francescameneghetti
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sabato 23 febbraio 2019
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una ribelle sotto traccia
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Il film "Copia originale", della regista Marielle Heller, ispirato a una storia vera del 1991, ci procura anzitutto una piacevole full immersion nelle atmosfere di una New York che pare retrodatata, dai colori autunnali e vicina agli stilemi di Woody Allen: strade alberate, qualche stralcio del Central Park, diversi autobus, ma soprattutto molti interni: librerie antiquarie, biblioteche, bar e ristoranti scuri e accoglienti, un appartamento vecchiotto con un immancabile gatto e tanti tanti libri ovunque. Per non parlare delle macchine da scrivere che sovrastano un solo pc su cui lampeggia il vecchio programma di WordStar. Il tutto accompagnato da una colonna sonora discreta e anch’essa “allenesque”.
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Il film "Copia originale", della regista Marielle Heller, ispirato a una storia vera del 1991, ci procura anzitutto una piacevole full immersion nelle atmosfere di una New York che pare retrodatata, dai colori autunnali e vicina agli stilemi di Woody Allen: strade alberate, qualche stralcio del Central Park, diversi autobus, ma soprattutto molti interni: librerie antiquarie, biblioteche, bar e ristoranti scuri e accoglienti, un appartamento vecchiotto con un immancabile gatto e tanti tanti libri ovunque. Per non parlare delle macchine da scrivere che sovrastano un solo pc su cui lampeggia il vecchio programma di WordStar. Il tutto accompagnato da una colonna sonora discreta e anch’essa “allenesque”.
La storia è quella di Lee Israel, scrittrice in difficoltà economiche dopo il licenziamento, che si inventa un modo creativo ma truffaldino per sopravvivere, falsificando lettere private di scrittrici e scrittori famosi, con una particolare predilezione per Dorothy Parker, fino ad essere scoperta.
Il film ruota attorno a tre temi principali: il rapporto tra la scrittura narrativa e l’alcol (ovvero tra scrittore e mondo reale, da cancellare); l’illusione della verità creata dalle falsificazioni; il rovesciamento del profilo della diva cinematografica.
Quanto al primo punto, è diventato uno stereotipo l’associazione tra scrittore e bicchiere di whisky o di vino, specie nella letteratura americana (non perché gli statunitensi bevano più degli europei, ma perché la rappresentazione di questo rapporto è stata più marcata). Basti pensare a Edgar Allan Poe, Jack London, Hemingway («write drunk, edit sober»), Fitzgerald, Truman Capote Jack Kerouac, Charles Bukowski e molti altri. Esiste in questa schiera di autori alcol dipendenti anche una nicchia formata da donne, come Dorothy Parker, Anne Sexton, Patricia Highsmith e la stessa protagonista della nostra storia.
Indubbiamente la donna che scrive con il bicchiere di whisky in mano (la scena iniziale del film) tende a ricalcare un modello maschile. Può essere vista come un’affermazione di indipendenza e di rifiuto di stereotipi femminili. Questa interpretazione è esasperata in Lee – magnificamente interpretata da Melissa McCarty - anche sotto altri punti di vista: linguaggio volgare e cazzuto, la trasandatezza della persona e della casa, il marcato rifiuto di ogni forma di eleganza o di glamour. Per certi versi ricorda Mildred - Frances McDormand - la protagonista di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, sempre con la stessa tuta da lavoro. A ciò si aggiunge un carattere non facile, ma che sarebbe ingiusto definire “odioso” (come ho letto). Lee è in conflitto con la realtà in cui vive: non ama le ipocrisie e le persone boriose e ricche (da povera). Oggettivamente ama la solitudine, e la sua gatta, ma misantropa è diventata a forza di frequentare certi ambienti. O per vicende della sua vita pregressa che vengono appena accennate. Tant’è che può entrare in sintonia con persone in qualche modo autentiche, come lo strampalato, raffinato, squattrinato Jack Hock, il quale diventa suo amico di bevute e anche complice nelle truffe. Ma anche come la giovane e delicata libraria, lettrice sensibile e aspirante scrittrice. Lee, dunque, pur sciatta, grassa e culona, si affaccia al mondo con occhi di bambina, curiosi, incantati e suscita tenerezza e simpatia, anche quando combatte la sua lotta per la sopravvivenza con le uniche armi di cui dispone: l’intelligenza, la creatività, la padronanza della scrittura. Siamo dunque ben lontani dalla femme fatale, e per fortuna!
