Talk Radio

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Un film di Oliver Stone. Con Ellen Greene, Alec Baldwin, Eric Bogosian, John C. McGinley, Leslie Hope.
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Drammatico, durata 110 min. - USA 1988. MYMONETRO Talk Radio * * * - - valutazione media: 3,20 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Talk Radio, assurdamente maltrattato dal palmarès di Berlino, dove ha conquistato solo il premio per la migliore interpretazione maschile (Eric Bogosian ex aequo con Gene Hackman), ignorato dalle nomination degli Oscar, punito dal box office americano, è uno dei migliori film della stagione. Forse il migliore che ci viene da quella che convenzionalmente chiamiamo Hollywood, prodiga di molti ottimi attori, buoni sentimenti, ma non sempre di grandi fUni. Talk Radio invece, anche se per gli standard americano passa per un piccolo film (nel senso che è costato solo quattro milioni e mezzo di dollari), che è stato girato in sei settimane, che non sfoggia volti noti o miracoli tecnologici, è un grande film di pessimi sentimenti, sgradevole, destinato a disturbare chi non sia ancora totalmente anestetizzato agli orrori più sottili e meno plateali del nostro tempo.
La storia del film è nota. Oltre alla non allegra realtà americana e non solo americana dì qualche centinaio di Talkshow radiofonici in diretta, di quei confessionali e lettini dello psicoanalista via etere in cui il cittadino medio, sempre più chiuso nel suo isolamento, sempre più folla solitaria, rovescia ansie, frustrazioni, volgarità, provocaZioni, banalità, paure (non esistono più i vicini di casa, dicono nel film, e il vicino è sostituito dallo showman a portata di telefono), alle spalle del film c’è una tragedia.
Quella dell’assassinio, avvenuto nel 1984 a Denver a opera di un gruppetto neonazista, dell’intrattenitore radiofonico Alan Berg. Lo stesso che abbiamo visto in apertura di Betrayed - Tradita di Costa-Gavras. Lo stesso che ha ispirato al giornalista Stephen Singular il libro Talked to Death: The Life and Murder of Alan Berg. Lo stesso che ha ispirato al giovane attore Eric Bogosian un atto unico, Prima messo in scena con esito poco favorevole a Portland, poi con crescente successo a New York, e diventato anche un film che ha sceneggiato con Oliver Stone (l’unico regista disposto a scommettere su un attore off-Hollywood come Bogosian e su una storia così nera, sgradevole e difficile).
Una scommessa anche di stile. Perché Talk Radio, salvo tre uscite nel mondo esterno (e un goffo quanto inutile flashback, girato chissà perché in beige, per raccontare il passato del protagonista), è un film tanto claustrofobico e concentrato quanto è esplosivo e allargato il rapporto che dall’alto del suo studio radio, all’ultimo piano di un grattacielo di Dallas, instaura Barry Champlain, conduttore di Voci nella notte. La storia si sviluppa nello spazio di un week-end, quello che gli osservatori spediti da una rete nazionale hanno a disposizione per decidere se far scoppiare in tutto il paese quella bomba a orologeria che è Barry Champlain.
Talk Radio rinuncia programmaticamente alla suspense di fronte alla notorietà della vicenda che racconta. Ma la suspense è restituita dall’intelligenza drammaturgica, dal ritmo con cui il film è costruito, e dall’inquietudine che trasmette Eric Bogosian, bravissimo nell’incarnare un antieroe sgradevole. Perché Barry Champlain, con la sua bella voce (in italiano ottimamente doppiata da Roberto Chevalier), con la sua bella faccia levantina (Bogosian è armeno, ma nel film Champlain dichiara di essere ebreo), è in realtà il simbolo e l’incarnazione di una grande menzogna. Quella della finta partecipazione radiotelevisiva, quella che consente all’uomo qualunque di pubblicizzare le sue fobie, di sfogare le sue rabbie, di diffondere le sue frustrazioni e i suoi pregiudizi, di dare via libera e concretezza a ogni violenza repressa, sentendosi per un attimo protagonista e portatore di un verbo. Barry Champlain di questa grande menzogna si nutre ed è complice e istigato-re, ma anche perfettamente conscio - come ha scritto un membro della commissione giudaica della costituzione di Atlanta del 29 ottobre 1987 - che portando l’esaltazione in diretta nei soggiorni degli americani permette a ciascuno di uscire dal proprio isolamento politico e culturale, ponendosi all’interno del mercato delle idee... e legittimando delle ideologie oltraggiose.
Investito di un protagonismo che solo la società dello spettacolo può regalare, Champlain provoca, dà la parola, la toglie, si incarognisce, giudica e maltratta i suoi interlocutori che, comunque, continuano a telefonare, lavora sul masochismo, sollecita e sbeffeggia i loro pregiudizi, uno psicodramma continuo sulle onde radio che finisce per trasformarsi in un manifesto del nichilismo e del cinismo:, dove i principi sbandierati dalla sua voce (la tolleranza, la democrazia) sono negati in ogni momento dai suoi comportamenti e dalla mistica del successo e del “job”.
Bogosian, praticamente solo davanti ai suoi microfoni davanti allo spettatore, è un mattatore geniale e nevrotico al punto giusto, sensibile e contraddittorio, che la macchina da presa di Stone avviluppa, studia, abbandona e riprende con un’attenzione da scienziato curioso e una geniale capacità di animare lo spazio chiuso dello studio. Come ogni vittima di quel male americano che si traduce nell’assassinio degli eroi culturali, anche Barry Champlain finirà per diventare (ce lo dicono nel finale le voci che lo ricordano nella notte di Dallas) un santo amato in morte più di quanto non sia stato amato in vita. E dire che essere amato era il suo grande sogno... Di nuovo, Talk Radio è da vedere. Purché non vi piacciano solo le esperienze consolatone o tranquillizzanti.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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