Marlon Brando è un attore statunitense, regista, è nato il 2 aprile 1924 ad Omaha, Nebraska (USA) ed è morto il 2 luglio 2004 all'età di 80 anni a Los Angeles, California (USA).
È tornato Marlon. Il fatto è importante. è tornato davvero, non in un «cameo» da un milione di dollari al minuto. È un «quasi» protagonista di The Score, accanto a Robert De Niro e all'emergente Edward Norton. Marlon Brando nel cinema ha rappresentato moltissimo, anzi, tutto, anzi, ancora di più. Brando è (non voglio ricorrere all'abusata, e sgradevole definizione «animale da...») la formula chimica certamente più funzionale al cinema: sta al cinema come l'ossigeno sta all'acqua. Anche il termine «leggenda» gli va stretto: Brando è un morto sempre resuscitato, è la roccia sulla roccia in quello spot visto tante volte. Nei decenni ha «costretto» i giovani a portare i capelli come lui, a indossare il «chiodo», a guidare la moto come lui. Nei film, e sul set, faceva impazzire tutti. Era geniale, viziato e mortalmente scomodo. In Giulio Cesare nel ruolo di Antonio, del tutto a digiuno di Shakespeare, surclassò John Gielgud, massimo specialista inglese. A Tahiti, sul set del Bounty conobbe la bella Tarita e lasciò la produzione per un anno. Danni per miliardi. Ebbene: attesero che tornasse. Gillo Pontecorvo lo diresse in Queimada e ne uscì distrutto. Bertolucci, in Ultimo tango, per salvarsi dovette lasciargli fare tutto quello che voleva e... ci guadagnò. In quel film Marlon dava un'immagine così efficace di una crisi, che per emulazione ci furono persino dei tentativi di suicidio dei quarantenni. Non solo: a Parigi nacque un club per sole donne dove le signore si lasciavano andare a tutte le fantasie davanti a un'immagine del divo. Dopo la solita, fisiologica, eclissi eccolo rivincere l'Oscar nel ruolo del Padrino Corleone. Naturalmente ci mise del suo: a ritirarlo mandò un'indiana. Altra eclissi. «Stavolta - disse l'ambiente e disse il mondo - è proprio finito». Eccolo invece resuscitare di nuovo nel ruolo di Curz, l'orrendo colonnello di Apocalypse Now. Siamo agli anni Ottanta. Da qui cominciano i camei e si ripropone la decadenza. E poi la vita privata è un disastro: disordine, violenze, persino un omicidio in famiglia. Ennesima «morte». Rieccolo, inaspettatamente in un film da (quasi) protagonista Don Juan De Marco. è la spalla di Johnny Depp, e sembra ormai un effetto speciale di 160 chili. Potrà mai rimettersi insieme? Adesso ha 77 anni e... rieccol
Il Mediterraneo stava per accogliere ancora una volta Marlon Brando a Tunisi, nel film che Ridha Behi, il regista tunisino di Le Soleil des hyènes, che ama lavorare con attori internazionali, che ha diretto Ben Gazzarra più di una volta, Patrick Bruel e Julie Christie (Champagne Amer), e stava per iniziare Brando and Brando, coproduzione franco anglo tunisina. «Fate presto» lo aveva esortato Brando, quasi sentisse di non avere più molto tempo. A Tunisi ancora la notizia non è arrivata, quando cerchiamo di raggiungerlo, lo stupore coglie il fratello di Behi, scenografo, una notizia da togliere il fiato, poiché tutto è pronto per le riprese «Era contento di questo film, voleva farlo e poi ritirarsi sulla sua isola». Due settimane di riprese a Los Angeles e poi in Tunisia. Raggiungiamo al telefono Ridha Behi che si trova a Londra per risolvere alcuni dettagli, con in tasca già il biglietto dell'aereo. Parla con il dolore nella voce, ma ci dice ugualmente dei suoi incontri con l'attore e di quello che sarebbe stato il suo ultimo film: «Racconta la storia di un giovane tunisino e della sua voglia di andare in America e di come il suo sogno americano si infrange, arrivando a toccare le conseguenze della politica di Bush. Il film è stato scritto insieme a Brando, lui lo considerava un proseguimento del suo impegno politico, è un film che rende omaggio a tutte le lotte che ha sostenuto: gli arabi e i musulmani sono i nuovi indiani del mondo. Una troupe americana arriva in Tunisia e trova un ragazzo che sembra proprio Brando, gli dicono. Lo utilizzano, lo illudono e poi partono lasciando il villaggio in uno stato disastroso, ma non finisce qui, perché il ragazzo si trova seguito dall'Fbi. Infine lui comprende che l'America è diversa da come l'aveva sognata». Sì, il film sarà fatto lo stesso, «Brando appartiene a tutti noi», ci dice. Prima di parlare con Ridha Behi, e sentire attraverso il tono basso della sua voce addolorata tutto il peso di una drammatica vicenda vissuta, pensavamo con un certo distacco critico storico a quanto Brando ha significato per tutta la generazione del dopoguerra, quella del sogno americano, di come negli anni cinquanta fosse servito alla moderna definizione del concetto stesso di «gioventù». La gioventù bruciata, si diceva allora, con i giubbotti di pelle e le moto potenti, con le lattine di birra e l'aria minacciosa. La sua voce, velocemente cambiata dal mondo del doppiaggio italiano (Giuseppe Rinaldi) con toni profondi da maschio latino, nascondeva le tonalità da nevrosi da ragazzo di Omaha, Nebraska.
Zapata, Marc'Antonio, Napoleone, Christian Fletcher e perfino don Corleone nascosti dentro Stanley Kowalski, il selvaggio, il bullo. Mentre i vitelloni italiani vivevano a casa della mamma e i seduttori romaneschi indossano i jeans di fresca importazione o i pigiami a rigoni e Nando Meniconi esibiva canottiere del Kansas City, l'immagine indelebile di Johnny sovrastava la serie dei poveri ma belli che si facevano fotografare in cinque su una lambretta. Niente da fare contro il modello autentico, libero e selvaggio, anticonformista amante del jazz, suonatore di tamburi africani. O almeno così lo descrivevano gli album illustrati delle riviste che ne riportavano frammenti a puntate di vita quotidiana come cassa di risonanza dei film. «Non amo neanche particolarmente le motociclette» gli facevano dire, in modo da non sconvolgere troppo i benpensanti preoccupati per la nascita di bande di bikers (in Italia non c'era pericolo, lo «scuter» serviva a tutta la famiglia, il figlio piccolo davanti, l'altro nel sellino dietro con la mamma), c'erano ancora problemi di biciclette. E mentre la critica di sinistra (Cinema Nuovo) arditamente paragonava i «selvaggi» ai fascisti, era in atto una radicale trasformazione economica in tutto il mondo capitalistico europeo: si stava creando il nuovo soggetto privilegiato di acquirente, il teen ager, di cui l'immagine di Brando era un tassello importante. O almeno così credeva l'industria cinematografica, poiché personaggi come lui o come James Dean costruiti allo stesso scopo, grazie a una intima energia vitale, riuscirono a oltrepassare i confini del mercato per accompagnare le ribellioni e gli intimi sconvolgimenti di tante generazioni successive.
La fine ideale di un'epoca l'ha vissuta qualunque ragazzo del dopoguerra accanto a quel cappotto di cammello dalle spalle curve che in Ultimo tango si muoveva per le strade di Parigi come una delle tante bandiere che avevano sventolato nei cortei. Ancora e sempre ribelle, ragazzo attempato che parla al corpo senza vita della madre. È vero, Brando appartiene a tutti noi.
Da Il Manifesto, 3 luglio 2004
On the night “A Streetcar Named Desire” opened on Broadway, Tennessee Williams sent his young leading man a rapturous telegram: “From the greasy Polack you will someday arrive at the gloomy Dane for you have something that makes the theater a world of great possibilities.” Looking back now, you might describe that as, word for word, the most poignant couple of lines Williams ever wrote. For one thing, “greasy Polack” reflects a pinched view of what Marlon Brando achieved. Stanley Kowalski is a brute, a vulgarian and a rapist, but Brando also gave him a canny intelligence and enough charm that the play’s audiences joined him in laughing at Williams’s heroine, Blanche DuBois, every night. Brando’s looks also helped: thanks to the poetic face he carried atop his muscled body, his loutish Stanley could have passed for a slumming demigod.
In the end, of course, Brando never played Hamlet, nor did he exhaust the “great possibilities” that Williams and so many others detected. Though he liberated generations of actors when he brought a fresh vulnerability to his early film roles — a majestic four-year run culminating in his 1954 portrayal of Terry Malloy, the anguished ex-boxer in “On the Waterfront” — Brando had barely reached his 30s before he entered his Elvis-in-the-jumpsuit phase. He picked bad projects and gave indifferent performances, however speckled they might be with astonishing flashes. His weight ballooned, and he refused to learn his lines. Acting itself seemed ridiculous to him: “a bum’s life,” useful primarily as a way to pay his shrink’s bills. After more than a decade of this dud work, Brando made an astounding comeback, putting out “The Godfather” and “Last Tango in Paris” in 1972. But the eccentric decay soon resumed. Nobody needed to see his lip-lock with Larry King, or his various family tragedies, or “The Island of Dr. Moreau.”
Why do the great ones so rarely have the capacity to handle their genius? Brando is not the first talent to invite the question — his contemporary Orson Welles preceded him on the path of brilliant promise, wobbly mature work and self-sabotaging obesity — but Stefan Kanfer helps establish him as the all-time Exhibit A. His new biography, “Somebody: The Reckless Life and Remarkable Career of Marlon Brando,” is not as exhaustive as Peter Manso’s 1,100-page endeavor, or as concisely illuminating as Patricia Bosworth’s more recent short book, or as engaging as Brando’s own memoir. But it is the first serious biography to appear since Brando’s death in 2004, and therefore the first account to corral in one place the whole story of what Kanfer aptly calls “a life of ludicrous excess, outlandish triumphs and appalling sorrows.”
The combination didn’t take long to emerge. Brando arrived in New York in 1943 at the age of 19, a military-school dropout from a busted Midwestern family. (His mother, a frustrated actress, drank; his father derided and brutalized him, reacting to his 4-F status in the war by sneering, “Is there anything else you could fail at?”) But Brando found his way to the classes of the legendary Stella Adler, who soon declared that “this puppy thing will be America’s finest actor.”
His time at the New School is important and poorly understood. Though Brando’s talent is frequently treated as a vindication of the Method, the memory-mining technique that Lee Strasberg sloppily adopted from the great Russian director Konstantin Stanislavsky, Kanfer points out that Brando despised Strasberg. He learned much more from Adler, though she knew better than to take credit for his success. Stanislavsky’s system is meant to help actors find the inspiration that geniuses feel with no system at all. Even as a novice, Brando made other actors look as if they were painting with rollers.
Radical as Brando’s charismatic immediacy seemed to people on Broadway — and, beginning in 1950, to movie audiences — he wasn’t the only one making such a breakthrough. Around the same time, Jackson Pollock’s art and Charlie Parker’s music reflected a similar mix of casualness and intensity, technique and spontaneity. His personal life also grew chaotic enough to rival those of his fellow modernist giants, as he roamed nocturnal New York (particularly its minority neighborhoods), tended a pet raccoon named Russell and bedded everything that moved. But unlike Parker and Pollock — or his only acting rivals in those years, James Dean (who revered him) and Montgomery Clift — Brando didn’t destroy himself, at least not all at once. He let himself be humiliated by Truman Capote in a 1957 interview in The New Yorker; unwisely entrusted his money to his father, who lost it; and collected enough lovers and children (at least 11, by the end) to keep him in almost constant need of cash.
It is customary at this point to tut-tut about the ways that American culture forces its leading lights to work on execrable junk to remain solvent. But Kanfer, who has written biographies of Groucho Marx and Lucille Ball, notes that Brando made dumb choices, turning down premieres of “The Iceman Cometh” and “Present Laughter” on Broadway and “Lawrence of Arabia” and “Butch Cassidy and the Sundance Kid” on screen. The most tantalizing offer of all came from John Gielgud. After playing Cassius to Brando’s Marc Antony in the film of “Julius Caesar,” he invited the young American to join him and Paul Scofield for a full season in London. Here, in Brando’s prime, and with the best collaborators imaginable, was a path that led to the long-awaited Hamlet. Instead, he made “The Wild One” — an iconic film, but still laughably unworthy of his talent.
However much he abused them, Brando’s gifts survived the rot of his later films. Watch, in “The Godfather,” how he sniffs a rose, or strokes a cat, or slaps a co-star — all on-the-spot inventions of a fertile creative mind. To the end, he was “the same man with the same extraordinary aptitude for inhabiting a character, just older and heavier,” Kanfer writes. Having outgrown the handsome distress of youth, he “still allowed viewers to see the whole Brando, a man at risk, a vastly overweight, compulsive figure for whom meals had become what strong drink had been to his parents.” Here, as elsewhere, Kanfer is respectful toward his subject’s quest — “perhaps an Ahabian one” — to act, as Brando put it, “the way it’s never been done before.” But he doesn’t coddle Brando for taking up the causes of the Black Panthers, Native Americans and the rest of life’s oppressed: “The off-screen efforts he made on their behalf had no lasting effect.”
These attempts at philanthropy invite a pretty obvious contrast to a fine actor who did manage to be a fine citizen: Paul Newman. Alas, it’s so obvious a contrast that, as Kanfer acknowledges, Richard Schickel already made it in his own Brando biography nearly 20 years ago. Here lies the real limitation of Kanfer’s book. Though it provides a thorough account of Brando’s life, it features little fresh insight, no matter how up-to-date its diagnoses — “oppositional defiant disorder,” “narcissistic personality disorder” and the old standby “oral fixation” — may be. In fact, it’s precisely when Kanfer offers what should be the book’s punch line that its limitations lie most plain: “If there was a ‘Rosebud’ in Brando’s life,” he writes in his concluding chapter, “it was the mental illness that had dogged him for decades, probably from early childhood.” No kidding.
Kanfer’s survey of Brando’s posthumous legacy also feels a little wanting, reaching as it does to obscure Web sites and pop lyrics to round out the picture. But he had the good sense to include in his book the definitive remembrance of Brando, one delivered with a perfect blend of awe and chagrin. “There was never anyone remotely like Marlon Brando,” his New School classmate Elaine Stritch once said. “Thank God.”
But his legacy is, in a real sense, on every stage and screen in the world. You can see it when gifted actors follow their intuition to create something fresh (e.g., early Pacino) and when self-absorbed actors preen and wallow in excess (e.g., late Pacino). Even today, actors go on discovering what musicians found when they followed Charlie Parker into heroin addiction, or what you learn when you test the proposition that your kid can paint like Pollock by letting him actually try: geniuses like Brando strike self and material together in a way that sets off some incomparable spark, radiating so much charisma that they get away with choices that would seem asinine from anyone else.
Thinking about Brando’s legacy now leads to one name above all others: Heath Ledger. As an introverted gay ranch hand in “Brokeback Mountain” and the quivering, maniacal Joker in “The Dark Knight,” he touched the far extremes of a film actor’s range, and made both look as natural as Brando in his prime. There’s little point in wondering if he might have been the new Brando had he lived. As Elaine Stritch knew, there could be no such thing. Better simply to marvel that an actor so young found a way, as Brando did, to disappear into his art while remaining originally and brilliantly himself.
Jeremy McCarter writes for Newsweek and is the editor of “Bite the Hand That Feeds You: Essays and Provocations,” by Henry Fairlie, to be published in June.
SOMEBODY
The Reckless Life and Remarkable Career of Marlon Brando
By Stefan Kanfer
Illustrated. 350 pp. Alfred A. Knopf. $26.95
Da The New York Times, 2 Gennaio 2009
He was famous for wearing a T-shirt and jeans decades before it became the default uniform of every Hollywood and Silicon Valley worker bee.
He mumbled a lot and was often silent when you expected him to talk, but there was a drama to those pauses and a raw, animal physicality to his every move. When he was young, his beauty was a magnet to women and men alike, but it was his willingness to expose his own tortured conflicts in his work — his vulnerability and anger, his naïveté and brooding melancholy — that made millions of strangers enshrine him as a symbol of a new, rebellious generation, sick of the correct poses and posturings of the past and committed to an unvarnished authenticity and emotional truth.
He was hailed as the “Byron from Brooklyn” (though he was from Nebraska, not New York), a “genius hunk,” “the Valentino of the bop generation” and the essence of “the primitive modern male.” John Huston said he was “like a furnace door opening” — so powerful was the heat he gave off. Eva Marie Saint said he had the ability “to see through you” and make you feel “like glass.” Jack Nicholson said he had a gift that “was enormous and flawless, like Picasso”: he “was the beginning and end of his own revolution.” Of course, Marlon Brando was not the end of the revolution he brought to acting. Mr. Nicholson, along with James Dean, Paul Newman, Robert De Niro, Al Pacino, Sean Penn, Johnny Depp and Leonardo DiCaprio are all his heirs, and to watch the movies made before and after such iconic Brando films as “A Streetcar Named Desire” and “On the Waterfront” is to see a paradigm shift from the heightened, stylized theatricality of old-time Hollywood to the immediate, intimate and gut-churning world of the Method.
After those totemic early movies, Brando would lose his way, making a series of poor career choices and increasingly giving in to his own demons of denial, self-indulgence and laziness. He reminded audiences of his galvanic power as an actor in “The Godfather” and “Last Tango in Paris,” but he also made many bad movies, and he would fall prey to catty tabloid reporters and gossip mongers, who wanted to dwell on his weight, his emotional outbursts, his multiple marriages and troubled children instead of his achievements on the screen.
Stefan Kanfer's new biography of Brando, “Somebody,” is an antidote of sorts to the unsavory and voyeuristic 1994 biography written by Peter Manso, who focused on the actor's personal difficulties — his eccentricities, his many affairs and his often capricious behavior — in voluminous and unseemly detail. Mr. Kanfer, who wrote an estimable biography of Groucho Marx in 2000, focuses here on Brando's work, and while the reader may wish that he'd devoted more space to pivotal films like “Streetcar,” “Waterfront,” “The Wild One” and “The Godfather” and less space to such forgettable ones as “Sayonara” and “The Ugly American,” he does a solid job of describing Brando's preparation for various roles and evoking the often tortuous route such projects took on their way to the screen.
To prepare for the role of a paralyzed war veteran in “The Men,” Mr. Kanfer tells us, Brando checked into the Birmingham Veterans Hospital near Los Angeles, “learned how to live in a wheelchair, wear heavy leg braces, rely only on his arms for movement,” and he picked up from the patients there “a tough, ironic humor drained of lament and self pity.”
To prepare for the title role in “Viva Zapata!” he traveled down to Sonora, Mexico, in the company of his pet raccoon, Russell, to observe peasant life for himself, talking with people who still remembered meeting that revolutionary.
And to prepare for the role of Vito Corleone in “The Godfather,” he “got himself invited to the home of a well-placed Mafioso in New Jersey,” where at a dinner for some 40 people, he took mental notes on the “exaggerated politesse” they showed to a stranger, the “manner in which powerful dons spoke in quiet voices; the way the men went out of their way to be gracious to their women, but also how they kept them in secondary roles.”
Mr. Kanfer describes the tensions on “Guys and Dolls” that developed between Brando and Frank Sinatra, who played Nathan Detroit in that musical instead of the romantic lead, Sky Masterson, which he reportedly wanted and which went to Brando instead. Sinatra also seems to have resented the younger actor for nabbing the role of Terry Malloy in “Waterfront” away from him.
In another chapter Mr. Kanfer describes the antipathy between Brando and Sophia Loren on the set of “A Countess From Hong Kong,” which got so bad that the movie's director, Charlie Chaplin, had to keep reminding them that it was a love story when they “each clasped the other as if embracing a werewolf.”
Unlike Richard Schickel and Patricia Bosworth, who each wrote slim, illuminating books about Brando, Mr. Kanfer doesn't serve up any particularly new or original takes on the actor. His biography remains indebted to those earlier works, and even more heavily reliant on Brando's quirky but vivid 1994 memoir, “Songs My Mother Taught Me.”
As Brando did in that volume, Mr. Kanfer emphasizes the debilitating fallout that the actor's childhood had on his emotional constitution and his difficulty in transcending that early damage. He suggests that the sense of abandonment the actor felt as a boy — his mother retreated into drink, his beloved nanny left him to get married — resulted in a fear of rejection, which frequently led him to pursue simultaneous affairs with multiple women.
As for his father's continual put-downs, they left Brando with a defiant attitude toward authority figures (like directors) and a self-loathing that inhibited his ability to enjoy his early success and fostered a deep ambivalence about the vocation he would help transform.
In “Songs” Brando recalled how his emotional insecurity as a child gave him a reservoir of intense emotions to draw upon as an actor. “It also gave me a capacity to mimic,” he wrote, “because when you are a child who is unwanted or unwelcome, and the essence of what you are seems to be unacceptable, you look for an identity that will be acceptable. Usually this identity is found in faces you are talking to. You make a habit of studying people, finding out the way they talk, the answers that they give and their points of view; then, in a form of self-defense, you reflect what's on their faces and how they act because most people like to see reflections of themselves.”
If “you want something from an audience,” he said on another occasion, “you give blood to their fantasies. It's the ultimate hustle.”
SOMEBODY
The Reckless Life and Remarkable Career of Marlon Brando
By Stefan Kanfer
Illustrated. 350 pages. Alfred A. Knopf. $26.95.
Da The New York Times, 9 dicembre 2008
Ossessionato dalla sua privacy, il grande attore ha girato il suo ultimo film The score nel 2001. Sin dall’anno scorso aveva confidato agli amici di vedere ormai la morte come una liberazione, in una recente intervista a un settimanale americano aveva detto: «Ho cercato di essere un buon padre».
Non sempre il tempo è galantuomo. Morire vecchio e brutto è più triste quando, come Marlon Brando, si è vissuti da eroe: giovane e bello. Nella memoria collettiva, almeno.
