Paul Vecchiali, o della 'filosofia dell'immaginazione' un autoritratto vissuto come un'entrata in uno spazio chiuso, nella claustrofobia in un'esasperata frontiera del dentro e, al tempo stesso, nella intimità, aperta alle improvvise amicizie, agli incontri, ai contatti. Una filosofia dell'esperienza che costringe a rivisitare il privato, a spingersi sino all'estremo in una dimensione dell'io, dove una serie di piccole spie lievitano un immaginario reificato, fatto di inquietudini, di sensazioni, di trasalimenti, dove l'approccio all'oblio e la distanza dell'attesa si intrecciano dolorosamente.
Con Les petits drames (1961) che diverrà il modello di una produzione indipendente di film destinati ad un circuito non commerciale a basso costo e Les ruses du diable (1965) seguito da Maladie (1978) e L'etrangleur (1970) i fatti si confrontano con l'incanto di una ricerca sottile, in una scrittura in cui il malessere si intreccia con l'attenzione al dettaglio, la malattia, il silenzio, la paura, in una rappresentazione della vita come melodramma.
Il melodramma costituisce per Vecchiali quello che per Genet era la drammaturgia del circo, un universo chiuso, dove i fatti sono al limite della verosimiglianza e si costituiscono come incontro con il destino, dove amore, tenerezza, anarchia ritornano con insistenza; e anche come forma chiusa in se stessa, come il circolo dell'eterno ritorno, corso e ricorsodi una ragione geometrica. La Machine (1977) e Corps à coeur (1979), accentuano i ritmi di questa scrittura che tende a coincidere con la ragione degli altri, con la comprensione verso il diverso e il suo diritto di essere e di amare, e con l'amour fou che improvvisamente mette in discussione il realismo minuzioso in un delirio filmico. L'universo claustrofobico (Change pas de main, 1975) si fa gioco ineluttabile della finzione, scopre il piano onirico dei gesti ripetuti, dell'erotismo, della iterazione continua, quasi in un rituale sadiano, portato alla estrema esasperazione, film nel film di un inventario doloroso come un miserere, che tende a contraddire la finzione esaltandola in un paradosso continuo. Femmes, Femmes (1974) è la conferma; tutto giocato sul filo della finzione trasferisce nella rappresentazione, l'antico conflitto tra immaginazione e realtà, trovando, nella diegesi filmica, il luogo di una costituzione semantica in cui vengono riassorbiti gli stilemi propri del genere. Le due donne protagoniste, i loro ricordi, i loro dolori, i loro entusiasmi, sono la favola amara di un sogno che ritrova il suo 'trascendente' nella metareltà del linguaggio. Sono esse stesse la rappresentazione in una ascesi drammatica dove la parola enuncia la situazione e il cantato sottolinea questo stato di un reale che si finge reale. Tour vivre dans la vérite, jouez la comédie" suona il distico di Camus premesso all'inizio del film, che 'gioca' il trucco della ribalta ribaltando i generi (la commedia, il noir). Gli attori sono la marca semantica, una costante tra film e film per costruire un universo di immagini tranquillizzante, ma la loro 'normalità' è deviante. Sonia Saviange, Hèlène Surgère, Michel Delahaye si muovono nei sentieri delle certezze per distruggere le certezze e irretire lo spettatore in una serie di contraddizioni in cui involversi specularmente. Sono visi e corpi dall'aspetto acquietante per meglio aprirsi, a sorpresa, nel vuoto dell'abisso.
L'etrangleur (1970), e lo specchio oscuro, sdoppiamento del giorno e della notte, in una scrittura che ha l'andamento di una scrittura automatica, in cui si perde- lo stesso realismo, mentre Cest la vie (1980) con lo straniamento proposto e una ballata sulla follia del vivere in una scelta di non-realismo. Trous de mémoire (1984) si appropria della memoria restituendole il ruolo della finzione in un incredibile gioco a due, incontro-scontro tra passato e "presente. Chiusi in uno spazio lineare i due protagonisti ritrovano i passi perduti, le parole non dette, i solitari passaggi dentro uno scavo delle emozioni costruito sulla parola, in un disegno freddo ed estraniato che giunge al limite della rottura. Claustrofobico come Le cafe des Jules (1988) che 'osserva', dall'angolo di una strada, l'esterno di un bar e trae tutto il senso pànico di un'attesa che trasferisce in una inquietudine indefinita sullo schermo. Nell'atmosfera, cara a Vecchiali, dei bistrots, negli interni vissuti, dove la realtà sembra costruire la sua dimensione fantastica, emerge una perversione che è dentro la natura stessa, nel perimetro chiuso della sua poetica. Che vive ancora nel suo romanzo popolare tra passione e memoria, continua a scavare nella letteratura d'appendice (Du sueur et du sangl - Wonder boy (1993), mantenendo le tracce di una ricercata classicità. L'apologo di Maurice, un giovane pugile che accetta la sconfitta per il sogno di acquistare un violino, in un territorio di piccole strade, di caffè, di barconi, si innesta un inventario di memorie filmiche. Vecchiali, assumendo il ruolo del narratore, diviene testimone di sé, descrive atmosfere che sanno di cinema, riscrive, come se tutto fosse già stato scritto nelle forme e nelle figure che gli sono proprie e dentro cui si ritrovano gli echi lontani di un Gremillon, di un Demy, di un Vecchiali stesso. L'Impure, realizzato per la televisione in due puntate (1995), traccia il ritratto di una solitudine partendo da una Parigi anni Trenta, appena intravista,impudica e morbida, sulle ali di un valzer insinuante, dai colori acquerello, nel gusto del romanzo popolare.
Tutto ritorna, come in un caleidoscopio in A Vot' bon coeur (2004): ritornano le situazioni, i 'suoi' personaggi e tra affanni e dolori, si svolge un'autobiografia dell'autore alle prese con la burocrazia, con gli impedimenti e le critiche ad esistere. II film è una metafora sul cinema, sulle incertezze e le pause che la lavorazione comporta, sulle pieghe di un percorso difficile ma alla fine vincente per la forza della volontà che si trasforma in pensiero. Questo modo di impostare il discorso rende il cinema di Vecchiali come l'ouverture di un processo filosofico, un acquisizione della ripetizione come tratto formale e anche sostanziale di un pensiero che ritorna su se stesso, si raggira come parola che resta fuori da quello che dice, che si scherma e si protegge in una confessione di se, in un tradire e tradirsi in una ambiguità che attrae. Encore resta il suo film più doloroso, il più emozionante, visivamente, in quel ballo dove si ricompongono i silenzi, le trepidazioni, in un discorso sul non-discorso (in un dire non detto), nella finzione di uno spazio invisibile in cui le distinzioni tra romanzo, critica, filosofia si superano in una unica riflessione linguistica.
Da Ritratti Autoritratti, Bulzoni Editore, Roma, 2006