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ghisi grütter
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lunedì 1 giugno 2020
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aree metropolitane
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In questi giorni stiamo seguendo l’ennesima violenza della polizia americana su un afroamericano a Minneapolis e le reazioni a catena che tale atto sta producendo. George Floyd, così si chiamava l’uomo, è stato bloccato con un ginocchio sul collo, quindi soffocato, mentre affermava di non poter respirare. I quattro poliziotti che lo avevano fermato sono stati licenziati ma poi, dopo varie manifestazioni e petizioni internazionali, sono stati arrestati.
Ed è proprio questo il forte clima di violenza che si respira nel film “I miserabili”.
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In questi giorni stiamo seguendo l’ennesima violenza della polizia americana su un afroamericano a Minneapolis e le reazioni a catena che tale atto sta producendo. George Floyd, così si chiamava l’uomo, è stato bloccato con un ginocchio sul collo, quindi soffocato, mentre affermava di non poter respirare. I quattro poliziotti che lo avevano fermato sono stati licenziati ma poi, dopo varie manifestazioni e petizioni internazionali, sono stati arrestati.
Ed è proprio questo il forte clima di violenza che si respira nel film “I miserabili”. Mi si è attorcigliato lo stomaco per un’ora e tre quarti, durante tutta la proiezione del film.
Siamo nei grand ensembles di Montfermeil, un comune francese di 25.000 abitanti all’estrema periferia orientale parigina nel dipartimento della Senna-Saint-Denis nella regione dell'Île-de-France.
È proprio lo stesso luogo dove Victor Hugo ha ambientato il suo famoso romanzo Les Misérables del 1862. I suoi personaggi appartenevano agli strati più bassi della società francese dell'Ottocento, i cosiddetti "miserabili" - persone cadute in miseria, ex forzati, prostitute, monelli di strada, studenti in povertà - la cui condizione non era mutata né con la Rivoluzione né con Napoleone, né con Luigi XVIII.
E come gli abitanti di allora, anche oggi in questa zona povera si trovano gli attuali” miserabili”: c’è lo spaccio di droga, ci sono i furti, qui vivono immigrati di varie generazioni e gli zingari, c’è il Sindaco nero, ci sono i Fratelli mussulmani. E soprattutto c’è l’eccesso di violenza messo in atto dalla polizia.
Nel 2017 Ladj Ly, regista parigino quarantenne originario del Mali, aveva già girato un corto sullo stesso tema, in seguito ha scritto la sceneggiatura del lungometraggio con Giordano Gederlini e il coprotagonista Alexis Manenti.
Il film si apre con una scena del mondiale vinto dalla Francia del 1998, dove tutti cantano la Marseillaise. Molti tifosi sono neri, quasi tutti, e riempiono come un fiume in piena les Champs-Élysées con i volti pieni di gioia gridando “vive la France”. Ma l’apparente unità nazionale nel film viene subito frantumata dai contrasti tra i vari gruppi etnici che si fronteggiano, una volta rientrati nel quartiere.
Il regista riesce a costruire una tensione altissima per tutto il film, grazie anche alla bravura di tutti gli attori (di cui solo alcuni professionisti), e guida lo spettatore all’interno di una tremenda rivolta ispirata a quella parigina del 2005.
Ladj Ly, che ha iniziato a filmare proprio durante le rivolte di quell’anno, tallona i personaggi con la macchina a mano e ogni tanto, per aumentare la tensione, aggiunge alle immagini una musica cavernosa di sottofondo.
Stéphane Ruiz (Damien Bonnard) è un poliziotto divorziato che, per seguire il figlio affidato alla madre, si è trasferito a Parigi venendo da Cherbourg, una piccola cittadina sulla Manica. Entra così a far parte della Brigata anti-criminalità di Montfermeil, e conosce i suoi nuovi compagni di squadra l’impulsivo Chris (Alexis Manenti) e il più introverso Gwada (Djibril Zonga). Il regista, attraverso lo sguardo di Stéphane nel suo primo giorno di pattugliamento, svela in crescendo le ostilità tra i vari gruppi presenti del distretto.
Con lo sguardo essenziale del documentarista, Ladj Ly mostra l’habitat di bande e di gruppi criminali e il degrado urbano dei palazzoni dei grand ensembles costruiti tra gli anni ‘60 e ‘80. Molti di questi grossi interventi di edilizia economica e popolare - o come li chiamano i francesi “logements sociaux”- è previsto che vengano demoliti negli attuali programmi di rinnovo urbano.