Fra la comparsa sullo schermo, oltre mezzo secolo fa, e la scomparsa nella realtà, ieri all’età di ottant’anni, ha prevalso l’immagine legata alla prima: perfino paraplegico, in Uomini di Fred Zinnemann, Brando suscitava desideri impuri. Non sono stati i vari, finali e marginali, ruoli di obeso, gorgogliante e incapace di camminare, a cancellare il ricordo dei profilo romano, del sorriso crudele, dei pettorali turgidi, degli sguardi obliqui. Fra ascesa e declino dell’impero brandiano, il culmine: grande attore Brando, certo, ma non erano da meno Alec Guinness o Karl Maiden, però la loro inestetica bravura non ha condizionato l’epoca. Difficile, quindi scindere la gloria dall’aspetto di Brando, con le conseguenze del caso.
L’apice dei marlonismo-brandonismo estetico coincide però con la sua mezza età. L’attore che, trentenne, aveva evitato l’abbraccio di Luchino Visconti, dunque ii ruolo di ufficiale austriaco disertore in Senso, quarantenne accettava da John Huston il ruolo di ufficiale americano tradito in Riflessi di un occhio d’oro e in una Georgia ricostruita nel Lazio - era geloso non della moglie nevrile (Elizabeth Taylor), ma del fante nervoso solito a cavalcare nudo.
Era il 1972 e incombeva la cinquantina quando Brando irrompeva nel vortice dionisiaco post-sessantottardo con Ultimo tango a Parigi. Come Proust e Montherlant erano rassegnati a nomi femminili per personaggi che l’anatomia diceva maschili, se non virili, e a trasformare spalline di canottiera in spalline di reggiseno, così Bernardo Bertolucci si era rassegnato a che fosse una donna, peraltro viriloide come Maria Schneider, a consolare il vedovo americano di Brando. li regista non aveva però rinunciato a impone la sodomizzazione che avrebbe rilanciato - si disse - i consumi di burro. Vent’anni prima si diceva che Brando avesse rilanciato le vendite delle canottiere col Tram che si chiama desiderio di Elia Kazan...
Era ancora il 1972 quando uscì Il padrino di Francis Ford Coppola. In origine doveva essere Il padrino di Kazan, ma il maestro degli esordi teatrali e dei primi trionfi cinematografici (di critica, meno di incasso) di Brando non era più tale per l’allievo; ed era ormai lui a decidere chi lo avrebbe diretto. Maestro e allievo non si sarebbero rappacificati mai.
Se non innovava il linguaggio cinematografico, con termini come «consigliori» e locuzioni come «un’offerta che non si può rifiutare», Il padrino innovava il linguaggio comune e quello giornalistico. Questa lettura gangsteristica dei sogno americano rilancerà ulteriormente la carriera di Brando, dandogli dopo quello per Fronte del porto di Kazan il secondo Oscar, peraltro non ritirato. Nel 1964 anche Jean Paul Sartre non aveva ritirato il Nobel: Brando sapeva scegliersi i modelli.
Il divo Brando diventava così, giustamente, il mito Brando e il suo peso cresceva fisicamente ed economicamente. Un’indiretta conferma veniva nel 1974 dal Padrino parte II, sempre di Coppola, sempre con Al Pacino, Robert Duvail e Diane Keaton, ma senza Brando (il suo personaggio, da giovane, era affidato a Robert De Niro). Quel seguito avrebbe però incassato solo un terzo rispetto all’archetipo.
Che cosa resta ancora di una grande carriera? Incassi modesti, ma personaggi memorabili. Agli inizi ce n’è uno anch’esso legato a un abbigliamento, il giubbotto di pelle da motociclista: è quello del Selvaggio di Laszlo Benedek. Ben più dei Kowalski del Tram, icona per intellettuali e gay, è questo «giovane bruciato» a valergli una popolarità subito perversa, subito innovativa. Si noti che nel Selvaggio il rivale di Brando è Lee Marvin, ma in quel momento quasi nessuno s’accorse di lui.
Del resto chi rammenta i comprimari di Viva Zapata! di Kazan, dove pure Brando appare paffuto, baffuto e imbruttito? Bello fra i belli, Brando recita col viso alterato da un pestaggio per buona parte di Fronte del porto, il film dove più evidente è in lui l’impronta dell’Actor’s Studio di New York. Ma non è questa la chiave del fenomeno Brando. Altro virgulto delI’Actor’s Studio, Paul Newman diventerà solo un sotto-Brando. Sarà solo in Richard Burton che Brando troverà un rivale, ed è a Burton che si pensa per il Marco Antonio in Cleopatra di Joseph L. Manldewicz, lo stesso regista per il quale proprio Brando aveva interpretato Marco Antonio in Giulio Cesare.
La versatilità di Brando affiora per contrasto con i precedenti ruoli in Rulli e Pupe, ancora di Mankiewicz; è già stato un Napoleone innamorato in Desirée di Henry Koster e sta per vestire l’uniforme tedesca nei Giovani leoni di Edward Dmytryk. Ormai ricchissimo, avrebbe tentato la regia con I due volti della vendetta, cominciato dal non ancora famosissimo Stanley Kubrick, e portato a termine da lui stesso, con esiti superiori a quelli che generalmente la critica gli riconoscerà.
Ricordando di essere soprattutto un attore e badando ai quattrini, Brando manterrà un piede in tutti i generi: buon Fletcher contro il cattivo Bligh (Trevor Howard) ne Gli ammutinati del Bounty di Lewis Milestone, ne I due seduttori di Ralph Levy gareggia in conquiste femminili con David Niven. E intanto prendeva coscienza politica, come si diceva allora sposando non solo donne di colore, ma anche la causa del pellerossa: è in loro nome che rifiuterà l’Oscar. Non gliene daranno dunque un altro per Apocalypse Now di Coppola (1979), nonostante gli elogi della critica per la breve partecipazione, pagata un milione di dollari al minuto. Restano memorabili le sue poche battute, scritte da John Milius: «Addestriamo i nostri piloti a lanciare napalm sui villaggi, ma non gli permettiamo di scrivere “cazzo” sugli aerei».
Nel 1996 Brando, dopo che la sua carriera era sostanzialmente conclusa, si prenderà un’ultima soddisfazione politica, dicendo una verità banale eppure esplosiva: «Hoilywood è in mano agli ebrei». Seguono prevedibile scandalo e altrettanto prevedibile ritrattazione, con Brando che piange nella più riuscita delle sue interpretazioni extracinematografiche, l’unica fatta davvero volentieri, l’unica gratis.
Da Il Giornale, 3 luglio 2004
«Nessuno mi può giudicare» era solito dire Marlon Brando. «Io sarò sempre me stesso. La gente e il mondo di Hollywood non mi cambieranno, le mie disgrazie personali non mi faranno cambiare. Sono quello che sono e se anche dovessi sbattere la testa in un muro di mattoni per riuscire a rimanere fedele a me stesso, lo farei». Adesso che a ottant’anni l’attore più leggendario della vita meno che centenaria dei cinema è scomparso, Hollywood rispetta la sua volontà. Nessuno si fa avanti per vantarsi di averlo conosciuto, nessuno cerca di farsi pubblicità con questa morte improvvisa. Le televisioni americane ieri hanno annunciato la sua scomparsa senza le solite «teste parlanti» disposte a descrivere un uomo che, forse, nessuno veramente ha mai conosciuto.
Anche i «grandi» che hanno lavorato con lui, e che ne conoscevano i segreti di ipocoridriaco e di recluso, i tasselli più nascosti di un puzzle pieno di talento, preferiscono non farsi intervistare. Francis Ford Coppola, che l’aveva diretto nell’indimenticabile Il Padrino è stato uno dei pochi a dire qualcosa. Ma più che un addio è stato quasi un monito a chiunque volesse rivelare i segreti di una vita che Brando, negli ultimi anni, ha preferito consumare dietro alla muraglia che aveva fatto erigere attörno alla sua villa.
Ecco con quali parole ha commentato il regista che lo diresse in uno dei suoi film che resteranno immortali: «Marion non sopportava che chiunque, fosse anche un amico, parlasse di lui quand’ era in vita. Immaginiamoci se adesso, con la sua morte, sopporterebbe l’idea di rivelazioni, di interviste, di segreti divulgati al grande pubblico. Quindi anch’io mi unisco ai nostri amici e di lui non dico nulla. Ammetto solo, invece, che la notizia della sua morte mi ha profondamente addolorato. Coppola si trovava insieme allo sceneggiatore Jeremy Leven, nel dicembre del 1984, quando Brando, in vena di ricordi, si era messo a parlare dei film Fronte del porto e dei suo complesso rapporto col regista Elia Kazan. «Questa scena gliel’avevo cambiata io» disse Brando recitando per i due, da capo a piedi, l’intero monologo. Alla fine, con le lacrime agli occhi Coppola aveva detto a Leven: «Ti rendi conto che siamo gli unici due al mondo ad avere visto MarIon Brando recitare quella scena ancor meglio che nel film?».
Anche James Caan lo conosceva bene: «Brando era un po’ come il padrino anche nella vita privata: silenzioso, potente, una presenza che non potevi ignorare. Ha insegnato il mestiere a centinaia di giovani attori. Ci mancherà».
Quel ruolo de II Padrino, adesso che i libri di cinema lo consacreranno per l’ultima volta come uno dei più significativi della storia, rimarrà la sua grande firma nel firmamento hollywoodiano Della trilogia un giorno Marion Brando aveva detto: «Il Padrino non è un ritratto della mafia, ma piuttosto dei “corporate world“ americano, di quel mondo dei business dove i miliardi si fanno sporcandosi spesso le mani. Questo film è il miglior esempio dei capitalismo americano».
Da Il Giornale, 3 luglio 2004
Marlon Brando arrivò finalmente a saziare, almeno sullo schermo, il segreto masochismo femminile, negli anni del cinema per famiglie, della società perbenista e delle ragazze sacerdotesse della loro verginità; luceva di giovinezza e di brutalità, era un attore sofisticato, un uomo tormentato.
E per la prima volta forse nella storia del divismo, un corpo, uno sguardo, un broncio, una canottiera, dilagarono con lo stesso imperio nella fantasia di donne e uomini: già dal suo secondo film, Un tram chiamato desiderio: uomini e donne si innamorarono di lui, il maschio predatore e intrattabile, il sadico capace di dolcezza, l’afasico collerico: non era bello e sembrava bellissimo, pareva persino che dallo schermo in bianco e nero emanasse un suo sconvolgente odore. Sapeva far correre la fantasia nel baratro dei sesso, anche se i suoi baci non erano così penetranti e le sue carezze così ardite, non si poteva allora in un film. Eppure, finalmente, un attore, un personaggio, suggeriva alle donne la violenza bruciante dell’erotismo senza amore, faceva rabbrividire i gay per la sua ambiguità sprezzante, dava agli etero l’inquietudine della loro fisicità inespressa, che mai una maglietta sudata avrebbe reso peccaminosa. Del resto il personaggio di Kowalski l’aveva inventato uno che se ne intendeva, Tennessee Williams, che nella banalità trasgressiva di allora gli aveva messo vicino la moglie
Incinta e devota e la cognata vedova e via di testa. Nella sessualità della fantasia le donne non si immedesimavano nella buona moglie e madre che si riprende il marito, ma in Blanche, la sedotta per crudeltà e scherno, e non solo perché aveva la grazia fragile di Vivien Leigh. Se buio e sottomissione dovevano essere il destino femminile, che almeno ci fossero fiamme e lacrime, peccato e nessuna redenzione. Era il 1951, l’inizio di un decennio di massima inesistenza femminile, dopo il sapore di autonomia che pur nel suo orrore, la guerra aveva permesso alle donne: che adesso tornavano a chiudersi in casa, a vivere nella prigione della felicità domestica. Gli slanci proibiti e i desideri inconfessati si rifugiavano nel sogno, il sogno diventava il luogo dell’oltraggio, della ribellione, della passione, dell’adulterio, della punizione: e solo quell’americano neanche tanto alto poteva esserne il protagonista, con la sua temibile voce sottile, quei muscoli nudi e lo sguardo nero e bruciante.
Il genio sconvolgente di Brando si consumò praticamente nella prima metà degli anni 50 e in tre film: dopo Un tram chiamato desiderio incantò dolorosamente con il suo malinconico broncio sotto un berretto di pelle e su una motocicletta, in Il selvaggio, anche a messa le figlie di Maria davano una sbirciatina al la sua foto consumata di baci, col viso tumefatto dai pugni di Fronte del porto. Dagli inizi degli anni 60, lui cominciò a precipitare in una sua vita molto turbolenta funestata da donne vere che, come le spettatrici, volevano a tutti i costi imporsi nel suo letto, possederlo, costringerlo a farle soffrire in modo sublime, cosa che del resto gli riuscì sempre bellissimo. Entrava e usciva da film in cui, per denaro, si lasciava travestire da giapponese imperatore, ammutinato, cowboy, nazista, brioso milionario maggiore impotente e segretamente omosessuale, avventuriero inglese. Ci si sforzava divederlo grande, anche in film insensati, e se la sua figura si appesantiva, se il suo viso non emanava pii un imperioso fulgore, non aveva importanza: di generazione in generazione, non solo di donne, restava il solo, l’unico, l’orco meraviglioso che poteva divorare la banalità della vita e far sentire alle donne, agli uomini, perché si era donne, perché si era uomini. Si accumulavano nella vita che è più dura e irresponsabile di un film, le mogli, che lo abbandonavano tenendosi i figli, tranne si susseguivano implacabili ad altre tiranne, esose depilatrici di denaro per farsi risarcire vuoi dall’abbandono che dalla delusione: qualche avventura omosessuale ingigantì la sua aureola di amatore sublime. A 47 anni, niente a che fare con i giovanilisti di oggi scattanti e palestrati, Brando tornò a trascinare in immaginari giacigli sfatti e frementi folle di insoddisfatti che pure avevano superato la liberazione sessuale, la minigonna, i Beatles, varie ribellioni, il femminismo e in tutto il mondo stavano protestando contro l’America del Vietnam. Bernardo Bertolucci gli costruì attorno un film tanto scandaloso da essere condannato al rogo. Ma lo scandalo di Ultimo tango a Parigi non fu tanto l’improbabile sodomia in jeans, ma il fatto che quest’uomo già in via di disfacimento, dal volto truccato, goffamente chiuso in un cappottone cammelo, capace di tirarsi giù le mutande e di mostrare il nudo sedere molliccio, continuava ad emanare incantamenti pericoIosi e anche fuori luogo, in anni in cui le donne avevano perso l’abitudine alla verginità ma in cui il bigottismo si intrecciava alla rivoluzione, la morale cristiana all’etica comunista. Per il padrino, si invecchiò di almeno dieci anni e miracolosamente restarono folgorate da quei che era rimasto di Kovalsky, niente, anche le ventenni. Negli ultimi trent’anni Marlon Brando si è chiuso in un corpo sempre più immenso e malato, si è avviato alla povertà, è sopravvissuto a suicidi di compagne, di una figlia, alla condanna per omicidio dei figlio più amato, il primogenito Christian avuto dalla bellissima moglie di origine indiana Anna Kashfi, una delle tante donne che l’anno voluto e poi odiato. Una vita allo sfascio, volutamente forse, in guerra contro quel bellissimo ragazzo, quel magnifico attore che aveva incantato il mondo come mai più nessuno è riuscito a fare. Dicono che anche le ragazze di oggi, quelle cui piace Brad Pitt e apparentemente spasimano persino per Costantino, si sentono in lutto: è morto un sogno, è morto l’uomo da cui bisognava farsi incantare, ci fosse stata l’epoca e l’occasione, per sapere cosa è davvero l’amore nero, che dicono sia il migliore.
Da La Repubblica, 3 luglio 2004
Era figlio di un’attrice, del resto, Dorothy Pennebaker, e dopo aver tentato vari mestieri, dal muratore al «liftier» in un albergo, si era iscritto a New York in una scuola di recitazione inducendo presto la sua insegnante a dichiarare: «A quel giovanotto dalle spalle da facchino ma dal cuore di bimbo, io non concedo più di un anno per diventare il migliore attore giovane di tutta Broadway».
Facile profezia. Sulle scene di New York regnava incontrastato in quel periodo Elia Kazan che, intuite, con la sua esperienza, le possibilità di Brando, gli affidò la parte selvatica e dura di Stanley Kowalski nel «Tram che si chiama desiderio» di Tennessee Williams. Un successo, con quasi mille repliche e le lodi incondizionate della critica.
Brando, però, non ne colse subito i risultati. Con i soldi guadagnati se ne andò a Parigi mescolandosi con adesione totale ai circoli esistenzialisti di Saint-Germain del Prés, che comunque non lo trattennero molto perché da Hollywood gli arrivarono presto le prime proposte per dei film. Partì per la California dicendo, con il disprezzo cinico di cui cominciava a dar prova: «Ho accettato di andare a Hollywood perché non ho ancora il coraggio morale di rifiutare il denaro che mi offrono».
Kazan, però, oltre a farlo esordire sulle scene, gli aveva anche trasmesso molti segreti di recitazione fecendogli seguire i corsi del famoso Actor’s Studio, dove allora insegnava, e se lo si rivede oggi quel primo film interpretato da Brando nel Cinquanta per la regia di Fred Zinnemann, «Uomini», vi si possono subito rilevare — nei suoi silenzi, nella sua gestualità brusca e quasi aspra e nel gioco ben dosato degli sguardi — i frutti di quella scuola e di un insegnamento che avrebbe poi guidato tutti i suoi passi successivi. Specie quando Kazan, avendo deciso di portare sullo schermo «Un tram che si chiama desiderio», tornò ad affidare a Brando la parte che aveva già recitato in teatro, affidandogliene più in là una analoga in «Viva Zapata».
In entrambe, ma soprattutto in quella dura e irsuta del rivoluzionario messicano, Brando arrivò a crearsi, tutta dall’interno, una personalità che ormai, pur dovendo molto alla scuola che lo aveva forgiato, scaturiva direttamente dalla sua psicologia più manifesta, quella del ribelle e del «selvaggio» che sarebbe stato presto negli anni che seguirono, il suo più preciso distintivo.
Questo non impedì, a lui americano al cento per cento, di dare una prova magnifica di recitazione scespiriana in quel «Giulio Cesare» in cui Joseph Mankiewicz non aveva esistato a mettergli al fianco dei grandi attori di scuola inglese come John Gielgud. Tornando presto, però, a quegli schemi di violenza pura che ormai erano diventati parte integrande della sua indole: nel «Selvaggio», ad esempio di Laslo Benedek, e, in quello stesso anno, il 1954, di nuovo con Kazan, in «Fronte del porto», cui dovette il primo Oscar e in cui sublimò anche tutto quello che era e voleva essere: estraneo alle convenzioni e alle mode, trasandato nel vestire, pettinato sempre ormai come il suo Marco Antonio nel «Giulio Cesare», con i capelli spioventi sulla fronte, già così idolo e mito da essere ovunque imitato da tutti quegli adolescenti che vedevano riflessa in lui la loro «gioventù bruciata».
Anche pronto, però, almeno a parole, a respingere le definizioni che più correttamente si davano di lui, come quando, in una conferenza stampa sul finire dei Cinquanta, respinse quel termine di «selvaggio» che pure in quel periodo, per la sua vita e i suoi film, sembrava andargli a pennello. «Selvaggio — disse — ma perché? Perché pretendo di leggere tutta la sceneggiatura prima di firmare un contratto? Oppure perché non amo bazzicare i soliti locali notturni dove si consuma il tempo intrappolati in abiti scomodi come lo smoking e dove ci si diverte a parlar male del prossimo rovinandosi il fegato con liquori e intrugli impossibili?»
Era però un attore e, oltre a rifiutare le etichette che gli attribuivano le varie «pettegole» di Hollywood, non tardò a rifiutare anche certi schemi fissi in cui, facendo leva sul suo carattere e sui personaggi che fino a quel momento aveva creato, tentava di rinchiuderlo una certa produzione americana. Tornò infatti con Mankiewicz addirittura per cantare in una commedia musicale, «Bulli e pupe»; accettò, con Joshua Logan, il patentismo di «Sayonara» e non si spaventò nemmeno di vestire una uniforme tedesca nei «Giovani Leoni» di Edward Dmytryk. Continuando, lungo tutti i Sessanta e poi nei Settanta, in una serie di interpretazioni in cui la mobilità delle sue espressioni si accompagnava sempre ad una gestualità controllata al millesimo; perché — diceva — «per essere naturali, bisogna saper essere padroni assoluti delle proprie finzioni».
In questa ottica, le sue folgoranti presenze nella «Contessa di Hong Kong», l’ultimo film di Charlie Chaplin, a fianco di Sophia Loren; nei «Riflessi in un occhio d’oro» di John Huston; nel «Padrino» di Francis Ford Coppola, cui dovette quel secondo Oscar poi respinto. Senza dimenticare il suo incontro con due registi italiani di fama Gillo Pontecorvo per «Queimada», Bernardo Bertolucci per «Ultimo tango a Parigi». Al sommo della sua arte, attento ad ogni sfumatura, pronto a continuare a fare epoca e mode a seconda di come si muoveva e di come vestiva, dalla canottiera di «Un tram che si chiama Desiderio», a giubbotto in pelle del «Selvaggio», a quel lungo cappotto logoro che indossava nell’«Ultimo tango».
Per arrivare, alla fine dei Settanta, a quella apparizione enigmatica in «Apocalypse Now» di Coppola, in cui, anche se il suo fisico cominciava ad appesantirsi, aderiva perfettamente, nel buio e nel mistero, a quell’allegoria del «cuore di tenebra» che Coppola, nel film, aveva mediato dal romanzo di Conrad. Continuando sempre più impavido a vincere e quasi a sublimare quella corporatura senza più grazia che solo esteriormente cominciava ad affliggerlo: sia nelle malizie del «Boss e la matricola» in cui, vestendo i panni di un mafioso che insegnava il mestiere a un novellino, riusciva quasi, in cifre di commedia, a fare, con straordinaria levità, la parodia di se stesso nel «Padrino». Sia in quel «Don Juan De Marco, maestro d’amore», prodotto da Coppola, in cui, affrontando un divo emergente come Johnny Depp, mostrava non solo di tenergli testa, ma, nonostante i mutamenti del suo fisico, di superare i carismi che l’altro già annunciava con l’aura inconfondibile da cui continuava ad essere avvolto.
