Marsha P. Johnson è stata una trans molto famosa a New York negli anni 60 e 70, dai moti di Stonewall alla Factory di Andy Warhol passando ovviamente per i Gay Pride. Il suo cadavere fu ritrovato nell'East River nel 1992 e la polizia liquidò il caso come un suicidio, tesi che però non ha mai convinto né la famiglia, né i suoi amici più cari e neppure il movimento nel suo complesso. Oggi l'attivista Victoria Cruz cerca di far riaprire questo caso, facendo analizzare da un nuovo esperto l'autopsia, cercando testimoni e conoscenti - su tutti l'amica Sylvia Rivera che è quasi coprotagonista del film - e trovando una lettera finora inedita. Qui la morte di Marsha veniva usata come intimidazione mafiosa, contro gli attivisti che cercavano di denunciare la partecipazione malavitosa alla raccolta fondi del proprio gay pride.

Mi è diventato sempre più chiaro nel corso dell'indagine che Marsha fu abbandonata più o meno da tutti: fu accettato che vivesse per strada, che non avesse protezione dalla nostra comunità, che le doveva così tanto, e si lasciò che divenisse economicamente marginalizzata. Non solo il movimento LGBT, ma la società più in generale permisero che vivesse quella vita pericolosa a cui molte donne trans di colore sono confinate.

Dopo il documentario How to Survive a Plague dedicato alla lotta dei gruppi ACT UP e TAG perché l'AIDS ricevesse cure adeguate e somministrate senza ingiustizie, David France torna a raccontare il mondo LGBT concentrandosi questa volta sull'ultima delle quattro lettere. Ultima anche nella considerazione che ha avuto all'interno del movimento stesso, come viene dolorosamente raccontato nel documentario, dove l'indagine sul caso di Marsha è il punto d'ingresso per ripercorrere la storia dell'attivismo Gay di New York dalla prospettiva Trans.