La zona d'interesse

Un film di Jonathan Glazer. Con Christian Friedel, Sandra Hüller, Johann Karthaus, Luis Noah Witte.
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Titolo originale The Zone of Interest. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 105 min. - Gran Bretagna, Polonia, USA 2023. - I Wonder Pictures uscita giovedì 22 febbraio 2024. MYMONETRO La zona d'interesse * * * * - valutazione media: 4,13 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

La banalità del male e riflessioni sul cinema Valutazione 0 stelle su cinque

di mauro.t


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lunedì 25 marzo 2024

Liberamente tratto dal romanzo di Martin Amis. Rudolph Höss è comandante del campo di concentramento di Auschwitz e vive con la moglie e i cinque figli in una bella villa contigua al campo, con un giardino curato, serre, una piscinetta e servitù polacca. Lì vicino c’è un fiume e un bosco dove fare scampagnate. Quando Höss viene rimosso da Auschwitz e promosso a comandante dell’ufficio di amministrazione centrale, la moglie si impunta e non vuole lasciare quel paradiso, dove lei ha investito emotivamente, ritenendolo il luogo più adatto per crescere i propri figli. Gli averi sottratti agli internati confluiscono regolarmente nella casa di Höss: i denti d’oro, usati come gioco da uno dei figli, gli abiti, le pellicce. Gli orrori del campo si avvertono solo attraverso le urla, i latrati dei cani, gli spari, il fumo del camino. Eppure alcuni elementi sembrano far emergere un profondo, non esplicitato, malessere: la madre di Hedwig se ne va dopo un soggiorno brevissimo; una figlia ha incubi in cui vaga attorno al campo a “seminare” cibo. Alla fine, in un salto temporale che ci riporta ai giorni nostri, viene rappresentato Auschwitz I in un momento in cui il personale pulisce i locali dopo una giornata di visite, ma subito dopo riappare Rudolph Höss che scende le scale colpito da qualche conato di vomito, a indicare che non ne siamo usciti: quel male oggi è ancora presente.    
Glazer usa sistematicamente camere fisse e usa campi medi, lunghi e figure intere. Evita i primi piani, privilegiando il contesto e l’ambientazione, invitando all’osservazione oggettiva piuttosto che all’empatia. Inquietanti le musiche a schermo buio all’inizio e alla fine del film, che richiamano le atrocità. La cosa più pregevole: la tecnica termografica usata per rappresentare i sogni della figlia.     
Il regista mette in scena la banalità del male di Hannah Arendt, e apprezziamo se riteniamo che il cinema sia principalmente fatto di immagini e non necessariamente sia narrazione. Ma se pensiamo ai contenuti, al racconto, non troviamo niente di più del concetto già espresso dalla Arendt. E’ ovvio che siamo in presenza di persone per cui gli internati sono solamente Stücke, (pezzi, come è correttamente riportato in una conversazione del film), e niente di più, pezzi da eliminare per creare (secondo loro) un mondo migliore. La famiglia Höss ha già fatto la sua scelta ideologica ed esistenziale da tempo. Probabilmente la moglie di Höss non ha idee proprie, come Adolf Eichmann, ma nella sostanza ha aderito a quelle del Nazionalsocialismo. Quindi non può sorprendere che non vi sia alcuna considerazione delle vite delle vittime. Se proviamo indignazione, siamo in ritardo. Se ci colpisce l’indifferenza della famiglia Höss e dei loro amici, siamo degli ingenui.
Ma la scelta principale è quella di non raccontare cosa succede dentro al campo. Glazer non mostra l’abominio, lo evoca, chiedendo allo spettatore di completarne la narrazione. Invita forse a coltivare la memoria, ma si affida a quello che lo spettatore sa già, a quello che pensa. Più che un film sui campi di sterminio, è un’opera che se ne avvantaggia. Più che una denuncia, risulta uno sfruttamento. Più che dar risalto, succhia.
Cinema che riflette sul modo di rappresentare, allontanandosi dalla realtà che vuole mettere a fuoco, e più medita sul cinema, più si allontana dal soggetto. Cinema come esperienza estetica e non cognitiva. Qualcuno l’ha definito il film definitivo sull’Olocausto. Forse sarà così, anche perché probabilmente il cinema sul tema ha già veramente detto tutto, e oltre c’è solo un’ulteriore riflessione, un ulteriore avvitamento acrobatico e narcisistico sull’arte cinematografica.      

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