Come, in tempi recenti, in quell’inatteso spot pubblicitario in Tv che lo ha mostrato seduto in cima a un picco, muto e raccolto, con uno sfondo evanescente di montagne. La prima volta che l’ho visto ho pensato a una dichiarazione da lui resa a Roma in anni lontani a una giornalista che lo intervistava: «L’attore di cinema — aveva detto — non è un artista, è una merce: il sacco di patate di Clark Gable, il sacco di farina Brando. È un articolo di serie. L’attore considera il suo lavoro un mezzo per ben vivere e non per imporre la sua arte. In tutta l’industria cinematografica esistono, si e no, uno a due veri artisti. Uno di questi è Chaplin, perché è libero».
Anche Brando, fino all’ultimo, ha dimostrato di possedere in pieno la sua libertà. In quello spot, in cui altri si sarebbero umiliati, è riuscito invece a dedicare quasi un monumento a se stesso. Riassumendosi in una immagine «libera» con l’imponenza del bronzo.
Da Il Tempo, 3 luglio 2004
Era il più grande e ora che non c’è più partono le geremiadi di rito. Era il più dotato, il più bello, il più maledetto, e adesso che se ne è andato ognuno nel vuole un pezzetto. Naturalmente è inutile chiedersi chi sarà il nuovo Brando o perché nessuno avrà più la sua aura e il suo carisma. Non ci sarà un altro Brando e che non c’è più l’America del secondo dopoguerra, non ci sarà un’altra generazione come quella di James Dean e Montgomery Clift, né un paese che dopo aver combattuto (tardi) e vinto una guerra giusta, si troverà di colpo davanti alle mille contraddizioni di casa propria. E poi è cambiata per sempre anche la fabbrica dei sogni.
Nessuno oggi ha il potere, simbolico e reale, che aveva un divo negli anni 50, perché molti e diversi sono i canali dell’industria culturale (non solo cinema ma tivù, rock, mondi virtuali). Nessuno avrà la statura di Brando perché dietro ad ogni divo oggi ci sono eserciti di strateghi che pianificano gesti, ruoli, apparizioni, interviste, fino a consumare per intero, letteralmente, la star di turno. Fino a farne un’immagine pura, senza resti, un’icona dietro cui non c’è nulla.
Gli attori lo sanno e qualcuno si ribella, ma pochi riescono a ritagliarsi un contropotere reale (una vita piena e attiva) al di fuori del cerchio di luce delle Majors, e chi ci riesce paga un prezzo pesante. Oppure si forma un suo clan, una ”banda” che lo protegge e lo rende riconoscibile, sceglie una porzione precisa di mercato (un busto, una tendenza, una sensibilità) e non si muove più di lì. Si può fare, ma non è la stessa cosa che passare dai classici ai filmoni da Oscar, da Shakespeare al musical e al western come faceva Brando. E forse gli unici a tentare davvero questa strada, conciliando scelte artistiche e impegno personale, decisioni controcorrente e potere contrattuale, sono non a caso gli unici pupilli riconosciuti del grande Marlon, Sean Penn e Johnny Depp, entrambi baciati da talento e carisma fuori misura, anche se solo Depp ha avuto la fortuna di lavorare ben due volte con Mito, una da partner nel sottovalutato Don Juan De Marco , un’altra addirittura da regista nel peraltro fallimentare Il coraggioso. Quanto al resto, l’eredità Brando che esiste ed è immensa come testimonia ogni attore d’America sembra essersi dispersa in mille rivoli. Chi rimpiange la dimestichezza coi classici e l’autorità del palcoscenico sarà tentato di guardare verso attori anglosassoni, da Hopkins a Branagh a Ralph Fiennes, ma siamo lontani anni luce dal fascino di Brando e persino Fiennes, il più avvenente del gruppo, resta ancora oggi l’attore di Schindler’s List . Chi cerca il carisma, la prestanza, il sex-appeal, troverà un plotone di star di incerto spessore artistico e di nessuna autorità personale perché inesistenti al di fuori del loro ruolo appunto di star (da Brad Pitt a Tom Cruise, da Richard Gere a Leonardo Di Caprio peraltro il più dotato del gruppo). Mentre a seguire le tracce del talento, viceversa, ci si trova in compagnia di attori grandissimi ma scarsini in appeal, come Dustin Hoffman e Gene Hackman, Roberto Duvall e Kevin Spacey, passando per figure camaleontiche e inclassificabili come John Malkovich. E comunque nessuno di questi nomi, neanche sommato a tutti gli altri, raggiunge un decimo del peso che ha avuto Brando. Peso umano e culturale prima che artistico, derivante dalle sue scelte ancor prima che dai suoi film, dal disprezzo crescente ostentato nei confronti dell’ establishment , e qui oltre a Penn e Depp si possono citare i capricci di Daniel Day-Lewis, la deliberata marginalità di Vincent Gallo, o le cattive maniere di Russell Crowe.
Ma siamo ancora lontani dal mito. Per cui si finisce, come dubitarne, allo storico derby Pacino-De Niro, gli unici attori di oggi (con Jack Nicholson, che a Brando e al suo sovrano disprezzo delle regole deve molto) a poter reggere il confronto almeno sul piano recitativo. E qui, anche se ai punti, vince Pacino. Per il gusto del dettaglio, della parte per il tutto. Per quella distanza interiore che lo separa sempre dal personaggio, distanza che è consapevolezza e vigilanza critica. Ma forse la vera differenza sta nel rapporto tra l’attore e le sue creazioni. Difficile immaginare Brando ingrassare o dimagrire 20 kg per la parte come ha fatto De Niro nell’identificazione quasi schizzoide al ruolo, De Niro celebra il controllo totale dell’artista. Mandando in rovina quel corpo glorioso, Brando mette in scena invece una mancanza di misura e di controllo che in fondo appartiene alla vita di tutti noi. E questo non c’è Actors’ Studio che possa insegnarlo. Da Il Messaggero, 4 luglio 2004
Fabio Ferzetti
Ieri, in un ospedale di Los Angeles, è morto Marlon Brando: non solo un grande attore, per molti il più grande, ma - la frase fatta è vera, per lui, alla lettera - un mito vivente. Ottant’anni, due Oscar (1954: Fronte del portò, 1972: Il padrino), una carriera che ha segnato la storia del cinema e il nostro immaginario, quindi la nostra vita.
Uomo colto, come ogni grande attore, che un regista colto come Gillo Pontecorvo ha giudicato ieri «il migliore con cui io abbia mai lavorato», Brando è stato più di ogni altro un attore che recitava con tutto se stesso: con la mente, con il volto ma anche e soprattutto con il corpo. La sua fisicità è stata senza pari, tanto bella negli occhi, nei muscoli, nella bocca sensuale degli anni giovanili quanto sfatta e straripante in quelli della vecchiaia.
Fu quella fisicità a farlo diventare subito un’icona dell’immaginario maschile e femminile, un modello invidiato o adorato, un oggetto del desiderio, una proiezione delle nostre fantasie: insomma, un divo. Fondendosi con una propensione all’eccesso che era dell’uomo, prima che dell’attore, e con la tecnica di recitazione caricata, nevrotica, per nulla istintiva ma tutta di cervello dell’Actor’s Studio, che dopo di lui apparirà nei tic, nelle smorfie, nell’andatura a sbalzi di James Dean, quella fisicità ha creato un interprete capace di incatenare a sé per tutta la vita lo spasmodico interesse del pubblico mondiale.
Nato a Omaha (Nebraska), il 3 aprile 1924, da un commesso viaggiatore e da un’attrice di teatro, espulso dall’Accademia militare del Minnesota per indisciplina, Marlon Brando diventerà il più celebre tra i ribelli dello schermo. Debutta in teatro, a Broadway, nel 1944; nel 1947 il successo in Un tram che si chiama desiderio, il dramma di Tennessee Williams, poi l’Actor’s Studio, sotto la guida di Elia Kazan. Nel 1950 è un paraplegico reduce di guerra in Uomini di Fred Zinnemann (alla parte si prepara meticolosamente, con una lunga permanenza in ospedale), nel 1952 è il rivoluzionario messicano Emiliano Zapata, l’eroe contadino di Viva Zapata! di Kazan, nel 1953 l’indimenticabile Kowalski, il protagonista in canottiera della versione cinematografica dei dramma di Williams, nel 1954 esplodono il violento e il ribelle in Fronte del porto di Kazan e Il selvaggio di Laszlo Benedek.
Poi una carriera scandita da interpretazioni che diventano altrettante pietre miliari. Nel 1968 è l’ufficiale di marina di Queimada di Gillo Pontecorvo, nel 1972 un eroe dell’autodisfacimento e del cupio dissolvi in un film sopravvalutato ma addirittura, come si suol dire oggi, “di culto” come Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, sempre nel 1972 è don Vito Corleone, l’umanissimo personaggio del Padrino di Francis Ford Coppola. Nel 1979 un’interpretazione di eccezionale livello, quella del megalomane e psicopatico colonnello Kurz in Apocalypse now di Coppola ispirato a Cuore di tenebra, il romanzo breve di Joseph Conrad sulle atrocità nel Congo belga, meriterebbe da sola, se non fosse accompagnata da alcune scene memorabili, di salvare un film intellettualisticamente lambiccato, con inserzioni inverosimili e punte di trivialità.
Intanto il “ribelle” si affermava anche in politica, come difensore dei diritti dei nativi americani, e, meno gloriosamente, nella vita privata, con avventure affettive e sessuali che hanno dato scandalo, alimentando pettegolezzi, maldicenze e biografie non autorizzate.
Può darsi che sia stato un erotomane, che fosse bisessuale o «pansessuale», come è stato definito. Tutto questo però non dovrebbe interessarci oggi come appassionati di cinema, come spettatori seriamente interessati al destino del suo e del nostro tempo, poiché se un artista è uomo quanto gli altri uomini, partecipe come e più di noi delle umane debolezze, come artista è sempre un benefattore del genere umano, definito dalla qualità essenziale alla sua arte come a quella dei poeti, dei pittori, dei musicisti: la generosità.
Nessun artista si identifica con i suoi personaggi, e un attore meno che mai. Chi fosse l’uomo Brando non lo apprenderemo dalle sue interpretazioni, in cui passò dal giovane bellissimo, ribelle, scanzonato o sentimentale, di Fronte del porto, Bulli e pupe (1955), Sayonara (1957), I giovani leoni (1958), all’opaco protagonista dell’unico film, un western, da lui diretto e interpretato, I due volti della vendetta (1961), a figure di routine, come l’ufficiale ammutinato del Bounty (1962) o il protagonista, accanto a Sophia Loren, del mediocre La contessa di Hong Kong del genio Chaplin (1967), a personaggi ambigui o laidi come il giardiniere di Improvvisamente un uomo nella notte (1972, da Giro di vite di Henty James), l’americano di Ultimo tango, l’agghiacciante cacciatore di taglie in Missouri di Arthur Penn (1976), che uccide preferibilmente a tradimento e con un tocco di macabra giocosità, per esempio travestito da donna.
Da quelle interpretazioni spesso virtuosistiche conosceremo però l’essenziale: il professionista che nella vita era uomo di sensibilità e anche fragilità morbosa, e per questo era spesso violento e intrattabile, che restava intrattabile anche sul set, ma subordinando ogni intemperanza a un solo obiettivo:. l’eccellenza del risultato. Attore versatile, attore di scuola e di testa, Brando sullo schermo non impersonò mai “se stesso”, mai l’eroe positivo dallo sguardo limpido e dal sorriso sereno, come Gary Cooper o Gregory Peck. Fu il camaleonte capace di calarsi in qualunque parte, che dopo di lui si è incarnato nelle straordinarie metamorfosi di Robert De Niro.
Da Il Sole-24 Ore, 3 luglio 2004
Marlon Brando era bellissimo nel 1951 nel suo secondo film, Un tram che si chiama Desiderio, che Elia Kazan aveva tratto dal testo teatrale di Tennessee Williams: i lineamenti perfetti da statua classica, le labbra gonfie, il leggero strabismo, la fronte convessa, le spalle e il petto molto più muscolosi di quanto usasse all’epoca per gli attori, gli occhi vellutati, un tocco esotico dato dalle origini francesi del padre, il cui cognome era Brandeau. Era giovane. Era bravissimo, il primo attore del metodo Stanislavski, il primo allievo di Stella Adler e dell’Actor’s Studio, il primo a diventare una star del cinema. Era molto sexy, anzi bi-sexy, amato da uomini e donne per il forte, intenso fascino sessuale, che non era certo frequente tra i legnosi divi americani. Era ribelle, cattivo, emblema di personaggi rivoltosi. Folgorò gli Anni Cinquanta e soggiogò per sempre il cinema. Come avrebbe potuto non essere adorato, soprattutto dai giovani? Nel periodo iniziale di costruzione della sua grande bravura e fama d’attore, gli elementi che caratterizzarono Marlon Brando furono tre: bellezza, Actor’s Studio, danza. Prima ancora di studiare recitazione, aveva frequentato a New York corsi di danza con Katharina Dunhard: questo aveva dato al suo modo di muoversi qualcosa di leggero e flessuoso che, sommandosi alla forza fisica, rappresentava una caratteristica speciale. L’incontro con l’Actor’s Studio e con il regista Elia Kazan (che lo diresse poi anche in Fronte del porto) fu fondamentale, suggerì agli spettatori le più diverse reazioni (allarme, timore, trasporto) e identificazioni comportamentali (aggressività, freddezza, virilità, rabbia). I suoi grandi successi, il vertice della sua bravura e popolarità, appartengono soprattutto agli Anni Cinquanta: Il tram che si chiama Desiderio, Il selvaggio, Fronte del porto, Bulli e pupe, Giulio Cesare, I giovani leoni, Pelle di serpente. Più tardi vennero Il padrino, Ultimo tango a Parigi, Apocalypse Now, eccetera. E’stato il condottiero, il maestro, il sacerdote di un periodo in cui il cinema rispecchiava come nessun’altra arte l’aria del tempo, esprimeva l’anima e la realtà di società desiderose di essere migliori, creava idoli quotidiani: in questa sintonia, nessuno è stato come lui. Ma anche più tardi, quando il cinema ha cominciato a perdersi nelle velleità o nel commercio senza passione, che interpretazioni memorabili: nel dramma torbido di Riflessi in un occhio d’oro di John Huston dal testo di Carson McCullers, 1967, era un maggiore dell’esercito americano innamorato di un soldato innamorato di sua moglie Liz Taylor; nel Padrino di Francis Ford Coppola dal romanzo di Mario Puzo, 1971, il suo personaggio di don Vito Corleone fu tale da creare una nuova leggenda in una carriera già leggendaria; in Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, 1973, recitava un vedovo americano alla deriva che a Parigi si innamorava di Maria Schneider con furia carnale e disperazione struggente. Marlon Brando ha quasi sempre avuto rapporti difficili con i suoi registi (per realizzare Gli Ammutinati del Bounty ci vollero due registi, Carol Reed e Lewis Milestone, e due anni e mezzo di lavorazione), era ipersensibile (per evitare il contatto delle mani altrui aveva imparato a truccarsi da solo, per rifugiarsi nel silenzio infilava i tappi di cera nelle orecchie, quando cominciava a recitare tutta la troupe doveva voltargli le spalle). Il risvolto negativo della sensibilità erano un temperamento molto instabile, ombroso, chiuso e una forte paura di sbagliare. Alla fine, del cinema gli importava davvero poco. Un mestiere da stupidi, diceva. Entri, esci, invochi urlando «Stella! Stella, amore! Stellaaa!», sali in motocicletta, smonti da cavallo, commemori Giulio Cesare, scateni la Rivoluzione messicana, rompi il Fronte del porto, frusti un’istitutrice inglese e non sai mai perché, né cosa stai facendo. A recitare sono capaci tutti, diceva: si adoperano gli attori soltanto perché sono animali ormai addomesticati, con loro non si corrono rischi di dispersiva emotività o di spontaneità costosa, non si perde tempo. Il successo, diceva, è soltanto una insicura branca del commercio: e fare il cinema significa offrire agli altri la possibilità di manipolarti, di venderti, di monetizzare la tua personalità. Civetteria. Però la sua carriera sarebbe stata da allora saltuaria, fatta di eclissi e riapparizioni, con lunghe pause di silenzio, troppi chili accumulati sul corpo, troppi guai finanziari, giudiziari, familiari. La stella luminosa di Marlon Brando s’era offuscata molto prima della sua morte: ma resta grande, grande. Da La Stampa, 3 luglio 2004
Una luce radiosa: il carisma. Poi mille chiaroscuri che scandiscono la vita e la carriera del più divino tra i divini di Hollywod. Infine, un cinereo, cupo finale che avvolge declino, autoesilio e morte dell’uomo che volle farsi attore. Tra il diluvio di parole e il magma d’emozioni che accompagnano l’ora dell’addio sui media del mondo, sceglieremmo la più semplice delle epigrafi: Marlon Brando, morto giovedì a Los Angeles, è riuscito davvero (e a sue spese) a incarnare l’illusione e la magia della finzione nel pathos di un corpo esuberante e di un’anima tormentosa. Se ha ancora senso parlare di un cinema «bigger than life», più grande della vita, bisogna per forza tornare all’ossessivo massimalismo che ha segnato le sue applicazioni e le sue apparizioni e ha procurato lo storico dissolvimento della «schizofrenia scenica» tra il sembrare e l’essere, il recitare e il reagire, l’eseguire e il creare. Emerso dalle tenebre di un dramma esistenziale, di una piaga psicologica e di una sensualità animalesca, Brando si è tanto identificato con i propri straordinari personaggi da trasfigurarli per sempre in quel misterioso riflesso, quell’impalpabile scambio che lo schermo opera a contatto dei suoi milioni di spettatori perfino attraverso le generazioni. Nato nel 1924 a Omaha, quando il cinema da poco s’era svincolato dal destino di fenomeno da baraccone, Brando cerca invano di disciplinare la nevrotica e introversa personalità iscrivendosi all’Accademia militare. Molto più congeniale, ma non meno impegnativa risulta l’adesione ai corsi della Scuola d’arte drammatica di New York e al magistero di Kazan e Strasberg presso il rivoluzionario Actors’Studio. L’esordio del ’47 in Un tram che si chiama desiderio potrebbe inchiodarlo a una tecnica e a una mimica esasperate in cui fa già capolino la maniera: eppure i critici dell’epoca percepiscono subito che la fisicità allarmante del giovane protagonista supera di prepotenza il canone della scuola. La forza comunicativa dell’attore, l’originalità delle sue espressioni ombrose, i «cattivi pensieri» che suscita nell’immaginario erotico ancora represso del pubblico, conferiscono al passaggio sullo schermo una qualità che coincide, per così dire, spontaneamente, con la mitografia. La quale, secondo noi anche in ragione di un percorso biografico disseminato di scandali e amori, genialità e sregolatezze, slanci democratici e progressisti e ascese superpagate nell’empireo del box-office, tocca i suoi vertici negli anni Cinquanta e nei Settanta: quando, cioè, i due premi Oscar sottolineano i primi e gli ultimi fuochi della filmografia. Quasi tutti i titoli della prima decade tramandano l’acme dell’inimitabile mistura di aggressività e tenerezza: dai torbidi inappagamenti di Il mio corpo ti appartiene al revanscismo patetico di Uomini; dallo spavaldo machismo del film Un tram che si chiama desiderio all’ambiguo militantismo di Viva Zapata!; dall’aulica maestosità di Giulio Cesare all’insolenza teppistica e sexy de Il selvaggio, dal sarcasmo coreografico di Bulli e pupe al poetico autolesionismo de I giovani leoni, uno dei film finti e quindi più spietati sull’implosione dell’etica nazista. Ma proprio in Fronte del porto, con cui vince la statuetta, raggiunge la perfezione: nella sua lotta per l’amore e la giustizia, da don Chisciotte dei tetti di New York, Brando diventa l’icona di un anticonformismo morale e di un ribellismo costituzionale che travalicano le angustie delle ideologie salvifiche. Nel corso dei Sessanta, al contrario, Brando è all’altezza della sua fama più sporadicamente: non convince l’unica prova da regista (I due volti della vendetta) e la grande versatilità non sempre verifica le intenzioni di spesso ottimi registi. In La caccia è una presenza inquietante che non si tramuta in carattere; in Riflessi in un occhio d’oro lavora bene sulle sfumature di un personaggio concepito e scritto secondo psicologismi un po’facili; in Gli Ammutinati del Bounty è finalmente tragico come vuole la logica dell’avventura per l’avventura; in La contessa di Hong Kong duetta con insolita civetteria con Sofia Loren, dimostrando soprattutto a se stesso di reggersi in equilibrio sulla delicata corda della commedia; in Queimada si trova a disagio dovendo mimare le stimmate di un americano come lo vedono gli anti-americani del cinema d’autore europeo. La grande svolta arriva quando pochi ancora se l’aspettano: prima di dedicarsi ai super-cammei molto concisi, molto costosi, molto autoiroici che eseguirà per il successo dei fantasmagorici Superman e compagnia, vince l’Oscar con Il Padrino e meriterebbe di stravincerlo per Ultimo tango a Parigi e Apocalypse Now. Sembrerebbero ruoli molto distanti tra loro, addirittura occasionali e incongrui: ma, a ben vedere, un filo rosso lega la cavernosa onniscienza del mafioso, l’iperattivismo sessuale del maturo amante parigino e la ieratica ritualità del profeta annidato nel cuore della jungla vietnamita. L’inclinazione al gesto mortifero dei reietti della società e il suicidio simbolico dei detentori dell’antica saggezza che coincide con il potere trovano nell’incedere monumentale e negli sguardi ancora più disperati, ancora più teneri del divo, la definitiva metafora cinematografica del tramonto dell’Occidente. La «verità» artistica di Brando non sta nelle scadenti biografie non autorizzate, bensì nei film che ne rivelano la lacerante autosufficienza. Per il pubblico e la peculiare cultura che ha espresso e continua a esprimere il cinema, una miniera che non potrà mai esaurirsi.