Un giorno di ordinaria amministrazione viene rapito un leoncino dal circo equestre di passaggio e i tre poliziotti scoprono che lo aveva preso il giovane Issa. L’agente Chris che comanda la squadra non è tipo da andare per il sottile e in una zona così difficile usa spesso la violenza per farsi “rispettare”. Gwada lo segue, nato e cresciuto in quel quartiere, pensa che non ci siano alternative a quel modo brutale di comportarsi. In un momento di trambusto Gwada ferisce gravemente Issa, mentre il drone di Buzz - esplicita metafora del cinema - un altro ragazzino nero del quartiere, riprende tutta la scena.
Inizia in tal modo la caccia al video che può compromettere la vita e la carriera dei poliziotti. E così, in un crescendo, il regista guida lo spettatore nei meandri della conflittualità tra i vari gruppi e nella violenza della guerriglia urbana, gestita per di più da ragazzini arrabbiati (casseurs?).
Nel finale è citata la frase di Victor Hugo: “Amici miei, tenete a mente questo: non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori”, come per ristabilire una distanza dalla violenza dei poliziotti, sottolineando un punto di vista da documentarista più che da attivista militante, a differenza da altri film recenti come ad esempio “En guerre” di Stéphane Brizè del 2018.
“I miserabili” - premio della giuria alla 72ma edizione del Festival di Cannes -è un film molto duro, ma molto bello, e fornisce notevoli spunti per una riflessione.
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jonnylogan
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giovedì 28 maggio 2020
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il ritorno dell'odio
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L’agente Stéphane Ruiz, appena arrivato nella Brigata anti-criminalità di Montfermeil, viene affiancato a Chris e Gwada, agenti esperti che pattugliano da molti anni le strade del quartiere. Da subito Ruiz s’accorge che le tensioni fra le varie minoranze e la polizia potrebbero facilmente sfociare in violenza.
A oltre vent’anni da L’odio il cinema d’oltralpe fornisce una nuova perla che attraversa le banlieue della metropoli fermandosi per in un piccolo sobborgo di una capitale in festa per i mondiali appena vinti, unica fonte d’unione per una nazione divisa in quartieri borghesi e dormitorio, e luogo letterario narrato da Victor Hugo nel suo romanzo più celebre.
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L’agente Stéphane Ruiz, appena arrivato nella Brigata anti-criminalità di Montfermeil, viene affiancato a Chris e Gwada, agenti esperti che pattugliano da molti anni le strade del quartiere. Da subito Ruiz s’accorge che le tensioni fra le varie minoranze e la polizia potrebbero facilmente sfociare in violenza.
A oltre vent’anni da L’odio il cinema d’oltralpe fornisce una nuova perla che attraversa le banlieue della metropoli fermandosi per in un piccolo sobborgo di una capitale in festa per i mondiali appena vinti, unica fonte d’unione per una nazione divisa in quartieri borghesi e dormitorio, e luogo letterario narrato da Victor Hugo nel suo romanzo più celebre. Lo sceneggiatore Ladj Ly, nato e cresciuto da genitori originari del Mali, proprio a Montfermeil e che quindi ben conosce le tensioni presenti nel territorio, trae spunto da un suo cortometraggio del 2017 per narrare eventi normali per chi vive la periferia di Parigi, ma riuscendo comunque a mantenere sempre molto alte la tensione e l’attenzione di chi osserva pur stereotipando personaggi che vanno dal poliziotto sbruffone a quello di colore in cerca del dialogo con le bande del luogo, dall’ultimo arrivato, inevitabilmente vittima dei colleghi più esperti, fino agli abitanti del quartiere che cercano di accettare la coesistenza con altre minoranze e con una polizia sgradita e sempre troppo dedita a soprusi necessari per il mantenimento dell’ordine. Rispetto all’opera di Kassovitz il primo lungometraggio di Ly si differenzia sia per presentare tutti i punti di vista presenti e perché risulta una via di mezzo fra un mockumentary e il cinema noerealista in cui non si riesce a trovare un protagonista univoco, anche se l’ottimo Damien Bonnard si staglia fra colleghi avvezzi alla violenza e autoctoni poco disponibili, in cui gli eventi degenerano in scontri di piazza causati da una normale routine e dove, a visione ultimata, si fanno sempre più vere le parole tratte dal romanzo di Hugo: “non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori”.
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sacnito
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mercoledì 27 maggio 2020
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miserabili del terzo millennio
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Qualcuno lo ha definito il degno erede di "La haine" (1995) - altro capolavoro - col quale sicuramente condivide la medesima ambientazione: i quartieri parigini periferici, le cd. Banlieue. In realtà quei grandi palazzi fatiscenti non sono poi così tanto diversi da quelli che troviamo, ad esempio, a Scampia: si tratta di una storia che potrebbe ambientarsi in qualsiasi periferia del mondo.
