Rapina a Stoccolma

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Non basta un eccelso Ethan Hawke Valutazione 2 stelle su cinque

di Lucio Di Loreto


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giovedì 22 agosto 2019

Robert Budreau replica grazie a “Rapina a Stoccolma” il sodalizio di “Born to be Blue” con Ethan Hawke, inarrivabile campione introspettivo dalla strabiliante carriera, divisa tra recitazione, regia, scrittura e sceneggiatura, concludendo ognuna di queste imprese dando il massimo delle sue enormi potenzialità, che equivale a rendere di nicchia ogni interpretazione, comprese quelle più commerciali e facili. Purtroppo il risultato tra i due lungometraggi è equivalente, col funambolico protagonista a fare il bello e cattivo tempo, oscurando i suoi partner, la direzione artistica e la debole scrittura non originale, sia nell’estrapolare i tormenti di Chet Baker, che nel mimare goliardicamente il suo Kaj Hansson, rapinatore di banche molto glamour e dall’atteggiamento seventies. Il giovane regista canadese si esibisce anche stavolta dietro la macchina da presa, in produzione e dettando i dialoghi ai suoi interpreti, prendendo spunto da un articolo di Daniel Lang sul “The New Yorker” del 1975, relativo all’origine dell’espressione “sindrome di Stoccolma”, rifacendosi dunque alla rapina della Sveriges Kredit Bank, avvenuta nel 1973. L’esuberante gangster infatti, prende in ostaggio tre dipendenti, instaurando un legame amoroso con uno di loro. Da qui lo stato di totale dipendenza psicofisica che la vittima di violenze fisiche, mentali e verbali manifesta in alcuni casi col proprio carnefice, sottomettendosi volontariamente a lui, fino a provare affetto nei suoi confronti. Qui c’è il primo grosso errore di trama, con la rivelazione quasi istantanea durante il prologo di quello che accadrà da lì a poco, con la Bianca di Noomi Rapace assolutamente fuori contesto e annunciatrice del gossip sin dal primo sguardo. I discorsi, appositamente studiati così, confondono lo spettatore dandogli un senso sdrammatizzante in ogni azione, sia nell’atteggiamento da rock-folk star alla Dylan di Ethan-Lars che in quello impaurito senza però la ben che minima convinzione della rapita e futura fiamma, dagli accordi e contatti quasi trash col negoziatore di turno per arrivare al rapporto fraterno con Gunnar, un sempre eccellente Mark Strong, partner in crime tenuto dal director troppo in disparte, fino a farsi oscurare dal compagno di avventura, uno adulto e l’altro ancora bambino. Lars si prende la scena immediatamente, dall’arrivo in barca, mentre si traveste, fin quando allestisce il suo palco dentro la banca, con radiolina sul tavolo, mitragliatrice in mano, parruccone in testa e giacca di pelle! Hawke è affascinato come non mai nel dare carisma e spessore al ladro gentiluomo, tanto sicuro di sé quanto maldestro e impacciato, chiudendo il suo exploit dentro un penitenziario, stavolta in modo calmo e misurato, allorquando si congeda col suo “ostaggio”. La quasi totale mancanza di piani sequenza rende la pellicola monotona, al pari della scrittura priva di hype che punta solo alle gag attoriali, così come le inquadrature sono semplici fotogrammi dove i protagonisti costruiscono la loro storia; le interpretazioni come detto, danno fin da subito l’idea di quel che sarà, con i rapiti a fidarsi più dei loro rapinatori che delle forze dell’ordine piene di gas. In un lungometraggio girato su pochi frame per esaltare frasi e trama, si lascia solo alla recitazione il fardello di far girare le lancette nel verso giusto, ma se ciò non avviene nella totalità, si rischia di rimanere a lodare le capacità di pochi singoli, loro sì soddisfatti di tanto spazio. Senza colpi di scena in regia, dialoghi forti e bravura interpretativa di tutto il cast, il massimo a cui si può aspirare è fare il verso alle eccellenze del passato (“Dog Day Afternoon”), rimanendo unicamente ad ammirare l’ennesima performance di uno dei migliori attori della sua generazione. Meglio di niente!

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