Ad Astra si colloca in quel filone di fantascienza antropocentrica che pone interrogativi e questioni esistenziali, introspettive, filosofiche e morali sulla natura dell'uomo, su quale sia il suo destino e futuro e che sopratutto cerca di scavare e di indagare nel profondo di quel abisso siderale e insondabile come lo spazio che altro non è se non l'animo umano. Fantascienza d'eccellenza di questa tipologia abbiamo ritrovato in Moon (2009), Arrival (2016), High Life e Aniara (2018) e su quel insuperabile capolavoro di Interstellar (2014) dove lo sguardo, quasi paradossalmente, non è rivolto alle stelle, agli esopianeti, alle galassie ma è un espediente narrativo per guardarsi dentro, indagare la vera essenza della natura umana con tutte le sue sfumature e i suoi difetti.
James Gray conferma di essere un regista coraggioso e orientaAd Astra nella giusta direzione, seppur senza riuscire a pareggiare o raggiungere il livello di tutti i film precedentemente menzionati, e il suo racconto, la sua ricerca d'identità e catarsi ai confini della nostra galassia, risulta un viaggio tecnicamente ben realizzato, visivamente suggestivo ed eloquente ma poco coinvolgente sul piano emotivo, privo di quel necessario alone di mistero e di quella vena di suspense, che invero, pregna il racconto all'inizio ma si attenua fino a spegnersi del tutto da metà pellicola in poi. Sono il coinvolgimento, il pathos, il fascino i grandi elementi assenti dall'opera, intimista e riflessiva.
In questo, certamente personale, capitolo James Gray crea uno spazio dove esplora argomenti e situazioni intrinsecamente umane quali l'assenza di un genitore e il vuoto, devastante ma insidioso che lascia, il dedicarsi anima e corpo al lavoro trascurando gli affetti più cari presenti, l'nseguire una precisa carriera un po' per passione e ambizione personale e molto per mantenere fede alle orme tracciate dal genitore (padre) ed infine esplora anche le conseguenze personali dell'annichilirsi, seppellendo i propri sogni e ambizioni, per trasformarsi in quel idolo di uomo e genitore che si è venuto a creare nella nostra mente. Questi gli argomenti trattati in questa lunga e catartica seduta di psicanalisi dove lo spazio e le missioni inerenti alla sua esplorazione diventano presto dei semplici espedienti narrativi, dove i co-protagonisti di Roy (Brad Pitt) si limitano ad essere mere comparse all'interno di un viaggio che il protagonista deve per forza affrontare da solo, risolvendo i conflitti interiori che ha da tempo seppellito, riaprire le vecchie ferite e fare i conti con una figura paterna assente ma che ha inciso sul proprio futuro, influenzando la scelta del percorso lavorativo e portandolo a commettere gli stessi errori del padre (trascurando chi gli sta accanto).
Ad Astra rappresenta il percorso di catarsi e maturazione personale di Roy McBride che parte dalla Terra con una missione precisa e in un contesto altrettanto preciso: individuare il padre, a capo di una spedizione partita oltre 30 prima per Nettuno, e possibilmente impazzito, per fermare le devastanti scariche di energia che provengono dalla sua stessa posizione e salvare l'umanità. Man mano che però il viaggio procede, con stazioni intermedie la Luna e Marte, Roy capisce che quello era solo un pretesto e il suo vero scopo e conoscere, affrontare e superare il trauma che la mancanza della figura paterna gli aveva lasciato come unica eredità. Il film, dunque, si sviluppa attorno all'esigenza di raccontare il vuoto interiore di un uomo che non ha mai saputo elaborare il trauma dell'abbandono del padre. L'esigenza di scoprire il perchè, di dare un senso ai suoi tormenti interiori e liberarsi finalmente da questo fardello.
Il ruolo di Roy pare costruito su misura per Brad Pitt, attore collaudato e qui maturo come non mai il quale fornisce una solida prova attoriale benchè rigorosa al punto da non lasciar trapelare alcuna emozione (come richiesto dallo script) tanto da ricordare vivamente l'interpretazione introversa di Gosling in First Man.
Tecnicamente eccellente; la regia, il montaggio, gli effetti speciali e la fotografia non lasciano dubbi riguardo la qualità dell'opera, Ad Astra vacilla a causa dell'assenza di un vero e proprio trasporto emotivo, di una connessione empatica e identificazione col personaggio e col suo dramma, per l'assenza di entusiasmo, coinvolgimento e reale interesse nei confronti del protagonista e della sua missione. Questa sterilità emotiva e poi accresciuta dall'aggiunta di passaggi incongrui, narrativamente deboli e assai poco credibili anche scientificamente (tra tutte, la scena dello "scudo" verso la fine era al limite del ridicolo). Debolezze stilistiche e narrative che vanno ad aggiungersi ad una di per se abbastanza superficiale rivisitazione del tema principale, ovvero il rapporto problematico tra padre-figlio, mentre le divagazioni filosofiche dovrebbero aggiungere spessore e profondità alla trama la rendono semplicemente verbosa e ridondante.
Ad Astra resta un prodotto ben confezionato, partito con un ottimo potenziale e nelle mani di un regista sapiente che avrebbe potuto farne un film davvero memorabile. Invece, si dimostra epidermico, povero ed elusivo, che non affronta in modo deciso nè gli aspetti fantascientifici, nè quelli filosofici. Resta quest'alone denso di malinconia che abbraccia ogni singola sequenza, le eloquenti riprese dello spazio, gli effetti speciali che ricreano gli ambienti di Marte e della Luna. Ma non bastano a salvare una sceneggiatura carente e una trasposizione inadeguata, povera, insoddisfacente. Nonostante la presenza di un cast di tutto rispetto, tra cui nomi di mostri sacri del cinema quali Tommy Lee Jones e Donald Sutherland accostati alle brave Liv Tyler e Ruth Negga, l'opera di Gray non riesce a raggiungere le stelle e nemmeno a ricalcare la potenza narrativa, visionaria e profonda, di un rapporto disfunzionale padri-figli come fece invece Nolan.
Una vera occasione persa che lascia un retrogusto di amarezza e intensa malinconia: 2,5/5.
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