no_data
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martedì 6 ottobre 2020
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l''analisi è perfetta, manca il dopo
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"Non so perché, per tanto tempo, ho voluto che tu tornassi ma poi l'ho capito. Volevo che tornassi per potermene andare io. Ma poi non l'ho fatto."
Il Film Lacci di Daniele Lucchetti è un pugno nello stomaco, non facile da vedere, doloroso ma necessario.
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"Non so perché, per tanto tempo, ho voluto che tu tornassi ma poi l'ho capito. Volevo che tornassi per potermene andare io. Ma poi non l'ho fatto."
Il Film Lacci di Daniele Lucchetti è un pugno nello stomaco, non facile da vedere, doloroso ma necessario. Perché il desiderio di comprendere la realtà e le complesse dinamiche delle relazioni umane riguarda tutti e questo film sono dieci lezioni di psicologia clinica messe insieme.
Crudo, vero, almeno per buona parte, racconta i sentimenti nella loro meschinità, lontano dalla semplificazione e dai luoghi comuni. I personaggi, gli attori sono fantastici, vengono disegnati con tratti marcati, ben riconoscibili. Sta tutto nell'approfondimento psicologico il valore del film che nessuno mai andrebbe a vedere se si limitasse a leggere la sinossi: una coppia si rompe perché lui ha un'altra.
Forse per deformazione professionale, ma giuro non voglio farmi pubblicità occulta, ho visto il fantasma di uno psicoterapeuta aggirarsi per tutta la durata del film. Come se lo sceneggiatori Domenico Starnone e Francesco Piccolo volessero far intendere una condizione esistenziale precisa, o un preciso quadro clinico per usare termini tecnici, e poi raccontarci il suo mettersi in discussione, la sua ricerca, la sua psicoterapia. Ma, come un po' nel film "Assolo", in cui anche, guarda caso, recita Laura Morante, è proprio in questo tentativo che diventa goffo e perde di interesse. La "psicoterapia", mi consento di azzardare di approccio classico, sembrerebbe limitarsi all'analisi, incapace di immaginare una qualsiasi evoluzione.
Manca il gesto: scegliere, con consapevolezza e responsabilità, accettando le conseguenze delle proprie azioni. Scegliere non è accontentarsi, è SCEGLIERE. Il protagonista, con una dinamica ampiamente analizzata in questi tempi in cui va di moda parlare di disturbi narcisistici, non vuole e non riesce a scegliere ed a tratti è disturbato anche nella fase precedente: la valutazione dei pro e dei contro.
Non sceglie ed è questa la sua malattia; si lascia trascinare dagli eventi, tira i remi in barca e si lascia portare dalla corrente. Interessante e piacevole sicché non arriva una cascata.
Consigliato anche a chi sogna il principe/la principessa azzurra sotto una campana di vetro ed è ora che si svegliasse, aprisse gli occhi ed iniziasse a muoversi li fuori, nel mondo reale, dove le relazioni, in cui tutti siamo irrimediabilmente immersi, sono difficili e complicate, sempre, ed ognuno mentre le gestisce è SOLO.
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pitcaf
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mercoledì 9 giugno 2021
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contano i fatti, non le parole
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Il film si snoda lungo trent'anni di vita di una famiglia, focalizzandosi su due periodi interpretati da due diverse coppie di attori: il primo da Lo Cascio e Rohrwacher, il secondo da Orlando e Morante. Vivono a Napoli, ma il marito, conformista e razionale, frenato nelle emozioni, lavora a Roma dove cura una rubrica culturale alla Radio. Hanno due figli: Anna e Sandro, impotenti spettatori delle vicende genitoriali. Quando lui confessa alla moglie di avere un'altra, lei lo caccia di casa, per poi provare a riconquistarlo: gli farà scenate e arriverà anche a tentare il suicidio. Dopo vari anni di separazione, lui tornerà in famiglia, ma il rapporto si trascinerà tra incomprensioni e accuse reciproche.