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Il richiamo al romanzo di Victor Hugo (sia nel titolo che nella citazione finale) rappresenta l'espediente per raccontare la storia dei nuovi miserabili, i poveracci del terzo millennio.
"I miserabili" è un film politico, pur non parlando mai di politica.
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Qualcuno lo ha definito il degno erede di "La haine" (1995) - altro capolavoro - col quale sicuramente condivide la medesima ambientazione: i quartieri parigini periferici, le cd. Banlieue. In realtà quei grandi palazzi fatiscenti non sono poi così tanto diversi da quelli che troviamo, ad esempio, a Scampia: si tratta di una storia che potrebbe ambientarsi in qualsiasi periferia del mondo.
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Il richiamo al romanzo di Victor Hugo (sia nel titolo che nella citazione finale) rappresenta l'espediente per raccontare la storia dei nuovi miserabili, i poveracci del terzo millennio.
"I miserabili" è un film politico, pur non parlando mai di politica. È un film sull'ingiustizia sociale e sull'immobilismo sociale. Ci è stato già detto da altre opere anche cinematografiche (o dalla stessa cronaca quotidiana) che chi nasce in questi posti è quasi destinato dalla nascita ad una vita misera; questo film però va oltre e ci costringe a guardare e a riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni.
L'abuso di potere, i continui soprusi e ingiustizie non fanno altro che incattivere chi li subisce: odio, violenza e consecutiva delinquenza.È un circolo vizioso da cui sembra non esserci via di scampo. E anche quel poliziotto nuovo nel quale noi spettatori riponiamo inconsciamente le nostre speranze sembra farsi travolgere.Questo è sicuramente un altro tema, la frustrazione delle forze dell'ordine e gli episodi di abuso di cui si sono ahimé resi protagonisti, facendo emergere un problema che tuttavia non si è ancora voluto affrontare a livello politico e strutturale.
Alla fine tutti ne escono sconfitti, e io credo che miserabili per il regista siano anche quei tre poliziotti. Loro come quei ragazzini sono prodotti di una società malata e fortemente ingiusta. E in questo senso interpreto la citazione finale, "non c'è erba cattiva nè uomini cattivi, ci sono solo cattivi educatori". Anche i poliziotti hanno avuto cattivi educatori.La linea di confine tra buoni e cattivi appare sbiadita e noi spettatori assistiamo al finale non più sicuri sul da che parte stare.
Il mondo è ancora diviso tra uomini che hanno una scelta e uomini che non ce l'hanno.
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diego
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giovedì 21 maggio 2020
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chi i “piccoli“ e chi i “grandi”..?!
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È la prima volta che sono d’accordo ad una sua recensione. Film che ricorda “ l’odio”. Ma con un messaggio chiaro nel finale chi sono i “piccoli” e chi i “grandi”..?!
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ashtray_bliss
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domenica 10 maggio 2020
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la rabbia dei miserabili in rivolta.
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Risuonano oggi più che mai attuali le parole espresse da Victor Hugo che chiudono questo bellissimo ma dolente e realistico lungometraggio: Non ci sono ne' uomini ne' erbe cattive, soltanto cattivi coltivatori. Un messaggio talmente essenziale e semplice che racchiude il significato del film girato dal regista Ladj Ly, anch'egli proveniente da una delle tante banlieue parigine, che tornano a far parlare di sè quando esplode la rabbia, la violenza, le sommosse. Uno stato dentro lo stato fatto di regole proprie, usi e costumi intrinsecamente legati coi paesi d'origine dei suoi abitanti, unificati dalla religione comune (l'Islam) e fomentati dal disagio nel quale versano.
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Risuonano oggi più che mai attuali le parole espresse da Victor Hugo che chiudono questo bellissimo ma dolente e realistico lungometraggio: Non ci sono ne' uomini ne' erbe cattive, soltanto cattivi coltivatori. Un messaggio talmente essenziale e semplice che racchiude il significato del film girato dal regista Ladj Ly, anch'egli proveniente da una delle tante banlieue parigine, che tornano a far parlare di sè quando esplode la rabbia, la violenza, le sommosse. Uno stato dentro lo stato fatto di regole proprie, usi e costumi intrinsecamente legati coi paesi d'origine dei suoi abitanti, unificati dalla religione comune (l'Islam) e fomentati dal disagio nel quale versano. Ecco allora che ispirandosi alle vere rivolte nate dalle banlieues nel 2005 (ma in realtà non ne abbiamo mai smesso di parlare) il regista francese originario del Mali fotografa con amaro e vivido realismo uno spaccato di vita di Montfermeil, il quartiere povero e degradato nel quale si svolge l'azione della sua prima pellicola.