Da Il Mattino, 3 luglio 2004
«Il Don è morto» proclamava il comunicato straordinario di Variety dopo che la notizia della morte di Marlon Brando era stata confermata dall'avvocato dell'attore. Mezz'ora prima, sulla Cnn, la trasmissione di un discorso di George Bush sull'economia veniva interrotta in nome della scomparsa di Brando. In attesa di necrologi più completi e elaborati, lo stesso lancio della Associated Press appariva sui siti dei grandi quotidiani - Los Angeles Times, New York Times... - e della Cnn. In televisione, intanto, sulle reti via cavo all news, critici convocati all'istante improvvisavano commenti poco originali e, dalle regie, si mandavano e rimandavano le immagini di Stanley Kowalski che chiama incessantemente Stella si piedi delle scale, in Un tram chiamato desiderio («A Streetcar Named Desire»), e di Vito Corelone che dispensa favori in un salotto tutto ombre mentre sua figlia Connie si sta sposando lì fuori, nel giardino pieno di sole. «Il più grande attore della sua generazione», «il talento che ha rivoluzionato la recitazione americana», «un uomo egualmente affascinante sullo schermo e fuori dallo schermo»... La magnifica, mai malevola, ironia che, specialmente negli ultimi anni, era così radicata nello sguardo di Marlon Brando avrebbe apprezzato come in tutto il coverage deferente organizzato in fretta alla notizia della sua morte, trasparisse un'emozione comune, una sorta di assoluta incredulità. Si trattava di un'incredulità visibilissima nello sguardo dei presentatori di telegiornali costretti a leggere in fretta i riassunti della sua biografia. Perché, in tempi di conformismo e consenso assoluti come quelli che stiamo attraversando, Brando rappresenta l'alterità totale di un marziano. Uno degli ultimissimi rimasti a Hollywood. Chi mai oggi mostrerebbe un disinteresse così radicale per le regole del gioco? Chi, invece di andare a ritirare il suo Oscar ci manderebbe una ragazza indiana a leggere un manifesto sui diritti dei nativi d'America come fece Brando nel 1973? Chi abuserebbe a forza di cibo un corpo e un volto cosi belli e, soprattutto, così preziosi?
L'inattualità grandiosa, ostinatamente nuda, di questo grandissimo del cinema americano, troneggiava sulle parole spese ieri per commemorarlo, e su chi, di fronte alle sue tragedie famigliari e alla sua filmografia degli ultimi vent'anni anni ne traeva il quadro di un talento immenso, ma forse «un po’sprecato». Il moralismo faceva venire in mente quello spesso usato nei confronti di Orson Welles. Un paio di commentatori sono arrivati a concludere che Brando stesso, probabilmente, non era soddisfatto della sua carriera - per non parlare della sua vita privata! Dopo la rivoluzione kazaniana, Il padrino e Ultimo tango a Parigi, entrambi del 1972, i film degli ultimi anni sono stati giudicati «minori» in blocco. Può darsi che non fossero film miliari (anche se miliare è la sua apparizione in Apocalypse Now e miliare fu il suo cachet per pochi minuti di recitazione in Superman di Richard Donner). Però andrebbe ricordata la grazia del balletto tra Brando e Johnny Depp in Don Juan De Marco maestro d'amore (1995), il fatto che, per Depp, Brando ha recitato in Il coraggioso («The Brave», 1997, mai distribuito in Usa) o la stranezza di film come Missouri («Missouri Breaks», 1976) e La caccia («The Chase», 1966) diretti da Arthur Penn. L'isola perduta («The Island of Dr Moreau», 1997, di John Frankenheimer) in cui Brando interpretava, dopo Burt Lancaster, lo scienziato da H. G. Wells è un film che va visto per la sua follia e The score (2001), di Frank Oz, perché vi recitano insieme Marlon Brando, Robert De Niro e Edward Norton (secondo, i reportage del tempo, il regista fu virtualmente bandito dal set nelle scene più importanti di Brando, che chiamava Oz «Ms. Piggy», e preferiva essere diretto dai suoi colleghi).
Se Brando non ha preso sul serio la sua carriera come i commentatori avrebbero voluto facesse è perché non ha mai preso sul serio l'industria e il suo protocollo. Nessuno, però ieri, ha ricordato la sua generosa partecipazione all'anti-apartheid Un'arida stagione bianca («The White Dry Season», 1989) di Euzan Palcy o I due volti della vendetta («One-Eyed Jacks», 1961) il suo unico film da regista, un western mezzo messicano e con il mare, in cui Brando è un ex bandito timido tradito dal suo migliore amico. E questi sono due progetti a cui lui, ovviamente, teneva moltissimo.
«Recluso» è stata una parola usata molto nel ricordarlo. Ma solo perché Brando non faceva parte della scena di Hollywood, non si è mai avuta l'impressione che fosse distante o disinteressato dall'attualità. Leggende metropolitane vogliono che amasse molto la radio a onde corte, e che passasse ore a chiacchierare con sconosciuti «live» - quella sua voce meravigliosa, nella notte losangelina, su frequenza gracchianti. Altri sostengono che frequantasse molto Internet e, all'insaputa di tutti, contribuisse ai blog del suo website.
Nel 2002 una lezione di recitazione che tenne a Los Angeles (per un progetto mai realizzato con il filmmaker inglese Tony Kaye) fu seguita da «tutti» - Robin Williams, Sean Penn e Michael Jackson compresi. Con gli attori giovani come Johnny Depp, Brando aveva un rapporto regolare e, insieme a Sean Penn, discusse solo un paio di anni fa la possibilità di portare al cinema L'Autunno del patriarca, di Garcia Marquez.
Da Il Manifesto, 3 luglio 2004
Apparve all'inizio degli anni 50 una forza della natura, Marlon Brando. Un grande attore teatrale moderno in gigantografia schermica? No. Molto di più. Al di del Metodo, al di là degli opposti estremismi emotivi che maneggiava già come Pina Baush, con non chalance: la fragilità maschile e la forza imperiale femminile. La bellezza è il talento in più del cinema contemporaneo, Johnny Depp forse ne è l'erede (in The brave forse assistiamo al passaggio del testimone). Una bellezza impossibile da contenere nemmeno nel cinemascope, che avrebbe cambiato o finito la storia del cinema, a braccetto con Marilyn Monroe, spazzando via per sempre il «divismo vestito» e puritano, come, 30 anni prima, era successo con l'effimera meteora Rodolfo Valentino. E al di là dei film che ha fatto, che in fondo gli stanno tutti un po'stretti, a parte Fronte del porto, Ultimo tango, Un tram chiamato desiderio, Apocalypse now. Ricordiamo le acidità rivolte a Kazan in occasione dell'Oscar alla carriera. In fondo era sempre risentito quando recitava. Ma aveva decine di figli da mantenere. Però voleva mettere gli americani davanti allo specchio e farli atterrire di ciò che vedevano. Un po'quel che oggi fa Michael Moore. Le tenebre dentro di noi. L'orrore per il vuoto, per la fine della civiltà umana. «The end». Jim Morrison... Hollywood, all'inizio degli anni 50, stava cambiando pelle, lo studio system lanciava le produzioni indipendenti per rigenerarsi, nelle forme e nei temi, si sbarazzava del vecchio divismo costoso e non più redditizio, scosso nell'intimo dal neorealismo italiano e da quello tv delle inchieste sulla delinquenza giovanile e sulla rivoluzione del rock. Mgm e Wb investivano su corpi diversi di giovani rabbiosi e psicotici, su isterici e nevrotici, dall'erotismo inedito, statue poliritmiche e inebrianti, sudate e non più asettiche, capaci di compiere missioni psicofisiche impossibili. Lui, James Dean, Montgomery Cliff, Steve McQueen, Paul Newman...
Brando veniva dal Nebraska, e sarebbe finito a Tahiti, via Mullholland Drive e New York. Proprio come Robert Taylor. Ma che differenza tra il bel maritino coi baffi in tweed, che si dovette scusare di fronte al comitato per le attività antiamericane per avere magnificato la civiltà stalinista in Mission to Moscow e l'attore amico e finanziatore dei Black Panthers, incontenibile, irreggimentabile, «cesarista» mai repubblicano, che utilizzò un premio Oscar per ricordare all'America la base e l'essenza della sua civiltà: lo sterminio dei nativi, e la loro sostituzione come braccia da sfruttare con gli schiavi africani.
Brando era il «tipico ordinario ragazzo americano», ma nel senso che il tipico ordinario ragazzo americano non è quello che si pensa. Bisessuale, politicizzato, non ipocrita, amò davvero (ma sempre per poche ore) centinaia di ragazze (soprattutto extraoccidentali) e Christian Marquand, e poche altre e altri, di più. Nelle sue lezioni di filosofia della storia Hegel avrebbe spiegato il «dramma Brando» - raccondandoci la sua diffidenza per l'America: il nuovo mondo non è il futuro dello Spirito, cioè dell'autocoscienza umana, ma un ritorno alla preistoria, al noioso «stato di natura» dell'uomo, perché la stessa geografia dell'America impedisce la vicinanza conflittuale e creativa che fa una civiltà compiuta. Gli emigranti europei laggiù verranno disintegrati dalla «teoria della frontiera»...
Brando incorporò questo conflitto, nei ruoli di Marc'Antonio e del colonnello Kurtz fino a farci venire i brividi. Nell'autobiografia Says my mother tought me racconta della sua rabbia contro il padre, contro il mondo, contro una civiltà incubatrice di violenza psicologica che nella seconda parte della carriera, quando è pallido grasso gentile fragile e bianco vestito emerge a tratti, quando è donna con l'accento del sud di Misuri Breaks e quando è italo americano ferocissimo nel Padrino.
È probabile che dopo Fronte del porto non si sia mai più occupao di cinema e superato quanto a intensità, presenza, forza autonoma, macchina recitativa inebriante... Marlon Brando sapeva imitare ogni uomo e ogni donna che lo meritasse o che lo divertisse (Vivien Leigh, per esempio). Amava molto Queimada di Gillo Pontecorvo, nel quale esibì una performance virtuosa, da tipico imperialista inglese totale e spietato, e che merita un posto d'onore nelle biografie prestigiose che gli sono state dedicate dagli studiosi americani, a partire da quella del 1991 di Richard Schickel, a quella di Manso, del `94, fino a quella della Bosworth del 2001. Ma il segreto del suo sguardo e del suo comportamente sexy qual era? «Sembrava Stanley Kowalski, anzi era proprio Stanley Kowalski, eppure era anche Blanche Dubois».
Da Il Manifesto, 3 luglio 2004
Sono tutti d'accordo, o quasi. Marlon Brando è stato il più grande, il più straordinario, il più bello. E adesso che il più grande e il più bello, chiuso nella sua casa di Los Angeles, compie la venerabile età di ottant’anni, adesso che lui e gli altri tirano i conti della sua vita, quei conti ci dicono che è stato anche il più tragico e il più infelice, di quella infelicità che nasce da un incontro malato tra la fortuna, il successo e il senso di inadeguatezza a quella stessa fortuna che ti ha nutrito la vita, la fama, la carriera.
Compie ottant’anni sui detriti della propria vita e della propria carriera, su un percorso fortunato e leggendario che è finito nella tragedia e nella distruzione - per arroganza, bisogno di denaro, incuranza - di un mito professionale. La fortuna di Marlon Brando è nata nel corso di una singola notte, quella del 3 dicembre 1947, quando il bel ragazzo dell'Illinois, ventitre anni, ribelle a ogni disciplina, compresa quella militare, approdato a New York per fare l'attore, comparve sul palcoscenico dell'Ethel Barrymore Theatre.
Trasudava rabbia e testosterone, dicono i testimoni, e portava una canottiera - quella di Kowalski - che divenne un istantaneo oggetto del desiderio. Il giorno dopo i giornali decretarono due cose: che era nato un attore e che quell'attore, il protagonista di "Un tram che si chiama desiderio", era la presenza più sexy in circolazione in America. Da quel giorno del 1947 Marlon Brando, il prodotto della rabbia di vivere e della scuola di Strasberg, ha inaugurato una carriera strepitosa. Bravo? Bravissimo. A volte eccessivo, istrionico, esibito - forse anche per il valore aggiunto della sua bellezza. A volte semplicemente strepitoso, sottile, sottotono, nonostante il suo fisico. Ancora più bravo quando riusciva a farlo dimenticare, quel fisico, come nella sua straordinaria interpretazione di "Il padrino".
L'ambiguità è il tema fondamentale in almeno quattro film fondamentali della sua storia. In "Viva Zapata!", dove il sogno rivoluzionario è condannato per l'inevitabile degenerazione dei suoi capi. In "Fronte del porto", che finisce per accomunare sindacalismo e violenza. In "Queimada", dove, ancora una volta, la rivoluzione (o almeno, quella messa in moto dal suo personaggio) è strumentale a ben altri giochi di potere. E naturalmente ne "Il padrino"? Ma a questi titoli - e a "Uomini", a "Il selvaggio", con quel "chiodo" di pelle nera che diventerà il simbolo di una generazione di ribelli, a "Un tram che si chiama desiderio", a "Giulio Cesare", a "I giovani leoni" - Brando affiancherà anche titoli di una leggerezza inadatta a lui, come "Bulli e pupe" o "Sayonara", fino a perdersi in una serie di film di poco peso, fino a scomparire dall'orizzonte dello schermo di cui è rimasto una leggenda. Sempre, però, capace di rinascere.
Nel 1972, quando fece il primo giorno di lavorazione nel "Padrino" senza che nessuno, grazie al trucco che gli gonfiava le guance, lo riconoscesse. Nel 1973, quando, avvolto in un lungo ed elegantemente sdrucito cappotto di cammello, bianco di capelli e segnato in faccia ma bellissimo, comparve sullo schermo di "Ultimo tango a Parigi". Al "Padrino" andò anche il secondo Oscar della sua carriera, ma Brando spedì a riceverlo un'indiana in costume che fece per lui un discorso sulle condizioni dei native Americans (quanto al primo Oscar, quello per l'ambiguo personaggio di Mollo in "Fronte del porto", si era pentito di averlo accettato, e conseguentemente rifiutò, cinque anni fa, di consegnare a Kazan l'Oscar alla carriera).
Poi, nella vita di Brando, qualcosa deve essersi rotto nell'equilibrio tra un lavoro fatto, diceva lui, perché "non ho il coraggio morale di rifiutare i soldi" e una vita vissuta nevroticamente con donne a ripetizione (e qualcuno dice anche uomini), mogli in sequenza, dodici figli tra legittimi e non sparsi per il mondo. Brando si ritira a Tetiaroa, un'isola del Pacifico dove ha anche costruito un paio di villaggi turistici di lusso. Vede il cinema con sdegno. Accumula disagio e peso. E accetta di fare i suoi pochi minuti di "Apocalypse now" per una cifra esorbitante.
E’l'ultima sua grande interpretazione. Dal profondo della montagna di carne in cui ha nascosto la sua bellezza, accumula parti sempre più assurde, cammei raccapriccianti, ruoli senza senso - e denaro. Un tragico giorno suo figlio Christian uccide il marito della sorella. Cheyenne si impicca. Lui, il difensore delle cause difficili, se ne esce in televisione con una battuta sugli ebrei degna di Haider. Vive solo coi suoi fantasmi in una casa gigantesca. Sopravvive a se stesso. E’veramente l'autunno del patriarca, è veramente "l'orrore" che gridava il colonnello Kurz, è veramente una tragedia americana.
Da La Repubblica, 3 luglio 2004
La prima biancheria promossa da sotto a sopra, da indumento nascosto ad abbigliamento sexy non è stat la sottoveste, né il corsetto. Era fa canotta che fasciava torace e bicipiti (il Marlon Brando in Un trami che si chiama desiderio, girato da Ella Kazan nel 1951. L'alchimia tra canottiera, volto di rara bellezza, broncio, muscoli e grande bravura rubarono un attore al teatro per farne un divo del cinema. Venti anni dopo, arrivò il cappotto di cammello con il bavero rialzato di Ultimo tango a Parigi. In mezzo, c'era stato il cuoio nero con cerniere del Selvaggio, il giubbotto a scacchi di Fronte del Porto, la divisa con profili e bottoni dorati degli Ammutinati del Bounty (giacca e capelli schiariti dal sole saranno copiati pari pari dal capitano Aubrey di Russell Crowe, in Master and Commander). Nel cinema puritano di un'epoca puritana, Marion Brando non aveva solo una faccia ma anche un corpo. Per questo ricordiamo com'era vestito, come si appoggiava alla moto, come teneva le braccia e come saliva le scale, Quando ancora imbruttirsi non era di gran moda, recitò nel Padrino con le guance riempite di kleenex e il mento ombreggiato con il nero fumo. Da qualche anno lo vediamo ingrassato e sformato, in piccole parti pagate moltissimo. Spesso fa inserire nei contratto che reciterà solo seduto. Per questo Robert De Niro, che lo sostituì Angeli-Heat Ascensore per l'inferno, sta tutto il tempo fermo e si limita a scorticare un uovo. Nell'ultimo film, The Score, esibisce una mostruosa vestaglia arabescata, con l'aria di chi ormai può concedersi qualunque cosa.
Agli inizi della carriera, Marion Brando fece sapere in giro di essere nato a Bangkok, figlio di uno zoologo. Più banalmente era nato a Omaha, Nebraska, il 3 aprile del 1024. Il padre fabbricava prodotti chimici, la madre era un'attrice dilettante, il nome esotico veniva da un antenato francese. Frequentò l'Actors'Studio, e fu il primo di quel vivaio a lasciare Broadway per Hollywood. Oggi le tecniche e i riti del gruppo sono noti e ridicolizzano in
mille modi. Allora erano una novità. Recitò nell'Aquila a due teste di Jean Cocteau, rubando la scena a Tallulah Bankhead. Avrebbe dovuto bere il veleno e accasciarsi. Lui riuscì a far durare la scena vari minuti: portandosi le mani allo stomaco, trascinandosi nell'agonia, infrangendo mobili e arredi. Il pubblico scoppiò a ridere. L'attrice lo fece licenziare all'istante. Il personaggio di Stanley Kowalski, che in Un tram che si chiama desiderio l'aristocratica Blanche disprezza a parole e divora con gli occhi,fu messo a punto in teatro). Brando lo recitò tutte le sere per un anno e mezzo. Tra una replica e l'altra, facendo a pugni con gli operai della troupe prt allenamento, si ruppe il taso. Secondo il regista Elia Kazan (uno che di maschi ne capiva, avendo fatto debuttare James Dean e Warren Beattv), la gobbetta fu un dono del cielo: «Con il naso diritto era troppo bello». Quarantamila dollari (del 1950) convinsero l'attore a trasferirsi sul set. Nel primo film (titolo italiano Uomini – Il mio corpo ti appartiene) faceva il reduce in sedia a rotelle. Poiché l'Actors'Studio non è acqua, si preparò al titolo trascorrendo quattro settimane in corsia con i paraplegici. Inizi folgoranti, una decina di anni da star; poi l'etichetta che a Hollywood poteva stroncare una carriera: box-office poison, ovvero “veleno al botteghino“. Lo dissero anche a Katharine Hepburn, Brando era in buona compagnia. Ma lei non fu mai costretta a girare film come Lo contessa di Hong Kong. Sceneggiatura e regia di Charlie Chaplin, che dopo anni di ritiro svizzero intendeva tornare al cinema. Marlon (nella parte di un miliardario) visibilmente soffre, e Sophia Loren (nella parte di una contessa russa senza un rublo) non lo aiuta. Il Padrino, che gli farà vincere il secondo Oscar (rifiutato per solidarietà con la causa pellerossa), arriva quando Brando sta per toccare il fondo. Negli anni no, si era conciato da guru assatanato, con capelli lunghi, pareo, pallino rosso sulla fronte, collanine e braccialetto da caviglia nel sessantottino Candy e il suo pazzo mondo. Aveva guardato Liz Taylor salire le scale nuda e
grassa, in Riflessi in un occhio d'oro. Era stato il rude giardiniere Quint in Improvvisamente un uomo nella notte, tratto dal Giro di Vite di Henry James. Tra un film e l'altro, vive a Thaiti con la moglie Tarita. Per la parte di Vito Corleone deve sottoporsi al più umiliante dei provini. Lo fa, d'accordo con il regista, senza rivelarsi. Francis Ford Coppola mostra le immagini, e i produttori si fregano le mani beati. «Sembra davvero italiano. Ma saprà recitare?«. Alla rivelazione: «Si chiama Marion Brando», qualcuno rischia l'infarto. Gli danno un gatto in mano, da accarezzare. E i mafiosi non saranno mai più gli stessi. Infatti Tony Soprano, nella serie tv, sa a memoria le scena dei tre film, e le ripassa con gli amici facendo il movieoke. Ogni volta che deve prendere una decisione difficile, si chiede: «Che cosa farebbe Don Vito Corleone al posto mio?». Eredi? Difficile trovarne, in uni cinema che dopo di lui (e dopo il rivale Paul Newman) ha pescato dall'Actcor's Studio i brutti ma bravi Dustin Hoffman e Al Pacino. Forse uno c'è, chi accoppia bellezza e bravura. È Mark Ruffalo, il poliziotto baffuto a letto con Meg Ryan nel film fi Jane Campion, In the Cut. Se guardiamo le sue foto, e le mettiamo vicine a quelle di Brando in Viva Zapata!, anche lui con i balli, paiono gemelli.
Da Vanity Fair, 1 aprile 2004
[…] A Parigi sul set di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, 1972, tirava un'aria strana. Brando non avrebbe potuto essere più affascinante: il viso pallido e affinato, i capelli biondo bianchi, gli occhi tristi e consapevoli gli davano un pathos struggente, una nobile innocenza degradata. Parlava dei figli con affètto trepidante di chioccia, il pensiero di loro lo occupava molto più del gran successo del Padrino, il film che dopo anni di e disse lo aveva riportato sulle copertine come il miglior attore americano. Lo preoccupava soprattutto Christian, il primo, figlio di Anna Kashfi e suo, che aveva portato con sé a Parigi: il bambino rifiutava di mangiare, raccontava. Lui non lo costringeva, non insisteva: però gli preparava diversi piattini di cibo disposti sui mobili, e ogni tanto si accorgeva con gioia che il ragazzino aveva assaggiato qualcosa. Lavorava a Ultimo tango a Parigi con qualche disagio: gli attori della sua generazione non abituati al nudo avevano ritegni persino buffi, Bran-do si stringeva nella vestaglia sino all'estremo animo, esigeva che tutti abbandonassero il set, vietava le fotografie, era restio alle ripetizioni. Da tre mesi quasi non mangiava: ingrassato di parecchi chili per il Padrino, aveva dovuto dimagrire molto, ma in fretta, e il digiuno gli dava sfinimenti, languori.
