali (voi avete Cumberbatch, ma noi abbiamo Luca Ward!) ed infernali eruzioni, il suo battito d’ali ci proietta verso la fine del viaggio con una promessa: Fuoco e Morte. L’attesa sarà lunga, ma «la speranza…divampa!».
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