
Anno | 2025 |
Genere | Commedia |
Produzione | USA |
Durata | 60 minuti |
Attori | Miles Heizer, Ana Ayora, Blake Burt, Cedrick Cooper, Dominic Goodman Nicholas Logan, Angus O'Brien, Rico Paris, Vera Farmiga. |
MYmonetro | Valutazione: 2,00 Stelle, sulla base di 1 recensione. |
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Ultimo aggiornamento venerdì 10 ottobre 2025
Una serie che parla di patriottismo, identità queer e... disciplina del silenzio.
CONSIGLIATO NÌ
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Stati Uniti, primi anni '90: il giovanissimo Cameron Cope (Miles Heizer) fatica a trovare sé stesso, tra un atto di bullismo e l'altro, consapevole della sua omosessualità. Sceglie così, consigliato e insieme al suo migliore amico Ray McAffey (Liam Oh), di arruolarsi nei Marines. Inizia qui il suo percorso di addestramento, che è al contempo un romanzo di formazione a metà strada tra patriottismo, identità e onore. Tra punizioni collettive e alleanze interne, il gruppo di reclute impara a sincronizzare passi e respiri mentre ognuno, dentro, fa i conti con paure meno visibili.
Ispirata alle memorie "The Pink Marine" di Greg Cope White, ex sergente dei Marines e qui anche sceneggiatore, la miniserie in otto episodi per Netflix mette a fuoco un periodo di svolta per la legislazione e l'inclusione dell'omosessualità negli Stati Uniti, soprattutto dentro le forze armate.
Sin da subito siamo calati nella prospettiva di un'epoca in cui a molte persone LGBTQIA+ veniva chiesto di esserci senza dirlo: la politica del "Don't Ask, Don't Tell" non cancellava il divieto ma lo spostava nella clandestinità, trasformando la verità personale in una minaccia disciplinare.
Andy Parker (Pantheon, Imposters) ambienta Boots su questa soglia, in un contesto cruciale in cui il boot camp si trasforma in un luogo di addestramento sia del proprio fisico che del mascheramento. Sul primo versante, la serie dialoga con il cinema che ha codificato estetiche e rituali dell'addestramento (Full Metal Jacket, Ufficiale e gentiluomo, Jarhead) ma tenta di riposizionare il baricentro dal trauma generazionale al patto d'amicizia. Senza però realmente riuscirci, e in particolare dimenticando la lezione di film (Bent, The Inspection) che sono stati in grado di testimoniare l'oppressione sia sul piano simbolico che politico, dove il conflitto tra identità queer e macchina militare produceva conseguenze diegetiche e non solo sfumature emotive.
L'integrazione fra il coming-of-age e il racconto della vita da recluta queer passa soprattutto attraverso il filtro dell'addestratore e sergente Robert "Bobby" Sullivan, interpretato da uno scultoreo Max Parker. Un marine decorato, consumato dal mestiere e impegnato a tenere nascosto un segreto: un percorso di mimetismo continuo, dove l'autorità diventa maschera e trincea psicologica. La sua figura incarna cioè l'idea di sopravvivere al sistema riproducendone alla lettera i codici di durezza, controllo e opacità, fino a farne un'armatura identitaria.
La serie introduce (senza trasformarlo in manifesto) anche un altro personaggio apertamente queer - Jones (Jack Cameron Kay) - che sceglie la via opposta: integrarsi e combattere dall'interno, sbeffeggiando i rituali e trovando crepe nelle liturgie di camerata. È una controfigura narrativa utile perché rende visibile il bivio in cui si trova il protagonista, ma la dialettica resta spesso a beneficio di scena - tanto che il personaggio di Jones viene introdotto solo in corner - più che di conseguenze; non arriva mai una vera insubordinazione etica che scardini il paradigma addestrativo, e l'impalcatura ideologica basata sulle gerarchie, sul nazionalismo muscolare e sull'obbedienza cieca resta intatta. L'infrastruttura mitica e mitomane americana non viene (e non può essere, qui il vero limite della serie) messa realmente in crisi.
Di fatto, il baricentro visivo e sonoro rimane sull'educazione alla prontezza: marce, comandi, urla al ritmo di "UCCIDERE, UCCIDERE, UCCIDERE", litanie che scolpiscono corpi e riflessi, body shaming. È un'estetica dell'adesione, non della deviazione: l'ambiente premia il soldato che risponde "sì, signore" senza esitazioni, e la messinscena privilegia la complicità di reparto fino a scivolare nei codici del buddy movie, dove la solidarietà tra compagni diluisce la carica sovversiva del conflitto identitario. Ecco che, allora, tutti i segnali di cultura queer anni '90 - dalle citazioni musicali dei Queen, ai piccoli ammiccamenti e gesti di riconoscimento - diventano dei flash laterali autoimposti e (loro sì) devianti: sono efficaci per fornire l'atmosfera, ma molto meno per fondare l'arco identitario.
Così si tradisce persino il genere narrativo: quello che doveva essere un romanzo di formazione non sta nei binari e l'addestratore ruba lo spazio alla recluta, diventa perno critico del discorso. Non sappiamo più se è antagonista (caricaturale) o protagonista (senza spessore). In questo, certamente, la serie rende l'idea di come fosse essere una persona LGBTQIA+ nelle forze armate statunitensi degli anni '90, perché similmente non può raccontarle. Sullivan è il volto di un compromesso che la serie tende a mostrare più che a contestare: addestra Cameron per proteggerlo dal mondo là fuori, ma la sua tutela coincide in realtà con l'addomesticamento. È qui che Boots si tira indietro rispetto al confronto politico: l'istituzione è opaca ma funzionale, il senso del dovere rimane indiscutibile, la tensione tra identità e disciplina si risolve spesso nel privato, non nel pubblico. In altre parole: il romanzo di formazione si compie fintantoché rimane nei confini del perimetro di ciò che si può fare, dire o vedere.
La figura della madre, mitomane e castrante (sia per il protagonista che per lo spettatore) - interpretata da Vera Farmiga - diventa perciò funzionale a rimanere in questo perimetro: più che interrogare il contesto che comprime le soggettività, la serie sembra ricondurre il conflitto all'interno della psiche del protagonista (che di fatti combatte la sua guerra sdoppiandosi e rivolgendosi a sé stesso). Il rischio è quello di rinnovare un codice narrativo logoro, in cui l'omosessualità appare "derivata" da un irrisolto familiare da espiare o metabolizzare prima di potersi dire legittima. In questa chiave, la responsabilità del dolore ricade sull'individuo, mentre il sistema discriminatorio resta intatto: la vittima viene riletta come causa (o co-causa) del proprio smarrimento, e la diagnosi si sposta dal sociale al domestico. In altre parole, si vittimizza la vittima.
Ne risulta una confezione curata ma instabile: Boots parla di una guerra silenziosa e la mantiene tale, di una lotta quotidiana che deve rimanere interna, intima e, soprattutto, disciplinata.