A Parigi si lasciava dirigere da Bertolucci con docilità, gentilezza, fiducia. Del cinema, diceva, gli importava ormai poco. La sua vita e i suoi interessi erano altrove, le cose serie per lui erano altre: la tribù familiare; Tahiti, dove progettava di impiantare un centro di ricerca per l'utilizzazione alimentare del plancton; l'ecologia, la causa degli indiani d'America, la polemica contro l'industria responsabile di genocidio con la produzione di automobili, sigarette, inquinanti. Il cinema serviva solo a fare soldi, era un mestiere, il lato coatto e quindi futile dell'esistenza. Un lavoro da stupidi, diceva. Entri, esci, invochi urlando «Stella! Stella, amore! Stellaaa!», sali in motocicletta, smonti da cavallo, commemori Giulio Cesare, scateni la rivoluzione messicana, rompi il fronte del porto, frusti un'istitutrice inglese: e non sai mai perché, né cosa stai facendo. Ar ecitare son capaci tutti, diceva: si adoperano gli attori soltanto perché sono animali ormai addomesticati, ammaestra-ti, con loro non si corrono rischi di dispersiva emotività o di spontaneità costosa, non si perde tempo. H successo, diceva, è soltanto un'insicura branca del commercio: e fare il cinema significa offrire agli altri la possibilità di manipolarti, di venderti, di monetizzare la tua personalità.
Civetterie: però la sua carriera sarebbe stata da allora saltuaria, fatta di eclissi e riapparizioni, con lunghe pause di silenzio e troppi chili accumulati sul corpo. Pensieri autentici, magari: di chi era il più famoso da almeno vent'anni. da Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan,1951 (aveva già recitato in teatro nel 1947 quel testo di Tennessee Williams).
Nel periodo iniziale di costruzione della grande bravura e fama d'attore, gli elementi che caratterizzano Marion Brando sono tre: bellezza, danza, Actors' Studio. La straordinaria bellezza (lineamenti classici perfetti, leggero strabismo di Venere, bocca assai ben disegnata, spalle, torace e corpo più muscolosi di quanto usasse allora tra gli attori) aveva un tocco esotico derivante dall'origine francese del pathe, il cui cognome Brandeau era stato semplificato (il padre era un attore mancato, la madre un'attrice dilettante del Nebraska), benché il figlio bugiardissimo si sia via via attribuito una nascita a Bangkok, Mindanao, Rangoon, Bombay.
Prima ancora di studiare recitazione, aveva frequentato a NewYork corsi di danza con Katharina Dunham: questo aveva dato al suo modo di muoversi aualcosa di leggero e flessuoso che, sommandosi alla forza fisica, rappresentava una caratteristica speciale. L'incontro con l'Actors' Studio e con il regista Elia Kazan fu fondamentale: il primo attore seguace del Metodo Stanislavski a diventare un divo del cinema suggerì agli spettatori soprattutto giovani le più diverse reazioni (allarme, paura, trasporto) e identificazioni comportamentali (aggressività, freddezza, virilità, rabbia).
Al primo film del 1950, Uomini di Fred Zinnemann, in cui era un reduce della Seconda guerra mondiale immobilizzato sulla sedia a rotelle accanto a Teresa Wright, seguirono soprattutto negli anni Cinquanta grandi successi (Un tram che si chiama desiderio, Il selvaggio, Fronte del porto, Bulli e pupe, Giulio Cesare, I giovani leoni, Pelle di serpente, più tardi Il padrino, L'utimo tango a Parigi ,Apocalypse Now eccetera). Ha quasi sempre avuto rapporti difficili con i suoi registi (per realizzare Gli ammutinati del Bounty ci vollero due registi, Carol Reed, Lewis Milestone, e due anni e mezzo di lavorazione), è ipersensibile (per evitare il contatto delle mani altrui ha imparato a truccarsi da solo, per isolarsi nel silenzio si infila i tappi di cera nelle orecchie, quando comincia a girare tutta la troupe deve voltargli le spalle). Il risvolto negativo della sensibilità sono un temperamento molto instabile e la paura dopo cinquant'anni di cinema, ancora oggi il meraviglioso Marion Brando è terrorizzato dalla macchina da presa.
Da Specchio, 3 aprile 2004
In internei c'è anche la sua calla natale. Al sito www.dominantstai.com. Se vi interessa, dategli un'occhiata. Ha tutti i pianeti in Venere e questo, secondo gli astrologi, spiegherebbe l'improvviso amore sbocciato fra lui e le isole della Polinesia nel 1962, quando girò il Bounty. Marlon e Talbergo di Tetiaroa è tristemente chiuso, dicono le agenzie. C'é una brutta voce che corre in rete: Mlarlon Brando sta male e non ha più una lira. Pesa 100 chili, vive con il sussidio e dorme con Ia bombola ad ossigeno accanto al letto. Speriamo siano leggende: le ennesime. Brando è vissuto nella leggenda, anche perché è sempre stato un tipo ritroso. che concedeva poche interviste. snobbava il prossimo e non raccontava nulla della propria vita. L'unica cosa certa è che Brando ha avuto un sacco di guai familiari e non fa un bel film dal 1979, l'anno di Apocalypse Now. Sua figlia Cheyenne si è suicida-tu e suo figlio Christian è stato accusato di omicidio. Due anni fa una ex cameriera, Maria (Cristina Ruiz, gli ha tutto causa per 100 milioni di dollari sostenendo di essere la madre di tre suoi tigli (ne avrebbe almeno sei illegittimi, oltre ai cinque «ufficiali»). Lui se l'è cavata esibendo in tribunale la dichiarazione dei redditi, dalla quale risultava una pensione da 6.000 dollari al mese integrata da un assegno mensile, della sussistenza sociale, per la somma di 1.856 dollari. E tutti i soldi che ha guadagnato, direte voi? Alimenti alle varie mogli, parcelle di avvocati e dottori, e investimenti sbagliati in quel di Tetiaroa, l'atollo vicino a Tahiti che si era comprato quando era il più grande, il più ricco, il più pagato.
C'è anche un curioso .accanimento nei suoi confronti. Sarà anche un rompiscatole. ma è triste sapere che parte dei suoi guai nasce dal fatto che a Tetiaroa ha aperto un albergo con 13 stanze, dove nessuno poteva passare più di 3 notti. Ora l'hotel è chiuso poiché Brando è assediato da speculatori che vogliono trasformare l'atollo, pressoché disabitato, in un villaggio turistico. Viene da chiedersi: cosa sari peggio, per un atollo? Appartenere in esclusiva a un miliardario eccentrico, o essere invaso da migliaia di turisti americani affamati di cheeseburgers? Bisognerebbe chiederlo alle meduse e alle noci di cocco. Anche in questo, Brando è un attore «larger than life»,, più grande della vita: nella sua parabola sembra riflettersi, come in un ologramma, la storia della nostra civiltà. Ha sempre pensato in grande, ha fatto solo film bellissimi o film orrendi (mai film mediocri), ha avuto grandi successi e grandi fiaschi, ha intrapreso grandi battaglie e ha subito grandi sconfitte, ha fatto grandi gesti (mandò una ragazza pellerossa a ritirare l'Oscar vinto per Il padrino) e grandi gaffes (come quando si è esibito in una tirata contro la violenza sui bambini durante un concerto ai Madison Square Garden... di Michael Jackson, pensate un po'!).
La verità è semplice, persino banale di questi tempi: Marion Brando è uno che fin dai suoi inizi ha lottato contro la Globalizzazione prima ancora che la Globalizzazione nascesse. E come spesso succede ai «disobbedienti», ha fatto la fortuna di coloro ai quali disobbediva: lui e la generazione dell'Actors' Studio (Paul Newman, Montgomery Clift, Elia Kazan, James Dean...), il gruppo di teatranti newyorkesi che hanno rinnovato il cinema americano negli anni ‘50, hanno regalato una seconda giovinezza a quella Hollywood che, da inteLlettuali dell'Est, profondamente disprezzavano. Proprio per questo è difficile dire se Marion Brando è stato il più grande attore della storia. Il fatto è che è stato assai più di un attore. Se dovessimo giudicarlo con il metro «normale», dovremmo dire che è stato spesso troppo istrione, troppo «teatrale», troppo debordante anche in piccoli ruoli. Ma se usciamo dallo «specifico filmico» e guardiamo ai cinema come una fetta, nemmeno tanto importante, della cultura, dell'arte e della vita, dovremo ammettere che nessuno, a parte forse la Garbo, ha avuto il suo carisma; e nessuno -nemmeno la Garbo - è stato altrettanto capace di annusare il mondo intorno a sé, di esporsi per cause giuste o sbagliate o vincenti o perse, di catalizzare l'attenzione anche isolandosi dal consesso civile. Ci sono personaggi «fuori classifica» e Brando è uno di questi. Cassius ClayfMuhammad Alì non è stato il più grande pugile della storia ma è stato il più importante uomo di sport del XX secolo, per motivi che vanno ai di là della tecnica e dei risultati Marion Brando non è il più grande attore cinematografico ma è stato, assieme. a Charlie Chaplin, il più importante uomo di cinema del «secolo breve». Oggi, nel 2004, possiamo anche decidere che Marion Brando non ci serve più. Ma è un problema nostro, non suo. Perché anche il cinema oggi compie 80 anni, e certo non si sente troppo bene.
Da L'Unità, 3 aprile 2004
«Sofia Coppola ha girato Lost in translation in 27 giorni. A suo padre quello stesso tempo bastava appena per svegliare Marlon Brando, e ci riusciva con tre piccole parole: «Key lime pie», cioè la prelibata torta al limone cucinata nelle isole della Florida. Solo così l'ex selvaggio è riapparso sul palco degli Oscar, il 29 febbraio scorso: con una battuta svergognata del presentatore Billy Crystal. Dunque l'America sfotte Brando? Alla vigilia del suo ottantesimo compleanno, che cadrà il tre aprile, è diventato un tale fenomeno da baraccone, che merita un po'di spazio solo per riderci sopra? A parziale scusa del Nuovo Continente, bisogna avvertire in anticipo che gli Stati Uniti non sono mai andati pazzi per le celebrazioni degli anniversari. Guardano al futuro per natura, e soffermarsi sul compleanno di una persona significa dare importanza a quei luoghi comuni che poi diventano limitazioni, come l'arruginito pregiudizio secondo cui uno a ottant'anni sarebbe vecchio. Se Marlon Brando volesse davvero le prime pagine dei giornali, dovrebbe conquistarle con qualcosa proiettato nel presente, tipo l'Henry Fonda di Sul lago dorato. Ma non è roba per lui e forse non gli interessa nemmeno, dopo aver flirtato per anni con L'autunno del patriarca di Garcia Marquez. Finora qualche notizia del suo compleanno è apparsa nelle brevi delle rubriche sui pettegolezzi, mentre qualche sito internet di fans ostinati promette celebrazioni, e magari qualche televisione specializzata in vecchi classici rimanderà in onda Un tram che si chiama desiderio, Fronte del porto, oppure Il padrino e Apocalypse Now, che rimbalzano ancora in parecchi palinsesti. Forse alle fine un grande giornale romperà il silenzio, ma fino a domenica scorsa l'articolo più lungo dedicato a Brando parlava della decadenza di Tetiaroa, il suo paradiso terrestre a venti minuti da Tahiti. Il patriarca non ci vive più e la Air Moorea ha sospeso i voli, perchè lui ha un debito da quasi mezzo milione di dollari in charter non pagati e non ripara la pista d'atterraggio corrosa. L'avvocato David Seeley smentisce che Marlon abbia finito i quattrini, ma comunque lui è tornato a Los Angels da quando la figlia Cheyenne si tolse la vita proprio a Tetiaroa, dopo che il fratello Christian le aveva ammazzato il marito Dag Drollet. O forse era stato il padre? Una vita come un film, insomma, che gli americani faticano a seguire ancora, con tutte le altre celebrità matte a disposizione. Tipo Courtney Love, ad esempio, che si è inventata di essere la nipote di Brando, presunto padre naturale di sua madre Linda Carroll. Dire che gli Usa hanno dimenticato il loro mito, però, sarebbe ingiusto. Forse è solo che hanno sentito già tutto su di lui. L'ultima biografia, intitolata «Marlon Brando» e scritta dal critico del New York Times David Thomson, è uscita l'anno scorso, in un mercato che evidentemente assorbe ancora libri del genere dopo la doppia sfida del 1994, quando proprio l'ex selvaggio firmò la storia della sua vita chiamandola «The songs my mother taught me», per contrastare quella non autorizzata e pruriginosa pubblicata da Peter Manso. Il settimanale «Time», poi, ha inscritto per sempre Brando nella lista delle cento persone più influenti del secolo scorso, insieme a pochissimi attori come Charlie Chaplin. I suoi due Oscar, infatti, rimangono nella storia, compreso quello che rifiutò nel 1972 per Il padrino, mandando invece sul palco l'indiano Sasheen Littlefeather a criticare le ingiustizie commesse dagli americani contro i pellerossa. Proprio Marlon, del resto, ha scritto così nella propria autobiografia: «Io ho sempre considerato la mia vita un affare privato, che non riguardava nessuno oltre la mia famiglia e coloro che amo. Fatta eccezione per le questioni politiche e sociali che hanno suscitato in me il desiderio di parlare, mi sono impegnato molto nel corso della mia esistenza, per il bene dei miei figli e mio, a restare in silenzio». Forse adesso, all'età di ottant'anni, l'America è disposta ad accontentarlo.
Da La Stampa, 1 aprile 2004
Il motivo dell'importanza di Brando è semplice: ha preso d´assalto Hollywood in un momento in cui Hollywood era in crisi e aveva bisogno di lui, e di quelli come lui. A differenza dei divi dell'età dell'oro (i Gable, i Wayne, i Cooper), Brando non nasceva con il cinema: nel ´50, quando interpretò Uomini per la regia di Fred Zinnemann, aveva già un notevole curriculum teatrale ed era il campionissimo del Metodo, la tecnica di recitazione codificata da Stanislavskij e importata in America dall'Actors'Studio di Lee Strasberg. In teatro era già un dio: si «abbassò» al cinema perché al cinema gli dei sono molto più pagati e raggiungono un numero infinitamente maggiore di fedeli.
Solo che lui, e quelli della sua generazione (i Clift, i Newman, i Dean) erano diversi dalle star di una volta: figli della Depressione (Marlon era nato a Omaha, Nebraska, il 3 aprile del 1924), cresciuti nell´America inquieta degli anni ´30, passati giovanissimi nel vortice della guerra, baciati giovani dall'euforia e dalle nuove libertà del dopoguerra, erano ragazzi indipendenti e volitivi. Non si sarebbero prestati al gioco degli studios, non si sarebbero fatti programmare la carriera da qualcuno: avrebbero fatto ciò che volevano, come volevano.
Con Marlon Brando l'attore, a Hollywood, prende il potere. Basta con le estenuanti gavette in ruoli di contorno, basta con i pericolosi lavori da stunt-man, basta con i film fatti in catena di montaggio (anche uno al mese). Comincia l´epoca dei divi che ottengono ruoli da protagonista all´esordio, si fanno strapagare e girano uno-due film all´anno, preparandoli con il tempo e la cura prima riservati ai registi.
Non è certo un caso che subito dopo Uomini, nel 1951, Brando e un altro caratterino al fulmicotone, il regista Elia Kazan, riescano ad imporre alla Warner l´adattamento cinematografico di un classico teatrale, Un tram che si chiama desiderio, che insieme hanno già portato al successo sui palcoscenici di Broadway. Caso più unico che raro, Kazan riesce a fare il film con lo stesso cast della produzione teatrale: oltre a Brando, Vivien Leigh, Kim Hunter e Karl Malden. Caso altrettanto bizzarro, vincono tutti l´Oscar tranne Marlon, che viene solo candidato. È la prima di 8 nominations che sfoceranno in due premi (Fronte del porto 1954, e Il padrino, 1972) e in un rapporto quanto meno controverso con l´Academy che assegna il famoso premio.
Tutte le sue biografie sottolineano con una certa malignità che nel ´72 Brando rifiutò sì il premio, inviando al suo posto una sedicente principessa indiana che pronunciò, ritirando la statuetta, una dura requisitoria sui diritti dei nativi americani; ma due anni prima aveva chiesto all´Academy una nuova copia dell´Oscar vinto nel ´54, visto che aveva perduto l´originale.
Bizze da divo, che gli andavano perdonate. D'altronde è sempre stato un tipo strano, lunatico, paradossale. E la stranezza si è riversata tutta, oltre che nella sua arte, nei suoi matrimoni, nelle sue innumerevoli relazioni, nel triste destino che gli ha portato via diversi dei numerosi figli.
Torniamo ai film. L'inizio della sua carriera è sorprendente. Dopo il dramma di Tennessee Williams, sceglie il ruolo del rivoluzionario messicano Emiliano Zapata e, subito dopo, passa a Shakespeare. Il suo monologo di Antonio nel Giulio Cesare di Mankiewicz è da manuale (memorabile anche il modo in cui lo doppia Emilio Cigoli: ma sulle voci italiane di Brando occorrerebbe un capitolo a parte). Altro giro, altro salto mortale: Il selvaggio, film oggi malamente invecchiato, crea il mito del ribelle in motocicletta e giubbotto di pelle; poi Fronte del porto lo consegna alla leggenda, Desiree lo consacra indistruttibile (interpreta Bonaparte ed è clamorosamente fuori ruolo: il film è talmente brutto che stroncherebbe la carriera di chiunque, ma non la sua), Bulli e pupe lo riscatta alla grande svelando al mondo che, con quella vocetta da cartone animato, sa anche cantare!
In Pelle di serpente - e siamo ormai nel ´59 - tiene testa alla Magnani, e non è da tutti. Poi si ferma due anni, un po´ per colpa dell´unico che poteva metterlo in crisi: si mette a scrivere un western assieme a Stanley Kubrick e lo scontro di ego è talmente ciclopico, che uno dei due deve cedere. Cede Kubrick, che gli regala il progetto (una riscrittura sadico-messicana della storia di Billy the Kid) e se ne va in Inghilterra a girare Lolita; Brando, per ripicca, sostituisce Stanley... con se stesso, firma anche la regia e confeziona I due volti della vendetta, un western stranissimo e feroce nel quale si diverte a farsi frustare a sangue dal vecchio amico Karl Malden. Subito dopo saluta tutti, va a girare il Bounty (il film esce nel ‘62) nei mari del Sud ed è come non tornasse più: compra un atollo, sposa una donna di Tahiti e si reclude nel proprio Mito.
Diteci voi se questa è una carriera all´insegna del «normale» marketing hollywoodiano. Nossignori. E non è nemmeno, credeteci, una carriera nel nome dell´anarchica libertà. Qui è in gioco un marketing ancora più alto e sopraffino, la lucida costruzione di una leggenda: pochi film (alla fine sono una quarantina, e dopo Il padrino quasi tutti ruoli brevi) spesso bizzarri, all´insegna del verdoniano «fàmolo strano», un uso sapiente dell´assenza (è il primo divo uomo a capire, come la Garbo, che il silenzio vale più di mille parole), un geniale stillicidio di notizie spesso in contraddizione fra loro. Persino l´annuncio della morte, venerdì, si è sparso in modo misterioso, prima attraverso il sito internet e di una tv dell´Arizona e poi con riluttanti conferme delle agenzie e delle fonti ufficiali. Verrebbe da pensare che ha diretto anche la propria morte, dopo aver gestito in modo intelligentissimo la propria carriera.
C'eravamo fermati al Bounty, scelta di vita, più che di cinema. È giusto, negli anni successivi, ricordare La caccia di Arthur Penn (1966) in cui tiene a battesimo un possibile erede, il biondo Robert Redford; il perverso Riflessi in un occhio d´oro dove, strano a dirsi, lo doppia Gigi Proietti; le avventure italiane di Queimada, di Gillo Pontecorvo (1969), e di Ultimo tango a Parigi, che ferma il 1972 come anno d´oro: è lo stesso del Padrino, dove gioca a invecchiarsi riempiendosi le guance di kleenex e inventandosi uno strepitoso accento italo-americano (lì lo doppia, in modo superbo, Giuseppe Rinaldi).
Dopo il mitico ´72 bisogna aspettare il ´76 per rivederlo, ancora diretto da Penn, in Missouri, altro stravagante western dove ruba la scena, nei panni di un cacciatore di taglie dedito al travestitismo, al ladro di cavalli Jack Nicholson. Poi, nel ´78, entra nella storia per l´iperbolico compenso ricevuto per Superman (4 milioni di dollari per circa 10 minuti di film). Infine, nel ´79, Apocalypse Now: la voce italiana che mormora per lui «l´orrore, l´orrore» è di Sergio Fantoni, e ci piace chiudere qui, facendo finta che Marlon Brando sia morto come il colonnello Kurtz, ultimo dinosauro sepoltosi nella giungla in attesa di un ufficialetto stronzo che andasse a dargli il colpo di grazia. Dopo quel capolavoro, non c´è stato più nulla così enorme, così esagerato, così colossale. Lui, Marlon, era ancora grande. Ma è il cinema, che è diventato piccolo.
