
Haider Rashid, voce nuova e fresca del cinema italiano, racconta una storia che si ripete, da decenni, in forme simili, anche se in scenari geografici diversi. Al cinema.
di Giovanni Bogani
Li abbiamo visti in questi giorni. Corpi e anime in fuga, corpi aggrappati ai carrelli degli aerei, corpi ammassati, corpi come cose, come stracci. Corpi che, a decine di migliaia, i più fortunati, si disperderanno sulle mille rotte accidentate, dolorose, mortali per arrivare in Europa.
Ed Europa si chiama il film di Haider Rashid, regista italo/irakeno: il padre irakeno curdo, la madre italiana, Haider ha studiato cinema in Gran Bretagna. Un film che racconta la storia di uno di loro. Un corpo in fuga, un respiro, una corsa disperata verso la sopravvivenza.
Ovviamente, Europa è nato prima della tragedia che l’Afghanistan ha vissuto e sta vivendo nei giorni in cui scriviamo. Ma Haider Rashid racconta una storia che si ripete, da decenni, in forme simili, anche se in scenari geografici diversi. Presentato alla Quinzaine des réalisateurs all’ultimo festival di Cannes – è una sezione non competitiva, ma può dare origine ad alcuni riconoscimenti – Europa ha vinto il Beatrice Sartori Award, il premio assegnato dalla critica indipendente.
È un film molto breve – 72 minuti – e raccontata in modo essenziale. In pratica, tutto il film sta addosso al volto, al respiro, agli sguardi, ai movimenti del protagonista, interpretato da Adam Ali, attore britannico di origine libica: anche lui, come il regista Haider Rashid, frutto dell’incontro di due mondi, due culture, due diverse linee di galleggiamento sulla superficie del mondo. Haider e Adam hanno trovato subito sintonia, e il regista ha lasciato che il film corresse tutto addosso al suo protagonista, che fosse scandito dal suo passo, dai suoi respiri, che avesse il suo suono, verrebbe quasi da dire: il suo odore.
C’è uno sguardo ad un gruppo di clandestini solamente nel prologo. Sono dei migranti, condotti al confine tra Turchia e Bulgaria da una delle tante bande di trafficanti. I migranti pagano, poi – nel buio illuminato dalle torce elettriche – anche quello straccio di speranza viene tradito: i migranti vengono consegnati alla polizia di confine, dalle stesse persone che hanno pagato, perché li aiutassero a passare la frontiera. Pochi riescono a scappare, Kamal (Adam Ali) è uno di loro. Da quel momento, il film seguirà lui, solo lui. La colonna sonora di un film che non ha musica sarà il suo respiro.
Qualche volta, saranno le note smozzicate di una canzone, una specie di ninna nanna. Perché Kamal, che fugge con addosso la maglietta di Mohammad Salah, attaccante del Liverpool, è ancora un ragazzo, è ancora un bambino. La canzone, peraltro, era quella che la madre di Adam Ali gli cantava, da bambino.
Corre, il ragazzo. Come Mohammad Salah quando fa una delle sue volate sulla fascia: ma lì ci sono migliaia di spettatori, milioni di euro ad aspettarlo, Salah corre più forte di tutti per entrare in area, per fare goal. Anche Kamal cerca di entrare in area, cerca di fare goal. Ma il suo campo non è un prato verde, il suo campo è un bosco denso di morte. Anche la telecamera gli sta sempre addosso, come se già quello fosse un inseguimento. E quando lo sguardo del regista si volge verso la natura, verso il “fuori” da Kamal, è come se la vedessimo con gli occhi di lui: deformata dal grandangolo, surreale. Ma poi, Haider torna a scrutare il volto di Kamal: e a leggere affanno, disperazione, confusione, voglia di sopravvivere.