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Il film si snoda lungo trent'anni di vita di una famiglia, focalizzandosi su due periodi interpretati da due diverse coppie di attori: il primo da Lo Cascio e Rohrwacher, il secondo da Orlando e Morante. Vivono a Napoli, ma il marito, conformista e razionale, frenato nelle emozioni, lavora a Roma dove cura una rubrica culturale alla Radio. Hanno due figli: Anna e Sandro, impotenti spettatori delle vicende genitoriali. Quando lui confessa alla moglie di avere un'altra, lei lo caccia di casa, per poi provare a riconquistarlo: gli farà scenate e arriverà anche a tentare il suicidio. Dopo vari anni di separazione, lui tornerà in famiglia, ma il rapporto si trascinerà tra incomprensioni e accuse reciproche. Nell'ultima parte compaiono i figli da adulti (Giannini e Mezzogiorno): il maschio con due figli e un matrimonio fallito, e la femmina, che dice di aver imparato dalla madre che "i figli non si fanno". È dal loro dialogo che, oltre la narrazione di una crisi coniugale, emerge il tema principale del film: il rapporto genitori-figli, dove i secondi sono potenziali vittime di genitori disfunzionali, piccoli innocenti condannati a soffrire anche da adulti. Padre e madre sono partiti per una vacanza e loro si recano nella vecchia casa per governare il gatto Labes. La sorella è la più critica, ha capito che sarebbe stato meglio per tutti se il padre non fosse ritornato dalla moglie e lo definisce "un uomo banale che usava parole acute", a sottolineare che nella vita contano i fatti; non quello che si dice, ma ciò che si fa. Il finale è illuminante: entrambi ben consapevoli del tradimento paterno, ne sospettano anche uno da parte materna e iniziano a cercarne le prove. Durante questo frugare nei cassetti, tra gli indumenti, dietro i libri, finalmente realizzano e manifestano la loro rabbia verso i genitori e l'odio per quel luogo dove hanno tanto sofferto, distruggendone tutte le suppellettili. Anna porterà via anche Labes: "la mamma soffrirà, ma lui no".
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frankmoovie
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domenica 4 ottobre 2020
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"lacci": un coinvolgente intreccio di fili ...
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Si dice che il cinema regala emozioni, ricordi, sensazioni, sensi di colpa e di assoluzione: questo film racconta una storia che conferma con forza queste parole. Un intreccio di fili in una famiglia che, come tante, passa dai primi anni di un amore attraverso vicissitudini tra alti e bassi momenti di gioia, come avere dei figli, ad alti e bassi momenti di gelosia,di odio, di rancori, agli anni dell’anzianità con altri modi di vivere una coppia, di ricerca di appigli in cui credere ancora o avere un affetto ma anche con sguardo all’indietro, a errori evitati e errori fatti.
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Si dice che il cinema regala emozioni, ricordi, sensazioni, sensi di colpa e di assoluzione: questo film racconta una storia che conferma con forza queste parole. Un intreccio di fili in una famiglia che, come tante, passa dai primi anni di un amore attraverso vicissitudini tra alti e bassi momenti di gioia, come avere dei figli, ad alti e bassi momenti di gelosia,di odio, di rancori, agli anni dell’anzianità con altri modi di vivere una coppia, di ricerca di appigli in cui credere ancora o avere un affetto ma anche con sguardo all’indietro, a errori evitati e errori fatti. Intrecci di parole tra caratteri diversi e accuse reciproche tra tutti i personaggi (si ricorda la frase detta dalla moglie al marito: “Tu non sarai quello che vuoi essere, ma quello che ti capita …”) rappresentati in tanti bellissimi primi piani di attori di alto livello: Alba Rohrwacher, Luigi Lo Cascio, Laura Morante, Silvio Orlando, Giovanna Mezzogiorno, Adriano Giannini e i ragazzi ben scelti e con azzeccata colonna sonora. Daniele Lucchetti si conferma ottimo regista e merita molto più di uno scarso pubblico nelle sale che il Covid ha praticamente bloccato. Si esce pensierosi anche su se stessi e soddisfatti, con i quasi sciolti … lacci.
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fabbu
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giovedì 12 novembre 2020
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benefiche dissonanze
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La prima sensazione, di sollievo, con cui si esce dalla sala (nel frattempo richiusa) è quella di avere recuperato un piccolo grande patrimonio che si temeva disperso. Luchetti torna a fare con questo film il cinema che conoscevamo, dopo un periodo di appannamento e qualche concessione davvero di troppo al richiamo irresistibile del politically correct.
La forma del suo “Lacci” richiama la morfologia del “Lacci” primigenio, quello di Domenico Starnone: una compostezza scarna, più densa che si possa, all’interno della quale le dinamiche affettive dei personaggi si stagliano con una nettezza assoluta, concedendo poco o nulla alla ambiguità.
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La prima sensazione, di sollievo, con cui si esce dalla sala (nel frattempo richiusa) è quella di avere recuperato un piccolo grande patrimonio che si temeva disperso. Luchetti torna a fare con questo film il cinema che conoscevamo, dopo un periodo di appannamento e qualche concessione davvero di troppo al richiamo irresistibile del politically correct.