Da L'Unità, 2 luglio 2004
Marlon Brando, il corpo del cinema, il segno della sua tragedia, quella del desiderio di essere realtà, anima della Storia e restare imprigionato nello schermo, ingranaggio della macchina, semplicemente divo. «Avrei voluto fare soltanto film con un alto contenuto sociale e in relazione alle lotte che ho intrapreso» diceva, ma la sua grandezza al di là dei titoli è in quello stato di in-sofferenza, di rabbia contenuta che sprigiona in ogni personaggio. Sempre fuori da sé, oltre i contorni dell'uomo che incantò gli anni Cinquanta, inafferrabile perché in transito tra i sessi, languido macho che provocava il fanatismo come Rodolfo Valentino, quando apparve nel 1952 con la famosa canottiera in Il tram chiamato desiderio, che segna il punto alto del sodalizio con Elia Kazan. Anche nell'andare via Marlon Brando ci ha lasciato incerti - non era la prima volta che arrivano «voci» sulla sua scomparsa - e forse si è fermato a metà del cammino, mortale e immortale. Ieri, a confermare la notizia è stato il suo avvocato da Los Angeles, e il buio è sceso sullo schermo di tutto il mondo. Aveva 80 anni. Era malato e da anni se ne stava recluso nella casa sulle colline di Los Angeles, dove accoglieva ogni tanto qualche caro amico come Bernardo Bertolucci, che aveva rilanciato il suo mito con Ultimo tango a Parigi. Era nato il 3 aprile 1924 a Omaha, Nebraska, figlio di un commerciante e dell'attrice Dorothy Pennebaker.
Il palcoscenico lo accoglie giovanissimo e subito l'incontro fatale con Kazan e con l'Actor's Studio, di cui sarà simbolo e modello, maestro di un altro «ribelle» di quegli anni, il più giovane James Dean (diretto anche lui da Kazan in La valle dell'Eden). Lo Stanley Kowalski di Tennessee Williams irrompe sconvolge prima a teatro e poi al cinema, protagonista di A Streetcar Named Desire, dove conquista la scena nella parte di un violento oggetto del desiderio accanto a Vivien Leigh in un capolgimento erotico insostenibile. Il «metodo Stanislavsky» trionfa nei silenzi di Marlon Brando, nella brusca interruzione del ritmo narrativo, sospensione e svelamento della «rappresentazione».
L'esordio al cinema avviene nel 1950 con Uomini di Fred Zinnemann, dov'è un paraplegico reduce di guerra e già magnetico nella sua bellezza di angelo perverso. Kazan lo dirige ancora in Viva Zapata ('52), Mankievicz lo vuole Giulio Cesare ('53), che nello stesso anno lascia la tonaca per il celebre giubbotto di pelle di Johnny, Il selvaggio di Lazslo Benedek ('53). Icona del nomade inafferabile, in fuga da tutto, arte sull'arte nella famosa serigrafia di Andy Warhol. È anche esuberabnte e comico nella commedia musica Bulli e pupe sempre di Mankiewitz dove canta, commuovente, Sayonara.
Il primo Oscar lo conquista con il regista della sua vita, Elia Kazan, il «traditore» che si rifuterà di premiare con l'Oscar alla carriera perché ha testimoniato davanti ai tribunali maccartisti. Fronte del porto ('54) è il film che gli dà la statuetta d'oro e l'amarezza di un film ideato da Kazan come risposta ai suoi ex amici comunisti, film contro il sindacato, grondante risentimento e rabbia. La sequenza dei piccioni sul terrazzo, tracce di sangue e di morte, che anticipano la drammatica scena del pestaggio, resta indimenticabile come molte delle apparizioni di Brando. Per esempio quella dei Giovani leoni ('58) di Edward Dmytryk, dove veste la divisa di un ufficiale nazista e fa tremare lo spettatore come la tazzina di caffé che tiene in mano alla rivelazione dei campi di sterminio.
La leggenda di Marlon Brando passa di film in film che rilanciano la sua personalità irriducibile come Pelle di serpente (1959) di Sidney Lumet, e il remake Gli Ammutinati del Bounty ('61) di Milestone. I più grandi lo vogliono sul set. Arthur Penn lo dirige in La caccia ('65) per la parte dello sceriffo democratico in una cittadina americana reazionaria e vogliosa di linciaggi. Charlie Chaplin lo sceglie per il suo ultimo film, La contessa di Hong Kong ('65). John Huston ne distilla gli umori più segreti, la nevrosi della potenza-impotenza in Riflessi in un occhio d'oro ('67). Michael Winner ne fa un corruttore di adolescenti in Improvvisamente un uomo nella notte ('71).
Gli anni Settanta sono italiani con Queimada ('70) di Gillo Pontecorvo e soprattutto con l'opera di Bernardo Bertolucci, il film destinato al rogo, lo sconvolgente Ultimo tango a Parigi ('72) che lo riporta in alto tra le stelle. Brando torna ad essere Stanley Kowalski, il corpo della «perdizione», dell'ambiguità sessuale, innocente e maledetto, bellissimo accanto a Maria Schneider. Film della rinascita e della fine, epocale.
Il secondo Oscar lo conquista con le guance imbottite di Kleenex nel Padrino di Francis Ford Coppola ('72), il mafioso patriarca dalla voce roca. E sarà ancora attore in molti pellicole degli ultimi decenni considerate spesso a torto minori o addirittura imbarazzanti (Superman, `78; La formula, '80; Un'arida stagione bianca, `89; Don Juan De Marco, `95, The score, 2001). Tra gli altri, lo straordinario The brave ('97) diretto da Johnny Depp e presentato a Cannes, dove scende in un inferno metaforico, alla ricerca dell'ultimo fotogramma, quello che fotografa la morte.
Ma è Apocalypse Now ('79) di Coppola il grido finale della leggenda, Kurtz il testimone della fine del mondo che la pellicola non può contenere e che corona l'inquietudine di un attore sospeso sempre tra vero e falso, sogno e incubo. Dissolvenza in nero tra la vita e l'aldilà del cinema.
Da Il Manifesto, 3 luglio 2004
E’stato l’attore più grande di tutti ed insieme il più imprevedibile e contraddittorio, pronto a buttarsi via in ruoli assurdi o in film senza storia pur di dare un calcio al cinema, che finì per detestare, e alla propria leggenda. Il massimo del divismo ma anche l’inventore dell’antidivismo, esercitato fino all’estremo limite dell’autodistruttività. Il sex-symbol più incandescente che abbia mai impressionato una pellicola e insieme il più ambiguo, il più “totale”, il primo ad esibire una sensualità così prepotente e assolutamente naturale da scavalcare d’un balzo ogni distinzione di genere (con molto anticipo sulle tante future rockstar che avrebbero fatto di una banale bisessualità la loro bandiera). Non si finiscono mai di fare i conti con Marlon Brando e il primo a non saperli fare forse fu proprio lui. Così dotato di tutto - talento, bellezza, magnetismo, intuito, sensibilità - da riversare in ogni ruolo, anche il più occasionale, i segni di un silenzioso corpo a corpo con se stesso. Con la sua memoria, i suoi fantasmi, il peso di un mito non solo cinematografico e generazionale ma culturale, perché nessun attore dopo di lui ebbe maggior peso e carisma. Anche i capolavori sono concentrati nei primi 10-15 anni, per poi diradarsi in rare impennate ( Il Padrino, Ultimo tango a Parigi) o magari in titanici ruoli da non protagonista come il Kurtz di Apocalypse now (ma qui torna in mente Orson Welles: non importa quanto tempo stai in scena, importa come entri in scena e da quanto tempo ti aspettano). Il primo a capire il suo genio fu Elia Kazan, che lo volle a teatro e poi al cinema nel ruolo del brutale Kowalski in Un tram che si chiama desiderio. Il personaggio e la commedia di Tennessee Williams oggi possono sembrare datati, ma la performance di Brando non ha preso una ruga. Un concentrato di estrema sofisticazione unito ad una crudeltà quasi animale, una scienza infinita dei tempi e dei toni (chi lo ha sempre sentito doppiato non sa nulla del suo celebre e inconfondibile mumbling ), e un’aggressività che sa di istinto e di magnetismo naturale. Avesse fatto solo quel film sarebbe entrato nella storia. Invece Brando ne girò molti altri, e ogni volta sentiva il bisogno di superarsi, di provare a se stesso e al mondo che poteva fare ben altro. Di qui il gusto per i trucchi esasperati, per i personaggi lontani in cui mettere alla prova il celebre Metodo dell’Actors’Studio (il rivoluzionario messicano di Viva Zapata , l’immigrato polacco di Fronte del porto , il giapponese de La casa da tè alla luna d’ag osto, ma volendo anche il don Vito Corleone del Padrino appartiene a questi ruoli). Con qualche predilezione, accentuatasi con l’età, per i personaggi alle prese con il potere, dal Napoleone di Désirée al maggiore texano e razzista di Sayonara ; dallo sceriffo de La caccia , altro grande film, all’ambiguo avventuriero di Queimada . Senza dimenticare l’ufficiale criptogay di Riflessi in un occhio d’oro e l’affettato ribelle degli Ammutinati del Bounty , che fu anche il vero e rovinoso banco di prova del suo strapotere contrattuale. Naturalmente una parabola come quella di Marlon Brando autorizza ogni interpretazione e nulla vieta di leggere l’insieme dei suoi film come una sorta di autobiografia mascherata, ovvero di vedere nella scelta talvolta men che discutibile dei ruoli un modo come un altro per confessarsi in pubblico, per nascondere qualcosa di sé anche nelle occasioni più insignificanti. Ma in questo senso il capolavoro del Brando moderno è e rimane il soccombente cui diede vita nel film che più avrebbe odiato, Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Mai forse un regista si era spinto più in là nel rubare anima e cuore ad un suo attore. Mai interprete e che interprete si era messo più pericolosamente a repentaglio. Una vera prova di coraggio. E, magari suo malgrado, un atto di fede in quel cinema che tanto gli aveva dato e tanto gli aveva tolto.
Da Il Messaggero, 3 luglio 2004
Lo voglio ricordare così: una testa rasata, imponente e sinistra, che appare e scompare tra i fotogrammi, catturata dalla cinepresa visionaria e delirante di Coppola. Un cranio lucido del sudore dei tropici, imprigionato nel delirio sanguinario di una guerra coloniale. Il bagliore magnetico del suo sguardo che sembra trafiggere lo schermo - e, al di là del buio della sala, raggiungerci ovunque siamo. Nel film, noi stiamo cercando lui: ma, in realtà, è lui che sta cercando noi. E ci inchioda alla nostra delusione, alla nostra febbre. Non c’è mai stato nessuno - né mai forse ci sarà - divinamente bello come Marlon Brando e altrettanto divinamente indifferente alla sua bellezza. Mai nessuno dotato di maggior talento e altrettanto sprezzante nei confronti del successo che l'industria cinematografica - di cui pure imparò a sfruttare il potere e il denaro - poteva regalargli. L’attore geniale e virtuosistico capace di essere, con uguale credibilità, Gesù Cristo sul palcoscenico di un teatro d’avanguardia di New York e il reduce di guerra condannato a vita alla sedia a rotelle in Uomini di Fred Zinnemann, il rivoluzionario Emiliano Zapata e l'erotico Marco Antonio di Mankiewicz, l'impotente maggiore Penderton e don Vito Corleone, ci ha offerto la sua sconfitta professionale. Pochi divi del suo valore hanno interpretato fiaschi altrettanto colossali o film altrettanto insulsi come Brando, che sembrava scegliere, e inseguire caparbiamente, i progetti più sbagliati. Alcuni lo ricordano ancora con dolore nei panni di un improbabile Napoleone o travestito da giapponese, in kimono, nella Casa da tè alla luna d'agosto. Ma c'è di più. La bellezza che aveva fatto di lui un'icona (chi non ricorda i jeans e la canottiera del brutale e volgare Stanley Kowalski del Tram, o la giacca di pelle del Selvaggio teppista Johnny o i muscoli del portuale e pugile fallito Terry Malloy di Fronte del porto) Marlon Brando deve averla detestata, poiché metteva in ombra ciò che doveva sembrargli più importante: il lavoro, l'applicazione, le idee (e ne aveva, e le ha difese fino in fondo, o finché ne ha avuto voglia). E’risaputo che Brando detestava Kowalski, il personaggio che lo aveva reso celebre. E contro quella bellezza si è accanito, con ironia distruttrice. Niente trucchi né ritocchi. Il tempo è senza rimedio. L’uomo bello come un dio antico - il dio dei nostri giorni, che lo schermo rende immortale, eternamente giovane - ci ha inflitto la sua decadenza fisica, le rughe, l’adipe, la stazza sempre più mostruosa. Marlon Brando ha voluto essere un uomo, e la lezione che ci lascia è quella della sua - e nostra - desolante mortalità. E allora lo voglio ricordare nel suo film più memorabile, quello nel quale è, in effetti, letteralmente invisibile - un’assenza, un nome, un desiderio. Mister Kurtz. Per tutto il film - sto parlando di Apocalypse now - sentiamo parlare di lui, dobbiamo raggiungerlo, col protagonista Martin Sheen attraversiamo l'orrore della guerra, la distruzione del villaggio vietnamita, le piantagioni, risaliamo il fiume tra gli spari e le insidie. Ma lui, Marlon Brando, risulta irraggiungibile. E quando alla fine appare, in realtà ci sfugge, ci elude, ci irride. Di lui vediamo solo la testa lucida, il cranio che è già leggenda, e allude alla morte che lo aspetta. Da quella foresta in cui si è perduto, non lo riporterà indietro Martin Sheen, perché lui - questo ci è chiaro appena nel film Brando ci appare, o meglio non appare - non fa più parte del nostro mondo. Ci ha lasciato. Il suo nome, e il desiderio di ritrovarlo, sono tutto ciò che resta. Il suo personaggio, Kurtz, era una metafora della guerra, dell’occidente, di noi - ma anche di lui stesso. Così, nel film, Marlon Brando ha lasciato la sua assenza. Sullo schermo, solo l’ombra del suo corpo meraviglioso, divino e così dolorosamente umano - ormai inaccessibile.
Da Il Messaggero, 3 luglio 2004
Tenebroso, animalesco, magnetico, ribelle. Altro non poteva desiderare, nel mondo degli aggettivi, Marlon Brando, soprattutto pensando alla sua innata vocazione teatrale. Innata perché la madre fu attrice filodrammatica, dilettante talentosa, capace di instillare in un paio dei tre figli, Jocelyn e l’inquieto Marlon, la passione della scena. Innata perché sin dalle prime esperienze, fatte all’Accademia militare Shattuck di Faribault, nel Minnesota (da lui chiamata manicomio militare ), seppe innervare di sé le vene e la psicologia del ragazzo anticonformista cui nulla riusciva, fin da allora, a sembrare un Destino. Prima di arrivare in alto, però, fino al talent-scout per eccellenza, il regista di origine greca Elia Kazan, Marlon sarebbe passato per la voglia matta di farsi prete, per il desiderio di incenerire l’adorata madre, purtroppo alcolizzata, per l’aspirazione ad affrancarsi dalla timidezza di cui solo un’eccellente insegnante di teatro, Stella Addler, lo avrebbe liberato. Alla fine, si allogò in casa della sorella Frances, sposata a New York, e riuscì a frequentare il Dramatic Work Shop della New School for Social Research, diretto dal grande regista Erwine Piscator. Si fece subito notare, Marlon. I critici scrissero bene di lui nella Dodicesima notte di William Shakespeare e non smisero di elogiarlo in lavori successivi, diretti dallo stesso Piscator, nei quali interpretò anche difficili ruoli di animale o di creatura fantastica. Così arrivò Broadway, in grande stile. Ebbe, per Brando il volto di una commedia “scandalosa”, I remember Mama , di Kathrin Forbes, capace di rivelare l’infermità, le nevrosi, la violenza implicita del giovane bellissimo attore. Eternamente diviso fra malattia, eccessivo pudore, sfacciataggine estrema e lo spiccato puritanesimo che mai abbandonò in tutta la sua vita, Brando saliva la scala della gloria, gradino dopo gradino. E tutto deflagrò, come un fuoco d’artificio, con la pièce Un tram che si chiama desiderio , di Tennessee Williams. Era il 1947. La commedia del sudista Tennessee, dove Marlon ha lasciato un segno indelebile nel ruolo di Kowalsky, sembrava fatta apposta per lui. Che mandava in bestia le attrici per la malagrazia alternata a seduzione con la quale le trattava. Che parlava con il corpo, fulminava con lo sguardo, autorizzava in silenzio ogni trasgressione semplicemente con un movimento delle spalle. Che guardava con attrazione mista a disprezzo ogni bella creatura attorno a lui. Che si dibatteva, esprimendosi con una fragile voce d’inferno, tra fede e peccato, perfetto discepolo del Metodo, cultore della battuta pronunciata dopo il gesto e viceversa. Da allora in poi fu l’Invidia del cinema, la cupidigia del set nei confronti del torvo attore destinato a Fronte del porto , ancora una volta nel segno di Kazan. Tanto che Brando, nel 1950, si lasciò adescare da Stanley Kramer, con un’offerta di quarantamila dollari, per interpretare Uomini . «Non ho la forza morale - dichiarò - per dire di no di fronte a una somma del genere. Sono stato povero». Fu la sua giustificazione per quella prima incursione nel mondo della celluloide. Assicurò tutti, comunque, che il cambiamento sarebbe stato una situazione temporanea. Avrebbe fatto il cinema soltanto occasionalmente, perché il suo futuro e la sua vita profonda erano comunque nel teatro. A Broadway disse solo arrivederci. Non sapeva e nemmeno immaginava che il distacco sarebbe stato lungo, anzi lunghissimo. Una vera espropriazione. Si lesse su un giornale il seguente titolo: “Marlon del cinema”. Una sentenza.
