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Captive State, il cinema è ancora capace di minare le nostre certezze

Per la prima volta in un film americano gli eroi sono esplicitamente dei kamikaze, che uccidono senza discriminare. Da giovedì 28 marzo al cinema.
di Emanuele Sacchi

Captive State

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Ashton Sanders (Ashton Durrand Sanders) (29 anni) 24 ottobre 1995, Carson (California - USA) - Scorpione. Interpreta Gabriel nel film di Rupert Wyatt Captive State.
mercoledì 27 marzo 2019 - Focus

Nel magico mondo del web, bello soprattutto in quanto vario, capita anche di leggere che "Captive State sia il film dell'anno sino a qui". Considerato che siamo a marzo, suona come un concetto quantomeno effimero, oltre che frutto di un'evidente tendenza all'esagerazione e al clamore acchiappa-click. Ma nasconde una possibile aura da cultizzazione che accompagna come un amico invisibile il film di Rupert Wyatt. Un regista (e qui anche co-sceneggiatore, insieme alla moglie Erica Beeney) già avvezzo al processo di trasformazione silenziosa in cult, dopo il successo di L'alba del pianeta delle scimmie, che resta - ad oggi - uno degli esempi più riusciti di reboot, specie considerato il precedente tentativo e semi-fallimentare tentativo di Tim Burton.

Come per le vicende di Cesare e delle altre scimmie antropomorfe, anche in Captive State la fanno da padrone estetica e narrazione da B movie, sbilanciamento tra approfondimento dei personaggi e gestione del pathos, necessità resa virtù su tutto quel che comporta il ricorso agli effetti speciali.
Emanuele Sacchi

Difficile rimanere terrorizzati da alieni accuratamente illuminati il meno possibile, ma il budget fa quel che può: se i 22 milioni di dollari di Captive State possono sembrare una cifra da produzione medio-grande, infatti, bisogna paragonarla a quel che oggi - dopo la disney-marvelizzazione dell'universo cinematografico - è il budget tipico di un blockbuster di fantascienza. Sotto i 100 milioni di dollari, in genere, non ha luogo d'essere alcuna simulazione filmica di invasione planetaria.

Eppure, nonostante indubbi limiti di montaggio e fluidità, benché la stessa produzione si sia dimostrata scettica fino all'ultimo - uscita posticipata, proiezioni stampa annullate, embargo prolungato - Captive State si presta terribilmente all'ideale chiacchiera post visione, da "bar del cinema", a quella antica abitudine che include interpretazioni più o meno strampalate e letture più o meno politiche. Materia ideale per fare del film di Wyatt un sub-cult destinato a crescere.


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In foto una scena del film Captive State.
In foto una scena del film Captive State.
In foto una scena del film Captive State.

Perché Captive State non fa niente per nascondere, o meglio, fa di tutto per evidenziare, la propria filiazione dal cinema di lotta di John Carpenter o Brian Yuzna. L'allegoria usata come strumento più antico del mondo per raccontare quel che non va nel nostro presente, nascondendolo in situazioni archetipiche o di fantasia. Perché gli alieni, i Legislatori, si vedono poco e spaventano ancor meno, al di là di un cacofonico scricchiolio? Perché il vero villain, l'obiettivo della paranoia da invasione sta altrove, come stava altrove quando orde di radioascoltatori impazzirono di fronte alla voce di Orson Welles che recitava "La guerra dei mondi". Ieri era la guerra fredda, oggi è un potere più occulto e nascosto.

La divisione in caste della società e l'inguaribile tendenza al trasformismo caratterizzano l'invettiva di Wyatt, con più di un legame con La notte del giudizio e suoi sequel sempre più esplicitamente politici. Un potere invisibile, sotterraneo: una rete di spie che osserva ovunque e si accanisce sugli elementi marginali e svantaggiati della società. Il tipico scenario da sci-fi distopica con l'aggravante di una sensazione di disperata irreversibilità, che porta allo strappo più violento della visione di Wyatt.

Per la prima volta in un film americano, infatti, gli eroi sono esplicitamente dei kamikaze, che provocano vittime anche tra i collaborazionisti umani, tra cittadini americani, oltre che tra gli alieni. Gli atti autodistruttivi di questi neo-martiri di Chicago richiamano esplicitamente a metodi e immagini da sempre associati all'incubo ricorrente della storia americana recente. Dai caccia Zero pilotati dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale ai terroristi islamici e non degli ultimi decenni la superpotenza è stata seriamente minacciata solo dall'azione suicida di singoli individui.

Con coraggio mirabile Wyatt mette in scena un sistema che, per larghi tratti, riproduce quanto compiuto dagli Stati Uniti e dagli alleati occidentali in Medio Oriente, arrivando quindi a capire, se non a giustificare, gli atti di disperazione portati a termine da popoli privi di vie d'uscita. Che derivino da qui, più che da un effettivo timore di ritorno commerciale, le paure di Dreamworks e Amblin Entertainment? Che si debba a questo una strategia talmente prudente da risultare controproducente per la divulgazione del film? Materia da "bar del cinema", appunto. Ma è una lieta notizia apprendere che il cinema sia ancora in grado, anche in opere fragili o minori ma in qualche modo eversive, di minare le nostre certezze, di approfondire le nostre paure. Captive State, nonostante tutto, ci riesce.


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