La forma del suo “Lacci” richiama la morfologia del “Lacci” primigenio, quello di Domenico Starnone: una compostezza scarna, più densa che si possa, all’interno della quale le dinamiche affettive dei personaggi si stagliano con una nettezza assoluta, concedendo poco o nulla alla ambiguità. Avendo inserito questa modalità espressiva nell’atmosfera saturata e disordinata degli anni settanta (altro che piombo!), fedelmente riprodotta, se ne ricava una piacevole dissonanza che rende la visione via via più eccitante, almeno nella prima parte del film.
Luigi Lo Cascio è perfettamente in parte, nonostante alcune scivolate sul napoletano abborracciato che rendono meno lineare la tenuta del personaggio; nel complesso però sa rendere in maniera compiuta il senso di disorientamento che poteva provare il “capofamiglia” piccolo borghese di quattro o cinque decenni fa, che si muoveva in una Italia confusa, arrivata così stanca da un trentennio di miracolo economico da non riuscire più ad indirizzare nessuno, tantomeno coloro che avrebbero dovuto caricarsi sulle spalle la tenuta della società stessa dall’alto della propria condizione di intellettuali.
Alba Rohrwacher fa proprio di tutto per adattare la sua abituale recitazione dimessa, quasi in sottrazione, ad una donna eccessiva e totalmente in preda delle proprie fragilità. Vanda si illude di poter sostenere il peso della complessità della sua condizione con la disordinata manifestazione delle sue pulsioni, tanto amorevoli quanto distruttive. È una donna da comprendere più che da categorizzare, e Rohrwacher riesce a dare forma assolutamente credibile ai suoi stati d’animo.
La cesura tra la prima parte del film e la contemporaneità, con il cambio degli interpreti e la comparsa dei figli adulti, è radicale. Il disordine ambientale, così euforico, che avevamo osservato nella prima ora del film lascia il passo ai silenzi.
Certo, passano gli anni. Certo, i figli crescono. Certo, nel frattempo abbiamo avuto gli anni degli yuppies e poi Berlusconi, e poi l’Euro e poi ancora la crisi e poi ancora il commissariamento di una nazione allo sbando… Però che amarezza! E Luchetti pare abbia deciso di rincarare la dose: la casa di Vanda e di Aldo è un mausoleo, zeppa di oggetti, tutti lì a richiamare una felicità che avrebbe dovuto arrivare e non ha trovato la strada. Nel quartiere bene non c’è un suono, non una macchina parcheggiata, solo fattorini in (apparente) malafede. La seconda casa al mare è un oceano di solitudine, e quando ci si concede il lusso di staccare la spina, si ritorna alla base prima di quanto preventivato.
Una disillusione totalizzante, che promana con bravura sui volti confusi e sconfortati di Giovanna Mezzogiorno e di Giannini junior. Due fratelli che conducono una vita sempre in procinto di partire, e che però almeno riescono a mantenere viva una complicità giocosa, prima alleata contro la disperazione.
La loro salutare, imperiosa ribellione finale, che manda a scatafascio una intera fenomenologia genitoriale più che le paludate librerie della casa di famiglia, è la conclusione perfetta. E si esce dalla sala sperando che sia anche un ponte per poter condurre la seconda parte della loro esistenza in modo meno condizionato.
Infine, va dato merito a Linda Caridi di averci regalato i tratti di una donna rilucente e onesta fino alla fine. Lidia sa reggere il peso delle conseguenze delle sue scelte con la compostezza che solo il sapere amare pienamente riesce a dare. Una donna inattaccabile – e perdente, ahimè.
Grazie Luchetti, l’ora e mezza trascorsa in tua compagnia ci ha rimessi in armonia con le brutture inespresse del momento!
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felicity
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lunedì 15 novembre 2021
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una struggente riflessione sui legami
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Lacci conserva una vena di quel Ricordi? di Valerio Mieli, con in un comune anche Linda Caridi, seppur discostandosene del tutto sull’impianto della messa in scena che qui non si concede neppure per un frangente di affidarsi agli onirismi che sono soppiantati da desideri avvizziti e sogni mai realizzati. Soprattutto di mezzo ci sono i figli, proprio quei lacci che si annodano e snodano a metà di una coppia (nei corpi di Luigi Lo Cascio e Alba Rohrwacher prima, Laura Morante e Silvio Orlando poi) che rappresenta tutta la bruttura della fragilità umana, in un gioco di storpiature dove spesso la dolorosità delle feroci schermaglie tra marito e moglie vengono lasciate fuori dall’udibile, evidenti solo agli occhi di quei bambini-cuccioli che dovrebbero rappresentare il nucleo forte del legame familiare.