Da Il Messaggero, 29 giugno 2004
Ma alcune di queste, tre in particolare, hanno cancellato il confine che separa il cinema dal costume e la fiction dalla realtà. C'è l'ex pugile in canottiera di Fronte del porto, il film d'Elia Kazan, che cova un suo segreto dolore da Actor's Studio e intanto alleva piccioni sui tetti di New York, un palmo sotto il cielo azzurro. C'è il capo della ghenga dei motociclisti che s'allunga mollemente, in costume sadomaso, sul bancone del bar ne Il selvaggio di Laszlo Benedek. E c'è poi la maschera dolente, smagata e machiavellica di don Vito Corleone, il boss della mafia di cui tutti vorrebbero essere picciotti, nel primo Padrino di Francis Ford Coppola. In ciascuna di queste locandine, ormai appassite e quasi consumate dal tempo, campeggia la maschera di cera di Marlon Brando, morto ieri a ottant'anni, dopo aver sollevato la bandiera dell'iperrealismo, della rivoluzione sessuale e delle grandi parabole sulla natura del potere negli studios di cartapesta hollywoodiani. Prima di lui quelle del cinema erano tempeste in un bicchier d'acqua. Grazie a lui e al suo cinema venne giù finalmente un vero diluvio. Al cinema propriamente detto, in realtà, Marlon Brando era morto già da molto tempo. Era un pezzo della storia del cinema ma non era più uno dei suoi protagonisti. Si dice che a tarpargli le ali siano state le sue quotazioni astronomiche. Costava troppo perché gli studios potessero permettersi qualcosa di più d'un "cammeo" di Marlon Brando. In realtà alla star di Bulli e pupi, della Casa da tè alla luna d'agosto e di Giulio Cesare doveva importare assai poco del cinema e, senza drammatizzare troppo, anche della propria reputazione cinematografica. Nessuna leggenda cinematografica, del resto, nemmeno la sua, esce incolume da film insensati e pomposi come Ultimo tango a Parigi, per citare solo uno degl'innumerevoli passi falsi in cui inciampò, verso la fine degli anni d'oro, per il colore dei soldi e, soprattutto, per indifferenza e disprezzo del cinema. Ma intanto il cinema moderno, senza di lui, sarebbe del tutto inimmaginabile. Fu lui a lanciare "il metodo" dell'Actor's Studio nella grande giostra hollywoodiana. Fu il primo degli attori a tinte forti, esagerati, sempre caricati come molle, che recitavano tutti nello stesso modo, a spallate e gomitate, e che uno dopo l'altro mimarono sulla scena il dottor Freud e i suoi complessi, le sue isterie, i padri da rinnegare, le mamme da invocare. Paul Newman, che all'inizio era soltanto la sua caricatura, col tempo diventò praticamente il suo sosia: stesse mossettine, stesse smanie, stessi sguardi liquidi e languorosi rivolti alla telecamera, stesso sentimentalismo dolciastro e aggressivo. Ma si vedeva benissimo che Paul Newman stava soltanto recitando una parte. Marlon Brando invece sembrava vero. Anzi più vero del vero. Soltanto uno dei suoi emuli, James Dean, seppe catapultarsi fuori dallo schermo e unirsi con un triplo salto mortale, come lui, alla platea vivente. Ma Brando l'aveva preceduto. Aveva camminato sull'acqua e radunato discepoli molto prima di lui. A volte grasso, a volte magro, un giorno bellissimo, un altro giorno mostruoso e repellente, Marlon Brando non è stato un attore ma un'icona. Non era un divo del cinema, come ce ne sono tanti, generalmente tutti eguali, ma una bandiera culturale e controculturale, come ce ne sono state poche, e raramente convocate alla cerimonia degli Oscar. Marlon Brando era "one of us", uno di noi, ma potenziato e con l'aureola. Era "umano e troppo umano" come l'Übermensch di Nietzsche. In Fronte del porto non si limitò a recitare le battute dell'ex pugile generoso e gentile. Incarnò le idee platoniche stesse della gentilezza e della generosità. Così ne Il selvaggio: con dieci anni d'anticipo sulle grandi manovre degli eserciti di liberazione esistenziale si trasformò nel monumento a cavallo (a cavallo, per la precisione, di un'Harley Davidson) degli anni Sessanta. Idem nel Padrino e più tardi in Apocalypse now: mai il nichilismo del Novecento ebbe una rappresentazione più esatta e più agghiacciante. Da Il Tempo, 3 luglio 2004
Marlon Brando, il leggendario attore che ci ha regalato film come Fronte del porto, Il padrino e Ultimo tango a Parigi e la cui figura è diventata sinonimo di ribellione, di eccentricità e anche di tragedia personale, è morto ieri in un ospedale di Los Angeles per un enfisema polmonare. Aveva ottant'anni e da vari anni, da solo nella sua grande villa a Mulholland Drive, sulle colline di Los Angeles, si trascinava appresso una macchinetta per l'ossigeno. Negli ultimi mesi, però, aveva passato più tempo in ospedale che a casa, vittima di vari problemi fisici esacerbati dall'obesità. Nonostante ciò stava lavorando a un film autobiografico Brando and Brando, il regista franco tunisino Ridha Behi dice: lo finirò in suo onore. «Marlon avrebbe detestato l'idea di gente che corre a dire la sua sulla sua morte e tutto quello che posso dire è che sono triste che se ne è andato», ha dichiarato Francis Ford Coppola. Ha aggiunto James Caan, che nella saga de Il padrino aveva recitato la parte di Sonny, uno dei figli di Brando-Vito Corleone: «Ha influenzato più attori della mia generazione di chiunque altro». Quando si parla di divi del cinema, la parola leggenda viene spesso abusata. Brando è stato davvero legendario, una presenza rivoluzionaria che ha imposto un modello di recitazione che è stato seguito da generazioni di attori, da Paul Newman e Robert De Niro a Leonardo DiCaprio e Johnny Depp. E infatti, a quasi sessant'anni da quando Brando si impose all'attenzione del pubblico recitando con una sensualità e una crudezza senza precedenti la parte di Stanley Kowalsky in Un tram chiamato desiderio e a 25 anni dal suo ultimo film di un certo rilievo, Apocalypse Now, ancora adesso quando emerge un nuovo attore che non segue le convenzioni di Hollywood e che si presenta come un ribelle, il paragone è immediato: è nato un nuovo Marlon Brando, si dice, anche se nessun allievo ha saputo raggiungere la grandezza del maestro. Un attore ammirato e riverito che non ha mai nascosto la sua indifferenza, se non il disprezzo, per il suo mestiere. A volte diceva che recitare era l'espressione di un «impulso nevrotico», altre che se gli studios lo avessero pagato lo stesso denaro per pulire i cessi lui lo avrebbe fatto ben volentieri. «Non c'è altro mestiere che ti paga altrettanto bene mentre non sai che cosa diavolo fare della tua vita», ripeteva. Il Selvaggio, divenne il ribelle, l'iconoclasta, il fuorilegge, l'anti-sociale, contribuendo in questo modo, inconsciamente o forse no, alla sua leggenda. Ma col passare degli anni, Brando è diventato soprattutto una figura tragica. E così è morto, annegato nella solitudine, nei ricordi e nei debiti: 20 milioni di dollari, si dice, al punto che per paura che se lo portassero via i creditori aveva nascosto quell'Oscar per Il padrino che nel 1972 aveva sdegnosamente rifiutato di accettare. Sopraffatto dai problemi finanziari, Brando era stato costretto a vedere anche il suo atollo polinesiano, dove però verranno sparse le sue ceneri. In attesa, in segno di omaggio, tutti i teatri di Broadway, venerdì sera, hanno tenuto le luci spente per un minuto. Da La Stampa, 3 luglio 2004
«La sola cosa che dobbiamo al nostro pubblico è quella di non annoiarlo» aveva detto Marlon Brando in una recente intervista. Negli 80 anni della sua vita, il protagonista di Fronte del porto ne ha viste di tutti i colori. Un padre autoritario e violento che continuava ripetergli che non avrebbe mai combinato niente di buono e una madre alcolizzata che aveva più tempo per le bottiglie che per i figli. Il primo trionfo a soli 23 anni, nel 1947, quando con Un tram chiamato desiderio a Broadway e poi diretto da Elia Kazan elettrizzò il pubblico imponendo un nuovo modello di recitazione e divismo e il rifiuto dell'Oscar, nel ‘72, in segno di protesta per il trattamento degli indiani d'America. Un modello di sensualità e virilità diventato un armadio di oltre 150 chili incapace di resistere a creme e gelati e che camminava trascinadosi dietro un respiratore. Il primo attore a superare la barriera del milione di dollari e che per tre minuti in Superman riuscì a raccoglierne quattro e la morte in povertà, con un debito di venti milioni di dollari e la sopravvivenza quotidiana garantita dalla pensione di attore. Ma una cosa è certa, ed è che in oltre mezzo secolo sotto gli occhi del pubblico, Brando non ha mai annoiato, offrendo una vita fatta di trionfi e sconfitte, di imprevisti e contraddizioni, di amori e divorzi, di una covata di figli legittimi e non e di profonda solitudine. Una vita tragica, che ha raggiunto il suo momento più doloroso quando il figlio Christian uccise l'amante della sorellastra, Cheyenne, che quindi dieci anni fa scelse la via del suicidio. In queste ore, si legge che Brando ha cambiato gli standard del cinema, che è stato il caposcuola di quel «Method acting» che voleva che gli attori non recitassero ma si limitassero a «comportarsi», che fossero crudi, naturalistici e privi di vanità. Il «New York Times» scrive che la storia del cinema andrà divisa in due ere, il pre e il dopo Brando. Ed è tutto vero, assieme con il fatto che nessun altro attore ha avuto così tanti ammiratori generazione dopo generazione. Ma sin dai giorni di Fronte del porto, quando alle quattro in punto, ogni giorno, lasciava il set per andare a condividere i suoi demoni interni con l'analista, Brando è stato soprattutto complesso, difficile, scomodo. E, nonostante innumerevoli mogli, amanti e undici figli riconosciuti, profondamente solo. Dopo avere girato Gli Ammutinati del Bounty, Brando si innamorò della Polinesia e comprò un atollo. Pensava avrebbe costituito una sua comunità, con i figli, gli amici, gli indigeni. Ma anche quello è stato un sogno durato poco, e presto tornò nella sua villa su Mulholland Drive, sopra Beverly Hills, dove aveva come vicini Jack Nicholson e Warren Beatty e dove è morto solo, con la compagnia di una cameriera. È stato qui, nel salotto di questa casa, che il figlio maggiore, Christian, uccise in una serata del maggio ‘90 Dag Drollet, amante della sorella Cheyenne. Christian raccontò alla polizia che voleva solo spaventare Drollet, ma nonostante sette milioni di dollari in avvocati si beccò dieci anni di galera. E la tragedia non fini lì. Cheyenne era incinta, ma il piccolo Tuki, nato con difetti congeniti perché la mamma era drogata, le venne portato via. Cinque anni dopo, in preda a una profonda crisi depresiva, Cheyenne si suicidò, in quello stesso atollo che al padre era sembrato il paradiso in terra. Da allora, Brando ha vissuto in solitudine, ingrassando come se volesse inconsciamente spogliarsi della sua bellezza fisica, comparendo ogni tanto in un film dimenticabile, lasciandosi andare a dichiarazioni provocatorie come quando si lasciò scappare che «Hollywood è posseduta dagli ebrei». L'ultima sua avventura è stata un video di recitazione, che aveva voluto chiamare «Lying for a living». Tradotto, suona come raccontare bugie per sopravvivere. Ma se la sua vita personale è stata segnata da tragedie e contraddizioni, quella professionale verrà ricordata come la vita di un uomo che ha saputo portare la recitazione sulla strada della verità.
Da La Stampa, 3 luglio 2004
S'è spenta un'altra luce sul palcoscenico America e il teatro dei nostri desideri americani si fa un poco più buio. Marlon Brando aveva 80 anni e non era neanche più tanto obeso, dopo la solita lunga malattia, gli sperperi e la inutile degenza in un ospedale di Los Angeles.
Nessuno lo avrebbe più chiamato, dietro le spalle, the Godfather of Bellies, "il Padrino delle Trippe", come lo avevano soprannominato dopo avergli visto consumare sul set due polli interi, mezza cheesecake, un chilo di gelato e poi scappare via nascosto sotto un sombrero per farsi otto salsicciotti con crauti e senape in un fast food aperto tutta la notte. Del suo corpo spropositato era rimasto poco, alla fine, ma del suo talento mostruoso è rimasto tutto quello che vediamo oggi sugli schermi in teatro, anche nel più piccolo degli attori. È rimasto quello che Jack Nicholson riassunse così, in due parole: "Bud - lo chiamavano così da bambino in Nebraska, Bud - ci ha dato freedom, libertà".
L'attore che liberò gli attori dai canoni della recitazione, aveva sciolto molto più che una professione e un'arte. Aveva scosso una nazione, e una cultura, dal torpore perbenistico e frigido degli "Eisenhower Years", quella decade fra i '40 e i '50, nei quali i censori proibivano a Lucille Ball e Desi Arnaz, pur sposati nel copione di Lucy e io e anche nella vita, di dormire in un letto matrimoniale, imponendo lettini gemelli.
La carnalità esibita e prepotente, sfoggiata nel suo primo trionfo teatrale nel Tram chiamato desiderio di Tennessee Williams era talento, mestiere, tecnica imparata alla corte dell'Actors Studio nel culto del naturalismo espressivo teorizzato dal maestro russo Stanislavsky. Ma era, involontariamente, anche un comizio, tanto più vero in quegli anni di political correctness maccarthysta. Un "ribelle", un "Selvaggio", come i suoi contemporanei Jimmy Dean, o Montgomery Clift, che facevano politica con il broncio, si ribellavano con le battute del copione, con il gergo da scaricatori da Fronte del porto, senza davvero una causa.
Ma contro che cosa ti ribelli? Gli chiese un intervistatore. "Whattayagat?", gli rispose lui. Contro qualunque cosa tu dica e tu abbia.
Era nato Marlon Brandeau, nel 1924, con un'impronta di sangue francese arrivato da un padre che disperava di lui, dopo averlo visto esordire nella vita venendo espulso dall'asilo, che non è mica male, poi dal liceo e infine anche dalla Accademia Militare dove il pover'uomo lo aveva iscritto sperando di iniettargli un poco di disciplina. Veniva da quel Mid-West, quelle terre di mezzo americane sempre sballottate tra est e ovest, tra irrequietezza e accettazione, che hanno prodotto le generazioni di uomini e di donne più diverse, da Ronald Reagan a Brando, nello stereotipo, fisico e umano, del mitico "americano medio".
Il padre sarebbe rimasto ancora più sconvolto se avesse potuto leggere la sua unica autobiografia, "Le canzoni che mia madre mi cantò", dove il titolo da sillabario nasconde il suo odio per una donna che trascorreva le sue serate nelle taverne del Nebraska a farsi rimorchiare e lo lasciava solo a casa con una baby sitter diciottenne sulla quale lui, a 4 anni, se dobbiamo credere al racconto, trafficava per scoprire i misteri dell'anatomia femminile.
Precoce, certamente. Fece Tennessee William che aveva trent'anni, negli abiti dell'"untuoso polacco" Stanley Kowalski, come lo chiamava l'autore, che congratulò Brando con un famoso telegramma: "Ora che hai fatto tanto bene l'untuoso polacco sei pronto per il folle danese", per l'Amleto di Shakespeare, che invece non recitò mai.
Precoce e insaziabile, non soltanto di polli e di hot dogs, ma di vita, dunque inevitabilmente di donne, di sesso, di erotismo a 360 gradi, di figli, di terra, di controversie. Offese tutti gli ebrei americani, e i tanti che sono in posizioni di potere a Hollywood, con una oscena tirata antisemita in diretta dalla Cnn. Vinse due Oscar, uno dei quali rifiutò di ritirare, mandando una delle sue donne occasionali, un'indiana, a ritirare, ricevendo i "buuuuuu" dei colleghi in sala. Ebbe tre mogli, quindici figli "che io sappia", disse, tra loro Christian, che ammazzò a rivoltellate il boyfriend della sorella Cheyenne sorpreso con lei su un divano. Si fece dieci anni di carcere. Ora Christian è sepolto nella sabbia dell'atollo del Pacifico accanto a Tahiti che Marlon affittò con un lease di 99 anni accanto alla sorella Cheyenne, suicida.
Precoce, ingordo, fuori scala, insopportabilmente grande agli occhi della folla di mediocri che popolano il mondo dello show business. Ricco e povero. Incassò tre milioni e mezzo di dollari per dieci minuti nella parte di Jor-El in un Superman. Portò ai confini della pazzia Francis Coppola per le sue bizze in Apocalypse Now, dove pretese un milione, per fare il colonnello Kurtz. Ma nel primo Padrino dello stesso Coppola si lasciò serenamente imbottire la mascella di ovatta di cotone e rotolini di carta igienica per assumere il profilo da bulldog di don Vito Corleone, sfoderando la voce in falsetto nello stupendo contrasto con la crudeltà mafiosa.
In uno dei suoi primi provini, da giovane, fu bocciato proprio per la vocetta, "sembra che abbia sempre un rotolo di carta igienica in bocca". Appunto. "Ma chi crede che Il Padrino sia un film sulla Mafia non ha capito niente" disse. "Il Padrino è il ritratto della corporate America, delle grandi multinazionali". Pare sia morto povero Era un rivoluzionario? Magari, come sospettò naturalmente McCarthy diffidente di quel club di attori esagitati e tanto "di sinistra", ispirati dal lavoro di un sovietico e poi plasmato da Elia Kazan, addirittura comunista? Nell'America di Lucy e io, del patriarcato, delle donne senza voglie e senza sesso, delle "sophisticated comedy" alla Fred e Ginger, tra scaloni nei duplex di Park Avenue, quel puzzo di sudore, quel tanfo di angiporto, di olio motore, di letti sfatti che emanava da lui, era assai più che il ribellismo adolescenziale in Porsche di Jimmy Dean, era una seria minaccia ideologica, negli anni 50. La minaccia di un Ultimo Tango in Nebraska, di verità, dunque di corruzione dei "valori".
Ma non è vero. È assurdo leggere in Brando, soprattutto nel Gaugin da fast food arenato in secca su una spiaggia dei Tropuci, ridotto a lavorare in ignobili particine e filmacci, un manifesto ideologico oltre l'immancabile e sentimentale solidarietà con gli Indiani, un must per Hollywood. Il ribellismo era quello del suo talento troppo ingombrante, come quello di un Orson Welles, per il laccato conformismo hollywoodiano, ed è sempre rimasto narcisismo da attore, fino a esplodere nell'incontinenza pantagruelica e a implodere nel triste viaggio verso la notte, nell'ospedale di Los Angeles.
Brando era un attore, e grande, che ha saputo recitare un pezzo di America fino a quel momento invisibile e dimostrare che davvero c'è sempre un'altra America, dietro quella che crediamo di vedere, e non sono necessariamente i think tank né i generali né i grandi colleges o i politici di turno a raccontarcela. Può essere un magnifico gigione, che non sopportava l'asilo infantile di guitti nel quale era costretto a vivere.
Da La Repubblica, 3 luglio 2004
Marlon Brando, che se n'è andato a ottant'anni da solo in un ospedale di Los Angeles, sformato nel corpo e prostrato nello spirito, si porta via l'ultima leggenda di un secolo che aveva affidato al cinema i suoi sogni. Bellissimo e trasgressivo negli anni d'oro, nella vecchiaia obeso e malato al termine di un lungo percorso autodistruttivo, un tempo ricchissimo e poi finito sul lastrico, l'attore rimarrà per sempre il divo per eccellenza. E'stato l'idolo di generazioni, il simbolo della seduzione ma anche della sregolatezza, massima espressione di talento e al tempo stesso campione di eccessi. La sua vita risulta costellata di successi e tragedie, dai trionfi nel cinema fino al suicidio della figlia Cheyenne. L'attore ha collezionato riconoscimenti e dissipatezze, passioni e rancori, amori etero e omosessuali e un numero imprecisato di figli (undici accertati, ma c'è chi parla di quindici), due Oscar e la ricchezza. Ha posseduto un'isola polinesiana, Tetiaroa, e sei delle sue amanti si sono uccise. Ha reso immortale il metodo di recitazione basato sull'immedesimazione nel personaggio, ma negli ultimi anni della sua carriera è stato capace, per soldi, di accettare perfino filmacci e ruoli indecorosi. O di prestarsi, per le stesse ragioni, a interpretare spot pubblicitari. Brando resterà nella leggenda perché è stato un gigante anche nelle contraddizioni. E non lascia eredi sebbene periodicamente quanto incongruamente il suo nome venga accostato a quello di attori “arrabbiati”, tenebrosi o ribelli, da Sean Penn a Johnny Depp, da James Dean a Leonardo Di Caprio. Nell'era dei miti “fast food” creati dalla televisione, e mentre il mondo intero rinuncia a sognare, è impossibile replicare la parabola umana e artistica di un personaggio che è stato un prototipo. Tutto, nella lunga e tumultuosa esistenza di Marlon, ha avuto i contorni delle tragedie classiche e la dimensione epica delle grandi storie americane nelle quali «non è previsto il secondo atto». Brando era nato il 3 aprile del 1924 a Omaha, nel Nebraska. Padre commerciante bacchettone, madre attrice di secondo piano, depressa, dedita all'alcool e all'adulterio: non appaiono rosee le prospettive del futuro divo che si arruola nell'Accademia militare di Shattuck ma viene presto espulso per cattiva condotta. Approdato a New York, Brando intraprende una nuova vita sotto il segno della trasgressione che diventerà per lui una seconda pelle, la garanzia stessa della sua leggenda. Stella Adler, la celebre insegnante di recitazione, gli fa scoprire il mestiere ma ne diventa anche l'amante matura e dissoluta. Sono gli anni in cui l'attore vive alla giornata, abbandonandosi all'istinto: uomini e donne si avvicendano nel suo letto, le notti brave non hanno mai fine, mentre i successi si moltiplicano e la fama di divo maledetto si consolida: «In quei tempi», confiderà Marlon nell'autobiografia, scritta nel '94 per un compenso miliardario, «vivevo in uno stato di erezione perenne». L'attore è rimasto nascosto agli occhi del mondo fino alla fine. Gli ultimi mesi li ha trascorsi da solo, nella villa sulle colline di Santa Monica, attaccato in permanenza alla bombola di ossigeno e, raccontano a Hollywood, concentrato sull'organizzazione maniacale del proprio funerale. Aveva accettato, dicono ancora, di tornare al cinema diretto da un regista esordiente. Era finanziariamente rovinato. Gli ultimi dollari li aveva spesi per pagare i diciassette avvocati che dieci anni fa salvarono suo figlio Christian dalla sedia elettrica. Tragedia nella tragedia: il ragazzo era accusato di aver ucciso l'amante della sorella Cheyenne, che nel '95 si sarebbe impiccata accusando il padre di aver commissionato l'omicidio. Da allora in poi, il mondo si sentì autorizzato a parlare della “maledizione dei Brando”. Tante donne amarono Marlon (qualcuno ha incluso nella lista anche Jackie Kennedy), ma nessuna gli è rimasta vicina. L'ultima, una governante messicana, gli ha fatto causa due anni fa per cento milioni di dollari, sostenendo di essere la madre di due suoi figli. Egocentrico e consapevole del proprio mito, l'attore rimarrà nella storia anche per le litigate con i registi, come Gillo Pontecorvo che lo diresse in Queimada. Bernardo Bertolucci, che nel '72 lo sottrasse all'esilio volontario chiamandolo a interpretare Ultimo tango a Parigi , lo venerava. Ma all'epoca di The score , il vecchio divo si presentava sul set senza mutande per evitare inquadrature della sua obesità. In una vita esagerata come quella di Marlon, innumerevoli sono gli aneddoti, gli exploit, i colpi di teatro. Nel '72, in segno di solidarietà con i pellerossa, l'attore non ritira l'Oscar vinto con Il padrino. Nel '99 si rifiuta di consegnarlo a Elia Kazan, «spia del maccartismo». Attacca gli ebrei per il loro potere a Hollywood. A un concerto di Michael Jackson si fa fischiare per aver pronunciato un pistolotto contro gli abusi sui minori. Ogni volta che appare, parla, si schiera, il mondo reagisce, si sorprende, critica, contrattacca. E riconosce che, nel bene e nel male, tra successi e contraddizioni, Brando è una leggenda, una figura grandiosa e tragica del secolo che grazie al cinema e ai suoi idoli ha imparato a sognare.
Da Il Messaggero, 3 luglio 2004
A volte nel cinema l'émpito autobiografico può giocare brutti scherzi. L'amore di Màrja, ad esempio, sconta un'eccessiva voglia di comunicare - quasi utilizzando il film come veicolo terapeutico - conflitti irrisolti e sensazioni sepolte dell'autrice Anne Riitta Ciccone. Di padre italiano e madre scandinava, la regista racconta con una, a tratti fastidiosa, superfetazione narrativa la vicenda della finlandese Màrja sposata con il siciliano Fortunato da quando giovanissima diventò madre, alla maturità. La bella bionda nordica si vede costretta per motivi economici a seguire il bruno mediterraneo compagno (Vincenzo Peluso) nel suo paese d'origine con le due figlie, le piccole Alicia e Sonia. Siamo nei primi anni '70 e la donna e le bambine avvertono presto il gap socioculturale tra due realtà distanti anni luce. La famiglia siculo-finnica cresce in un clima di ostilità claustrofobico e oppressivo in stridente contrasto con quello atmosferico meraviglioso del paese marino assolato e seducente. Con un marito assente (Fortunato trova un buon lavoro all'estero), l'ex hippie Màrja diventa nervosa, ipocondriaca e nostalgica del suo paese e deve ricorrere alle cure di uno psichiatra, mentre la figlia più grande Alice abbandonato il mondo delle favole, picchia un compagno di scuola, protegge la sorellina e porta avanti la casa. Piuttosto che metabolizzare il cinema degli anni '70, la Ciccone sovraccarica il dramma di piccole tragedie e non riesce a dare corpo all'interfaccia esistenziale di due mondi incompatibili. Da Il Mattino, 3 aprile 2004
Nella sera dei 27 marzo dei 1973, quando alla cerimonia degli Oscar fu annunciato il nome del vincitore maschile, tutta la Hollywood che conta scoppiò in un lungo applauso: Marion Brando, già vincitore a trent'anni (nel 1954) per Fronte del porto, considerato uno degli attori chiave della generazione dei dopoguerra, ma intemperante, polemico e rompiscatole, più interessato ai movimenti dei diritti civili che alla carriera, già abbastanza ricco e star da potersi fare i fatti suoi, era tramontato per Hollywood da almeno una decina d'anni.