La storia ruota attorno ad un esiguo gruppo di poliziotti, incluso il neofito Stephane, col compito di pattugliare il quartiere in questione e tutto sembra procedere "normalmente" sin quando una progressiva escalation di tensione e violenza si verrà a instaurare a causa di un leoncino rubato da un circo ambulante di Rom. Evento che porta la polizia sulle traccie dei giovani abitanti del quartiere, incluso il piccolo Issa, l'autore del singolare furto. Ma l'episodio darà presto origine ad una tensione, crescente e già palpabile, tra abitanti e forze dell'ordine che sfocerà nella mezz'ora finale in una vera e propria esplosione di violenza e rabbia che sigilla l'amaro epilogo di questo crudo, realistico e teso thriller urbano.
Il regista mette così in evidenza e in discussione, senza prese di posizione scontate o schieramenti ideologici prevedibili, le ripercussioni e conseguenze dell'emarginazione sociale, del disagio, del senso d'ingiustizia subita da parte della popolazione di uno dei quartieri più violenti della capitale francese. Attraverso il registro asciutto e schietto che assume la pellicola, Ly, ci catapulta nel vivo di una realtà parallela, sporca, tesa, sorretta da scambi illegali, micro e macrocriminalità che godono del tacito appoggio della polizia locale in uno schema che sembra destinato a ripetersi ad oltranza, senza offrire una concreta via d'uscita dalla condizione di degrado che si traduce in forma mentale prima che materiale (difatti, gli abitanti non vengono mai esplicitamente descritti come poveri). La loro gabbia è in primis di natura mentale e sociale; un gruppo eterogeneo di ragazzi che cresce privo di aspirazioni e speranze, privo di valori sociali, orientamenti e guide, con gli adulti che sono i grandi assenti dall'educazione impartita loro. In questa giungla che nutre il senso di esclusione dal tessuto sociale francese alimentando risentimento e rabbia i ragazzi si sentono intrappolati all'interno di una sistema dal quale pare impossibile fuggire. Un mondo regolato dalle proprie regole dove ogni situazione nuova è potenzialmente pericolosa o esplosiva, specialmente quando la polizia si trova a dover pattugliare la zona giorno e notte.
Armato di coraggio e grande senso narrativo, mescolando egregiamente gli elementi a sua disposizione, inclusa una necessaria dose di ironia e humor specialmente nella prima parte del lungometraggio, Ly, cambia rapidamente registro enfatizzando il dramma sociale che sfocia in un vero e proprio thriller poliziesco, colmo di tensione e suspense negli ultimi minuti che precedono il finale. Un finale che benchè sia stato appositamente lasciato alla libera interpretazione non lascia grandi spiragli di speranza accesi negli spettatori. In fondo, tutto ciò che precede la chiusura era un lungo, lento, ma implacabile rito di iniziazione non esclusivamente alla violenza quanto alla ribellione, in un tentativo estremo e ingiusto di far sentire la propria voce e rivendicare i propri diritti quando tutti gli altri canali per farlo sembrano esauriti.
Ly, realizza così con taglio semi documentaristico un film di denuncia sociale che solleva riflessioni più che mai attuali su come il nascere, crescere e vivere in quartieri degradati e poveri promuova e inculchi un certo tipo di mentalità, specialmente nei più piccoli e giovani, i quali si sentono intrappolati in un mondo tanto vicino quanto distante e diverso da quello che la società impone e promuove. La violenza, la mancanza di aspettative, di fiducia nel futuro, di educazione rigenerano generazione dopo generazione gli stessi comportamenti sociali, gli stessi stereotipi, danneggiando irreparabilmente il loro futuro.
Il taglio realistico e duro dona verosimiglianza, nonostante venga scandito da passaggi che alleggeriscono il tono disilluso del racconto e garantisce il fluire della trama all'interno di questo universo tetro dove la tensione aumenta gradualmente sino a sfociare nel caos incontrollabile e implacabile del finale. Ancorato strettamente alla difficile realtà dei luoghi che egli stesso conosce bene, Ly, ci regala un dramma urbano serrato, violento e ancora più disperato, dove la disperazione si traduce nell'impossibilità di cambiare situazioni e schemi destinati a ripetersi.
Intenso e memorabile, supportato da una straordinaria fotografia e regia, ruvida, verosimile e concreta e coadiuvato da interpretazioni intense. Da vedere e riflettere; 4/5.
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