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Lacci conserva una vena di quel Ricordi? di Valerio Mieli, con in un comune anche Linda Caridi, seppur discostandosene del tutto sull’impianto della messa in scena che qui non si concede neppure per un frangente di affidarsi agli onirismi che sono soppiantati da desideri avvizziti e sogni mai realizzati. Soprattutto di mezzo ci sono i figli, proprio quei lacci che si annodano e snodano a metà di una coppia (nei corpi di Luigi Lo Cascio e Alba Rohrwacher prima, Laura Morante e Silvio Orlando poi) che rappresenta tutta la bruttura della fragilità umana, in un gioco di storpiature dove spesso la dolorosità delle feroci schermaglie tra marito e moglie vengono lasciate fuori dall’udibile, evidenti solo agli occhi di quei bambini-cuccioli che dovrebbero rappresentare il nucleo forte del legame familiare.
Lacci è un racconto doloroso e universale, eppure Luchetti non risparmia che quell’odio rappreso tra i denti arrivi a tirare sferzate in un istante successivo tra improvvisi strappi di rabbia e caraffe frantumate in terra, anche se riuscendo nel complesso e ancor più straziante compito di lasciar permeare il film di una tanto aspra quanto fondamentale patina di ironia, tipica di chi è allo stremo e cosciente che non esiste un tasto “rewind” per riavvolgere i nastri di una vita che ha preso una piega sbagliata.
«Se c’è qualcosa da recuperare, la recuperiamo», ma siamo oltre il tempo limite per raccogliere i cocci di vetri che sono come istantanee forse nascoste e forse delle quali si prova vergogna, o forse solo custodite gelosamente come memorandum di una vita vissuta nell’intercapedine di una paternità non voluta e di una maternità abbandonata a sé stessa. Perché, in fin dei conti, a farne le spese sono proprio quei figli che osservano un padre traditore e una madre spezzata, cresciuti all’ombra di un amore disfunzionale dove o si assimila o si rigetta, dove l’unico vincitore è chi non ha partecipato a un dramma tanto vivido perché umano e tristemente universale.
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stefano capasso
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sabato 3 settembre 2022
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il rapporto con la memoria
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Il menage coniugale di Aldo e Vanda, coppia con due figli ancora piccoli, viene sconvolto dalla notizia che lui, presentatore radiofonico a Roma, ha una relazione con una collega, Livia donna giovane e avvenente.
Dopo un primo momento di rabbia Vanda, tenta in tutti i modi di riportare a casa Aldo, che ormai si è trasferito a Roma da Vanda, e l’inevitabile conclusione è quella di ricorrere agli avvocati per regolarizzare la separazione. Passano gli anni e Vanda rimane fedele al suo tentativo di riportare a casa Aldo, che nel frattempo vede il suo rapporto con Livia entrare in crisi.
La storia raccontata da Daniele Luchetti è abbastanza comune, anche vista spesso al cinema.
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Il menage coniugale di Aldo e Vanda, coppia con due figli ancora piccoli, viene sconvolto dalla notizia che lui, presentatore radiofonico a Roma, ha una relazione con una collega, Livia donna giovane e avvenente.
Dopo un primo momento di rabbia Vanda, tenta in tutti i modi di riportare a casa Aldo, che ormai si è trasferito a Roma da Vanda, e l’inevitabile conclusione è quella di ricorrere agli avvocati per regolarizzare la separazione. Passano gli anni e Vanda rimane fedele al suo tentativo di riportare a casa Aldo, che nel frattempo vede il suo rapporto con Livia entrare in crisi.