Film sbagliati, film minori, lavori d'autore europei, scarsissima simpatia per le interviste, riserbo assoluto sulla sua vita privata, le mogli, i figli, l'isola tahitiana che si era comprato ai tempi del Bounty. Ma nel 1972, a quasi cinquant'anni, due grandi ruoli l'avevano riportato al centro della scena: l'attempato loser di Ultimo tango a Parigi di Berlolucci e il ferreo patriarca del Padrino di Coppola. L'Oscar era atteso, e fu proprio per don Vito Corleone che gli fu attribuito. Quella notte si trattava quasi di un “bentornato a casa”. Ma Brando non intendeva smentire il suo personaggio scontroso, e l'applauso si smorzò quando, al suo posto, salì sul palco una giovane Apache, Shasheen Little feather, membro del comitato per la riabilitazione degli indiani d'America, che a nome di Brando rifiutò l'Oscar per protestare contro la rappresentazione degli indiani offerta da Hollywood. Quanto a lui non poteva essere presente perché stava andando a Wounded Knee a sostenere la protesta dei Sioux Oglala contro la discriminazione razziale.
L'episodio dà la misura di un personaggio che è stato, nella vita privata e in quella artistica, sopra le righe e schivo, insofferente e invadente, “corpulento” come il suo fisico (già incontrollabile à vent'anni, quando fece il biker fasciato in jeans e chiodo) e misterioso come il Kurtz di Apocalypse. Marlon Brando, nel bene e nel male, nei capolavori e nei tanti film mediocri che ha fatto per scopi “alimentari“, nel buco nero e inquieto dei suoi giovani eroi e nell'ironia dei suoi vecchi istrioni, è stato la nuova giovinezza del cinema, l'intelligenza, il sesso, la rabbia, che irrompevano sullo schermo, e che non si sarebbero acquietati nemmeno con la vecchiaia. Occhi disarmanti e bocca aggressiva, ha insegnato al cinema che la testa può controllare il fisico e condürlo a un'efficacia esplosiva. Irripetibile, da Marlon Brando non si torna indietro.
Da Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2004
Di 41 film, forse solo cinque si salvano per qualità, e rimarranno. Sembrerebbe un bilancio disastroso, e invece questa è l'arida aritmetica di una delle più gloriose e influenti carriere d'attore che, teatro prima - i tre anni magici dal 1944 aI 1941 - e cinema poi, ricordino. MarlonBrando con cinque interpretazioni, tre di fresca, giovanile, geniale invenzione - (lu tram chiamato desiderio, Fronte del porto e i/selvaggio - e due di sublime e altissimo manierismo-I/Padrino i e Ultimo tango a Parigi -ha cambiato la nostra idea dell'attore e di che cosa debba essere recitazione al cinema. In questi giorni, con la minuta, quasi maniacale attenzione concessa dalla visione di un dvd sul computer - studiando i film sequenza per sequenza, usando del fermo immagine, della visione a ritroso etc. smontando in sezioni minute quella grandissima arte, sono andato alla ricerca del suo segreto. Sì, method acting, certo. Stanislavskij applicato a un'idea americana di naturalismo, tutto quel che è stato sempre detto. Ma è poi vero?
La prima impressione, enorme, èl a coordinazione assoluta tra linguaggio parlato - e qui a molti spettatori italiani è mancata la voce di Brando: quella voce da tenore chiaro, da adolescente sofferto, appena un i5o' velata scempiata nel doppiaggio da una voce da ragioniere romano e linguaggio del corpo. Per fare un esempio, era un genio nella recitazione di spalle; sottraendo allo spettatore quella sua magnifica faccia, nel moto, nella tensione muscolare dei corpo parlava intere poesie e poemi. Era un genio nel creare la caratterizzazione dei personaggio attraverso una partitura di gesti minimi, si direbbe. più raccolti per osservazione dalla vita e poi stilizzati quasi in danza, che vissuti empaticamente attraverso l'immedesimazione dei method. In Fronte del porto, l'uomo cade dal tetto: il commento gestuale di Terry Malloy è elementare e tremendo: si sfrega il naso che glicola col dorso della mano. E quel con- tinuo moto d'occhi, dall'uno all'altro dei boss, a dipingere il rapporto di subordinazione fondata sulla paura che ha con loro. Era un genio nel creare un linguaggio diversivo e parallelo con l'uso degli oggetti che ha attorno - genio che Eleonora Duse lodava in Sarah Bernhardt. Sempre in Fronte del porto, conversazione in un parco con Eva Marie Saint: la ragazza ha in mano un paio di guantini di lima; gliene vade uno; Malloy lo raccoglie e comincia a giocarci; ne strappa i pelucchi, prilla le palline di lana, poi. quando scatta l'attrazione tra i due, Marlon lentamente se Io infila. Eros, amore, timidezza, paura, tutto è in quella minuscola danza col guanto. Kazan gli avrà detto soltanto di raccoglierlo, ma il poema del guanto è tutto suo.
Si è detto che con Brando l'uomo-massa è apparso per la prima volta sullo schermo, e poi, da allora, con i De Nito, i Nicholson, i Johnny Depp, ci è rimasto. Vero, ma nessuno di questi ha mai toccato un potere di stilizzazione così alto: i suoi uomini-massa erano eleganti e astratti geroglifici, e per questo così veri. Tennessee Williams per anni ha tentato di incoraggiare Brando a impersonate, a teatro e sullo schermo, Amleto Non ci è riuscito. Anche perché Brando, come capita soltanto ai già tantissimi attori, si è a poco a poco stufato del mestiere - i cani, ahimè persistono. E questo è forse il lutto più grande - aveva tutto per essere l'Amleto del secolo. Good night sweet prince.
Da Diario, 9 luglio 2004
Il suo fascino spirava da un dubbio. Indossava ancora la maschera o se l'era sfilata in un momento di distrazione generale? Quando, era vero? E lo stesso dubbio descritto, con un'altra metafora, da Truman Capote: «Era come se la testa di ori estraneo fosse stata attaccata al corpo del ginnasta, come in certi fotomontaggi». In questo modo, Brando costringeva interlocutori e spettatori a cercare dietro a ciò che lui sceglieva di mostrare. La strategia di aggiramento messa in arto da Capote fu molto precisa, «Il piccolo bastardo ha passato metà della nottata a parlare dei suoi guai», commentò Brando, anni dopo. «Pensai che fosse educato raccontargliene qualcuno dei miei… Se potessi lo ucciderei frustandolo con uno spaghetto bagnato», I guai che Marlon aveva rivelato riguardavano soprattutto sua madre: «Mia madre andò in pezzi come un oggetto di porcellana» Un copione che avrebbbe ripetuto nel 1971, improvvisando un monologo in Ultimo tango a Parigi. Poi, nel 1994, nella sua autobiografia Songs my mother taught me «Quando mia madre beveva, il suo alito aveva una dolcezza che nessuna parola del vocabolario potrebbe descrivere, Era uno strano connubio: la dolcezza del suo alito e il mio odio perché beveva... Da graride, di tanto in tanto, mi è capitato di trovarmi con donne il cui alito aveva la stessa dolcezza che ancora non riesco a definire. Quell'odore mi ha sempre eccitato sessualmente».
Era quella la confessione che Brando desiderava e odiava rendere, Non la perdonò neppure a Bernardo Bertolucci. Quando si videro per l'ultima volta, nel 1994, il regista di Ultimo tango gli chiese «se davvero si fosse arrabbiato con me perché lo avevo condotto a rivelare troppo. Si mise a ridere, e disse: «Credi davvero che quello fossi io?' » Quando, era vero?
Dopo Desiré, un bruttissimo film del 1954 in cui era Napoleone, insultò il concetto di maschera trasformandolo in un affare da truccatori: «Ho lasciato che al mio posto recitasse il makeup» Per valutare ogni nuovo regista, il primo giorno, recitava una volta sola. Se il regista sceglieva il ciak sbagliato per tutto il film avrebbe diretto soltanto la sua faccia. Commenta Bertolucci: «Si vede che io ho avuto fortuna. Con me Brando è stato esemplare Ricordo che poco prima di iniziare le riprese incontrai Gillo Pontecorvo che lo aveva diretto nel 1969 in Queimada. Mi disse: «Non prenderlo. È un pazzo. Io andavo sul set armato sperando che mi desse una ragione per sparargli». Declinare la maschera fino alla sparizione. Era questa la sua arte. Questo il suo fascino. «La sua grandezza», ritiene Bertolucci, «sta anche nel fatto che dopo Ultimo tango è stato ben attento ad accertare soltanto parodie o grandi maschere come Kurtz in Apooalipse Now, Secondo lui quel personaggio non dove'va neppure apparire. Francis Ford Coppola, pensando al compenso, lo convinse a mostrare qualcosa».
La superficie, scrisse qualcuno, è il posto migliore dove nascondere le cose. Recitare, per Marlon Brando, è stata una strategia per proteggersi dal rischio di essere violato. Mostrare il suo sguardo, il torace muscoloso, il corpo sempre più debordante fu un tranello per eludere gli sguardi degli altri, attirandoli su di sé. Recitare come diversivo. In una lettera la sorella Jocelyn lo capisce: «In te la recitazione diventa un ottimo posto dove nascondersi».
Un modo per celebrarlo, e per rispettare il suo carattere elusivo, è elencare, sommariamente, i filmi che avrebbe potuto abitare e che, per un motivo o per l'altro, non girò mai, Avrebbe dovuto recitare al fianco di Ingrid Bergman, in Senso di Luchino Visconti, ma la produzione gli preferì il modesto Frey Granget. Avrebbe dovuto essere al fianco di Paul Newman in Butch Cassidy, nel ruolo che sarebbe stato di Robert Redford. L'assassinio di Martin Luther King gli fece scegliere di dedicarsi ai diritti umani . Avrebbe potuto essere Lawrence d'Arabia e l'istruttore dell'Ultimo imperatore, parti che ebbero gli occhi azzurri di Peter O'Toole. Per il primo film della Pennebacker, la casa di produzione a cui aveva dato il cognome di sua madre, aveva scelto Stanley Kubrick, Il primo script era di un giovanissimo Sani Peckimpah. Dopo 27 settimane di liti si lasciarono. Kubrick ci consolò girando Lolita. Brando diresse il suo unico, stranissimo e bellissimo film One eyed Jack, una produzione suicida.
È rimasto aggrappato a una maschera per tutta la vita, ci lascia in eredità il dubbio di non averne mai avute.
Da Diario, 9 luglio 2004
Muore con Marlon Brando il Novecento che abbiamo conosciuto, aperto dal lampo di Hiroshima nel 1945, chiuso dal lampo del World Trade Center a New York nel 2001. La vita di Marlon Brando è durata ottant'anni, ma la carriera premiata con due Oscar ha illustrato la sensualità, la disperazione, le utopie e i rovesci di cinquanta anni tra desiderio e orrore. Un tram che si chiama desiderio e Apocalypse Now, i due film ai capi dell'arte di Brando, hanno lo stesso tema, la società che schiaccia l'individuo, lo aliena, ne massacra pulsioni e istinti. Il singolo però non scende nel gorgo muto, come temeva Cesare Pavese. Si ribella, si rivolta, come predicava Albert Camus. A tutti coloro che hanno avuto la forza di ribellarsi ai gorghi del conformismo e ribadire la propria originalità, Brando offre la sua maschera. Il ghigno, il silenzio, le righe del copione mormorate e non pronunciate, come a vergognarsi dell'arte di recitare. «Fare l'attore - disse in una rara intervista al New Yorker in cui non se la prese con il reporter ma accettò il dialogo - è l'arte più sopravvalutata. Ognuno di noi recita, ogni giorno, quando vuole qualcosa, e prova ad ottenerla parlando». E'vero, ma Brando aveva la forza di assumere sul suo corpaccione, che la mano del tempo aveva deformato dal fascinoso giovane in maglietta bianca e blue jeans al vecchio calvo e obeso, tutti i tentativi di seduzione, compromesso, corruzione, preghiera, solitudine e silenzio che ognuno di noi conosce un giorno nella vita. Era il corpo del Novecento chiuso nella Guerra Fredda. Voleva dimostrare che non tutto si esauriva nel fronteggiarsi nucleare di nemici, che l'orrore, la cui ubiquità aveva narrato chiudendo Apocalypse Now con le righe di Conrad da «Cuore di tenebre», non è esito senza scampo. La criminalità sanguinosa del Padrino, la naturalezza di Stanley Kowalski del Tram chiamato desiderio fino all'erotismo ossessivo di Ultimo tango a Parigi, capolavoro di Bernardo Bertolucci: in ogni parte Marlon Brando recita un capitolo diverso della stessa epopea. Non era un bravo attore, ma il più bravo degli attori. Quello che tutti gli altri hanno imitato, non per piaggeria, ma come gli artigiani rifacevano i modi nobili di Michelangelo e i vezzi di Bernini. Da Paul Newman a Leonardo Di Caprio, Brando è stato il maestro di tutti. Oggi leggerete nei necrologi di ricordi del metodo Stanislavsky, dell'Actors'Studio con Lee Strasberg. Verissimo, Brando attinse a quelle scuole. Solo però per corroborare la sua personalità e il suo metodo privato. Far vedere come l'uomo solitario si batte con il potere, le vittorie effimere, la frustrazione perenne che ne risulta. Brando conobbe nella vita la tragedia, il figlio coinvolto nella morte di un amico della figlia, drammi familiari, un patrimonio a rischio. Accettò parti che i critici ricordano con sdegno, ma che lui prese come croci leggere, che non richiedevano davvero un sacrificio. Erano danni alla sua reputazione da attore, sporcavano la voce che le enciclopedie dedicheranno alla sua vita. Non intaccano il corpus che Brando andava delineando. Un'opera nitida, manuale di resistenza contro l'omologazione. Dal Fronte del porto al Vietnam di Coppola, gli eroi perduti di Brando trovano, come Sisifo, la loro identità non nell'esito della battaglia, vinta o perduta, ma nell'accettare di combatterla. Alla nascita del Novecento ideologico, nella grande tela Guernica di Pablo Picasso, sta quella spada spezzata del guerriero spagnolo vinto, al vertice in basso del quadro. Ogni volta che Brando è apparso davanti a una cinepresa non per raccattare il soldo di giornata, ma per recitare, quella spada è stata impugnata ancora, ancora ha combattuto e ancora s'è spezzata nel suo sorriso infelice - Tornate a quella cinica frase, che sembra tratta dal grande Luigi Pirandello: «Non è fatica recitare, tutti noi lo facciamo ogni giorno». Disprezzando l'arte, Brando l'affermava. Perché la sua vita era il personaggio, il cuore lacerato dell'esistenza. Solo Orson Welles ebbe la sua coerenza e la sua dialettica nel recitare, mutare ruolo e confermarsi persona. Welles però tenne fermo il sorriso, un ghigno che poteva essere diabolico, ma che forse dissimulava una speranza. Non Brando: a Brando si addiceva l'aggettivo di «virile», perché non dava alternative, vivere la propria condizione senza scarti, essere se stessi senza lasciarsi modificare dalla realtà. Sopraffare sì, dall'assurdo intorno a se, ma senza rinunciar alla propria umanità. Il conformismo che la sicurezza richiede, ieri con l'America nucleare di Eisenhower oggi con la lotta al terrorismo di George W. Bush veniva alle mani con la virilità di Brando e con la forza dei suoi personaggi. La Parigi a tinte violente che Bertolucci costruisce per lui e la ninfa Maria Schneider, è l'ultimo campo di battaglia della resistenza all'ordine del caos. Il regista italiano propone, in chiusura dell'esplosione anni Sessanta, uno scontro risolutiva tra Eros e Tanatos, amore e morte. L'ossessione erotica può guarire dall'assurdità di un Occidente dove i ruoli sono ormai scanditi per tutti? L'esito stesso del film mostra la verità che ogni lettore di Casanova e ogni ascoltatore di Don Giovanni conosce: non c'è salvezza nell'Eros, ma una brevissima, bruciante felicità, identità che altrimenti non si ottiene. Brando assunse su di sé il peso di far da coscienza al pubblico, di non coltivarne vizi e passioni, ma di richiamarlo sempre a uno sforzo di maturazione. Vanitoso denunciava con una smorfia il narcisismo. Egoista mostrava con un brontolio la povertà dell'egoismo. Solitario implorava con i silenzi solidarietà. Se ne è andato, ha chiuso il guardaroba con le t-shirt, i jeans a borchie, le robe del Selvaggio, il doppiopetto e le camicie del Padrino, il paletot cammello dell'Ultimo Tango. Il novecento è finito, e nel XXI secolo non c'è nessuno che ci incoraggi con un ghigno, incalzandoci verso un futuro drammatico, illudendoci giorno dopo giorno che «come se l'è cavata Brando sullo schermo me la caverò io oggi nella vita».
Da Il Corriere della Sera, 3 luglio 2004
Un giorno, una bella, dolce giornata di sole come ci sono solo a Roma, ero sul terrazzino della mia casa, e improvvisamente c'è stato in cortile un gran trambusto. Bernardo Bertolucci, mio vicino di casa, stava girando il suo glorioso Ultimo tango a Parigi e riceveva spesso, molto spesso Maria Schneider, con quel suo charme che le attirava attenzione, e anche qualcosa di più, sempre con una gran folla che cercava di avvicinarla. Ho pensato che fosse Maria Schneider, ma poi avevo capito che c'era qualcosa di diverso, e mi ero affacciata dal mio terrazzino fiorito, sul profumo del cortile fiorito, già gremito delle mie fiorite, bellissime vicine di casa. E mentre guardavo tutto quel chiasso, eccolo lì, nel mezzo del cortile, imbronciato come sempre, fascinoso come sempre, pericoloso come sempre; eccolo lì il Marlon Brando supermaliardo, che ancora una volta non sembrava vero. L'idea che fosse venuto a trovare il suo regista lo rendeva vero; ma con lui, tra i fiori e i profumi di quel cortile, s'erano raccolti i nostri sogni, la nostra incredulità per una civetteria che rendeva leggendario un ragazzo nato qualunque, la nostra incantata ammirazione per il personaggio di se stesso che aveva inventato prima di tutti quelli recitati sullo schermo. Chissà perché quando è passato davanti al mio cortile ha alzato lo sguardo; così mi ha visto lì a guardarlo, e ha capito tutto, si è fermato perché scendessi. Naturalmente i suoi accompagnatori non me lo hanno permesso. Ma oggi a pensarlo bloccato su una sedia a rotelle con i suoi spietati 160 chili mi ha restituito quello sguardo di invito, gentile, fascinoso, ignaro di arroganza o di violenza, consapevole solo della libertà per cui si era battuto tutta la vita. Forse la libertà l'ha finalmente raggiunta, aiutato da Cristo, Buddha, Maometto, Krishna, tutti gli dei, per ringraziarlo di quello che ha fatto per il Pianeta con la sua onestà e il suo esempio.
Da Il Corriere della Sera, 3 luglio 2004
Omaha è una città piccola, perduta negli spazi immensi del Nebraska. Arrivava da lì Marlon Brando, dalla terra delle praterie e dei Sioux, dove nasce il 3 aprile 1924. Sua madre Dorothy Pennebaker è un attrice che non diventerà famosa, suo padre è un commesso viaggiatore dal carattere duro. Lui prova con la carriera militare, ma insofferente alle gerarchie, viene espulso dall'Accademia del Minnesota. Negli anni `40, sulle orme della sorella Jocelyn, tenta la strada del palcoscenico a New York, dove debutta nel 1944. Tre anni più tardi, è già trionfo: il suo Stanley Kowalski, ruvido protagonista di Un tram chiamato desiderio di Tennessee Williams, fa impazzire Broadway. Nel 1950 gli si aprono le porte dell'Actor's studio di Lee Strasberg, dove Brando incontra Elia Kazan e il «metodo Stanislavsky». L'esordio al cinema è con Uomini di Fred Zinnemann (1950), nel quale interpreta un reduce di guerra paraplegico. L'anno dopo, è di nuovo Kowalski per la versione cinematografica di Un tram chiamato desiderio di Kazan. Ancora ribelle, ancora irresistibile, nel `53 è Il selvaggio per Laszlo Benedek, simbolo in giubbotto di pelle di una generazione di disillusi. Nel `54 - dopo quattro nomination consecutive- bicipiti, canottiera e una straordinaria interpretazione gli valgono l'Oscar da protagonista ( e il premio come miglior attore a Cannes) per il ruolo di Terry Malloy in Fronte del porto di Elia Kazan. Negli anni `60 si consolida l'icona di Brando divo dal carattere difficile: sono gli anni di Gli Ammutinati del Bounty (1962) durante le cui riprese Brando (reduce da due divorzi - Anna Kashfi, sua moglie dal 1957 al `59 e Movita Castenada, dal `60 al `62 - e dal suicidio di una ex fidanzata, Pina Pellicier, nel 1961) s'innamora della terza moglie Tarita Teriipia, gli anni delle liti furibonde con Pontecorvo sul set di Queimada (1969), ma anche gli anni della sua prima, e unica, regia, I due volti della vendetta, di cui Brando è anche protagonista, nella parte di ex bandito in cerca di vendetta. Nel `72 Brando «incontra» Vito Corleone, un personaggio - il capofamiglia della stirpe mafiosa del Il padrino di Francis Ford Coppola - che l'attore, ingrassato, invecchiato e con la bocca piena di kleenex, si cuce addosso con una prestazione da Oscar. Ma Brando non lo ritirerà, mandando al suo posto, per protesta contro il governo americano, una giovane Sioux. Quel 1972 - in cui Brando sarà anche sensuale e inafferabile amante di Maria Schneider in Ultimo tango a Parigi di Bertolucci - è anche l'anno in cui la ex moglie Anna Kashfi rapisce il primo figlio dell'attore, nato nel `58, fuggendo in Messico. Nel 1979 Brando incontra un altro ruolo fondamentale: è il colonnello Kurz in Apocalypse now di Francis Ford Coppola. Da allora si susseguono pochi ruoli importanti e molte difficoltà - economiche (il suo patrimonio si è sgetolato tra processi per alimenti a ex mogli e amanti e lui dichiarerà di vivere con un assegno della sussistenza sociale di 1.856$ al mese) e personali (l'arresto, nel `90, del figlio Christian, per aver ucciso l'amante della sorella Cheienne, poi suicidatasi nell''96). Il cuore trabballante, l'eccesso di peso e i polmoni stanchi lo hanno portato alla morte ieri, all'età di 80 anni.
Da Il Manifesto, 3 luglio 2004