Antico dilemma se la matematica sia scoperta o invenzione; se i teoremi siano costruzioni dell’intelligenza, oppure cose che stanno già lì fuori in attesa che qualcuno, magari dotato di vista più acuta, le veda. Srinivasa Ramanujan era di questo secondo avviso e quando si pretendevano da lui le dimostrazioni formali dei suoi geniali risultati, manifestava lo stesso stupore che ognuno di noi proverebbe se gli chiedessero la dimostrazione del mare o di un tramonto.
L’uomo che vide l’infinito, tratto dall’omonimo libro di R. Kanigel (1991) cavalca il fortunato filone della biografie di scienziati, più o meno romanzate, di cui forse The imitation game (2014) è il migliore esempio recente. Stavolta tocca al leggendario matematico indiano Srinivasa Ramanujan (a quando Kurt Gödel?). Nato in India nel 1887 da una famiglia braminica, Ramanujan riceve una discreta istruzione senza poter comunque accedere all’università; già ragazzo manifesta le sue doti riempiendo quaderni di teoremi, molti dei quali profondi e originalissimi, alcuni magari già scoperti da secoli a sua insaputa, qualcuno pure sbagliato, tutti rigorosamente privi di dimostrazione in quanto comunicatigli direttamente, in sogno o in preghiera, dalla dea Namagiri. E’ solito ripetere che un’equazione non ha significato se non esprime un pensiero di Dio.
Intanto sbarca il lunario come contabile a Madras. Sconosciuto dilettante sepolto nella remota provincia dell’impero, nel 1913 Ramanujian imbusta alcuni dei suoi risultati divini e li spedisce ad alcuni eminenti matematici inglesi. Due cestinano alla prima occhiata, il terzo è Godfrey Hardy: eccentrico, anticonformista, ateo atteggiato a nemico personale di Dio, solito uscire nelle belle giornate con l’ombrello per prevenire i dispetti meteorologici dell’inesistente Padre Eterno. Da quelle poche pagine di carta grezza Hardy intuisce il genio dell’indiano, facendo in modo che arrivi a Cambridge come borsista. Insieme realizzeranno una delle più produttive collaborazioni della storia della matematica.
Il film di Matt Brown, col riflessivo ed elegante Jeremy Irons tanto perfetto nei panni di Hardy da quasi eclissare il protagonista, rappresenta bene l’amicizia tipicamente inglese tra i due scienziati, fatta più di silenzi che di confidenze, che solo sul finire trova un po’ di calore. Maggior rilievo avrebbero forse meritato le figure altrettanto geniali di Bertrand Russell e John Littlewood, ma nel complesso il soggetto rende con equilibrio sia lo sfondo storico, che l’ambiente accademico inglese al tempo della Grande Guerra: elitario, razzista e chiuso, ma meno di quanto ci si potrebbe aspettare. Dubbia e in parte prescindibile, invece, la ricostruzione della vita familiare di Ramanujan, con il conflitto tra moglie innamorata e madre possessiva contraria al trasferimento del figlio in Inghilterra. In realtà fu proprio la madre a superare gli scrupoli religiosi di Ramanujan riguardo al viaggio: aveva sognato il figlio in una grande sala con un gruppo di uomini europei, e poi le era apparsa Namagiri in persona ordinando che lui partisse.
Evidentemente gli dei, nonostante lui, simpatizzavano per Hardy offrendogli un improbabile collega – per sua stessa ammissione a lui superiore – insieme al quale avrebbe pubblicato alcuni dei suoi migliori lavori. Come proteggessero Ramanujan non sappiamo: il clima inglese insieme ai suoi tabù alimentari ne minarono la salute destinandolo a morte prematura. I suoi risultati continuano dopo un secolo a trovare applicazioni e sviluppi in molti campi, con buona pace di Hardy che amava considerare la matematica pura un’arte: visione di forme, come la pittura o la poesia, più vicina alla realtà profonda – e quindi alla verità e alla bellezza – di qualsiasi scienza applicata; orgoglioso di non aver fatto nulla di utile, ma di avere soltanto aumentato il sapere e di avere aiutato altri a farlo.
Scrupoloso induista, Ramanujan fu sempre posseduto dal sacro fuoco del sapere matematico che gli proveniva da Dio, in una personalissima mistica in cui i numeri sono la parola che unisce Cielo e Terra. Eppure l’inglese e l’indiano, l’ateo e il devoto, forse erano meno distanti di quanto sembrasse: l’uno aveva trovato nella matematica il suo dio, l’altro la sua matematica in Dio, e proprio nei numeri si erano incontrati. Un ultimo pensiero mentre scorrono i titoli di coda: nel caso abbia avuto ragione Ramanujan, stanno ancora insieme a discutere con Dio – ovvero a imbastire teoremi – da qualche parte.
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