La storia raccontata da Daniele Luchetti è abbastanza comune, anche vista spesso al cinema. Nulla di nuovo, dunque, se non la particolare struttura che Luchetti costruisce intorno al film. Possiamo individuare tre parti ben distinte, la coppia da giovane, raccontata in un lungo flashback; la coppia al giorno d’oggi e infine l’episodio dedicato ai figli ormai grandi. Lo stesso montaggio varia tra flashback e flashforward, finendo per rendere poco identificabile quale sia il momento del racconto. Allo stesso tempo alcune scene vengono riproposte più volte per dare risalto al gioco dei ricordi che è uno dei punti cardine del film; lo stesso spettatore rivive più volte alcune situazioni, con occhi diversi e questo contribuisce ad empatizzare con la storia. Come detto sullo sfondo di una storia di famiglia fatta di non detti, rancori e segreti, emerge il rapporto coi ricordi, la memoria, che ognuno sviluppa a modo suo e che da un indirizzo alla propria vita. Tutti i protagonisti non hanno un buon rapporto con la memoria, con le storie vissute e mai veramente digerite e solo alcuni di loro riusciranno alla fine ha dare un senso nuovo alle proprie esistenze, a trasformare i ricordi dolorosi in rabbia liberatoria. È soprattutto il caso dei due figli che in età ormai avanzata riusciranno a confidarsi e a dare sfogo, fisico, a tante emozioni repressioni represse nella vita.
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yarince
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giovedì 8 ottobre 2020
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il punto di capitone di un legame
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È la storia di una famiglia borghese nella Napoli del anni'80, una Napoli che, stranamente, resta in disparte, discreta, ad assistere al guazzabuglio di un interno. La telecamera, quindi, resta focalizzata sul nucleo familiare e sulle sue dinamiche, poche altre figure ruotano intorno a loro, restando sempre marginali. Mi ha colpito, infatti, la solitudine di Vanda, trasferitasi a Napoli per amore; nessuna amica o sorella accoglie i suoi sfoghi o la tiene in un abbraccio consolatorio che avrebbe potuto aiutarla a non commettere tanti errori.
Aldo e Vanda hanno due figli, il loro rapporto si basa su un patto iniziale: restare insieme per sempre a meno che uno dei due non si innamori di un'altra.
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È la storia di una famiglia borghese nella Napoli del anni'80, una Napoli che, stranamente, resta in disparte, discreta, ad assistere al guazzabuglio di un interno. La telecamera, quindi, resta focalizzata sul nucleo familiare e sulle sue dinamiche, poche altre figure ruotano intorno a loro, restando sempre marginali. Mi ha colpito, infatti, la solitudine di Vanda, trasferitasi a Napoli per amore; nessuna amica o sorella accoglie i suoi sfoghi o la tiene in un abbraccio consolatorio che avrebbe potuto aiutarla a non commettere tanti errori.
Aldo e Vanda hanno due figli, il loro rapporto si basa su un patto iniziale: restare insieme per sempre a meno che uno dei due non si innamori di un'altra. Aldo la tradisce e si confessa, si innamora della collega e va a vivere con lei a Roma. Vanda non mantiene il patto e affronta l'abbandono, il rifiuto, la gelosia, la perdita del controllo sull'altro nel peggiore dei modi possibili; tentando il suicidio, sminuendo il padre davanti ai figli e allontanandoli, con ricatti psicologici, sensi di colpa, dispetti. Il suo dolore è umanamente comprensibile come singolo individuo, ma in quanto madre, lei viene meno al suo dovere di "holding", come dice Winnicott, nei confronti dei figli, il loro punto di sicurezza. Dopo qualche anno, Aldo ritorna in famiglia in un rapporto sado-masochista e si congeda dalla donna, che pur continua ad amare, dicendole " Noi non abbiamo costruito nessun legame, il legame è rimasto lì".
I lacci sono i legami, quelli che costruiamo e quelli ci vengono trasmessi intergenerazionalmente dal contesto familiare, nel quale siamo "legati" da un laccio chiamato co-inconscio: un genosociogramma trasmesso per cui ereditiamo geni, traumi, paure, tabù, nevrosi, segreti e a cui restiamo fedeli attraverso ripetizioni e sindrome di anniversari. Il legame è quello che Lacan chiama " punto di capitone" che è quel bottone del divano che tiene ferma la stoffa affinché non scivoli via , il punto che le dà una forma rigida. Nella scena finale si vedono i figli adulti, incistiti da un vissuto traumatico e che, approfittando dell'assenza dei genitori, distruggono il "nido" di famiglia, buttano giù convenzioni, convenienze, bugie, egoismi, nevrosi costruite e raccolte in quella casa. Lo fanno come atto psicomagico, distruggono per poter liberare la propria vera identità e liberano, simbolicamente il gatto, vittima semanticamente di un nome dato da Aldo e di un amore castrofobico da parte di Vanda, lo liberano perché non hanno potuto liberare sé stessi da piccoli. Solve et coagula: la casa dei genitori diventa lo spazio transizionale: "rompono", dissolvono, puliscono per dare una risignificazione simbolica allo spazio, al passato e al presente.
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