Infine il tema della falsificazione, in tempi di fake, risulta molto attuale, così come gli errori dei presunti autenticatori. Ma la personalità dell’attrice protagonista, associata alla verità della storia, hanno il peso maggiore, così da farlo retrocedere. Film da vedere!
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eugenio
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giovedì 14 febbraio 2019
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il potere verosimile della scrittura
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All’inizio vediamo una, cinica, sporca e maleducata donna sulla cinquantina impegnata, mentre corregge bozze, a bere e a scatenare improperi verso il proprio superiore e le sue colleghe; poi, quasi istantaneamente, la stessa viene licenziata e con più debiti di Paperino (un po’ le assomiglia anche caratterialmente anche se i tre nipotini sono sostituiti da un’anziana gatta) si mette a cercare un lavoro nella New York degli anni ’90.
Non è così facile, un pò come oggi. C’è un appunto però: la donna in questione è Lee Israel (dal volto di Melissa Mc Carthy), una scrittrice di biografie di donne eccelse, personalità di spicco come Katharine Hepburn o Estee Lauder.
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All’inizio vediamo una, cinica, sporca e maleducata donna sulla cinquantina impegnata, mentre corregge bozze, a bere e a scatenare improperi verso il proprio superiore e le sue colleghe; poi, quasi istantaneamente, la stessa viene licenziata e con più debiti di Paperino (un po’ le assomiglia anche caratterialmente anche se i tre nipotini sono sostituiti da un’anziana gatta) si mette a cercare un lavoro nella New York degli anni ’90.
Non è così facile, un pò come oggi. C’è un appunto però: la donna in questione è Lee Israel (dal volto di Melissa Mc Carthy), una scrittrice di biografie di donne eccelse, personalità di spicco come Katharine Hepburn o Estee Lauder. Una volta però: il suo best-seller ora giace tristemente nel reparto delle offerte al 75% e la sua agente non sembra molto propensa ad accettare l’intenzione della donna di dedicarsi a una nuova biografia e soprattutto a fornirle un congruo anticipo per l’inizio della medesima.
Mandata al diavolo anche lei con eleganza e scioltezza, Lee si trova a dover fare i conti con la vita quotidiana e soprattutto con la sua misantropa intraprendenza. Incappata per sbaglio in una lettera autografata di Fanny Brice nascosta tra tomi di una biblioteca e rivenduta per settantacinque dollari a una libreria antiquaria, le viene in mente una bizzarra quanto criminale idea: inventarsi, quando la macchina da scrivere non era ancora stata sostituita dal computer, delle lettere inedite da rivendere (rigorosamente in contanti!) a librerie antiquarie interessate a oggetti da collezione con l’aiuto e la complicità di un adorabile mascalzone (anch’esso dall’elevato tasso alcolemico ben reso da Richard E.Grant), sfruttando il suo talento innato di scrittrice-biografa. Fino a quando l’FBI inizia a subodorare l’imbroglio dopo un’autenticazione troppo scrupolosa e a mettersi sulle sue tracce.
Basato su una storia vera da cui è stato tratto il romanzo: Can You Ever Forgive Me scritto dalla stessa Lee Israel, il film di Marielle Heller ci mostra il ritratto di una donna irascibile quanto adorabile e biecamente fiera di essere solitaria ma soprattutto ci fa riflettere sul potere della scrittura e sulla capacità duttile di modificar la realtà, fittizia, grazie all’estro artistico che spesso non fa rima con fama.
Sullo sfondo, i mitici anni ’90, della carta stampata in grande auge, in cui la paura di emergere, di esporsi pur essendo penna di qualità, diventava sinonimo di presenza. Non viveva più il mistero della penna, dell’autrice che si trincerava dentro la torre d’avorio del suo scrittoio ma l’immagine che essa dava al pubblico negli incontri in libreria e il modo di porsi appunto con i possibili acquirenti. Lee non è mai stata una venditrice, tutt’altro. Schietta e determinata, imbrogliona e capace di falsificare, la donna messa in scena da Mc Carthy non è preda di conformismi e risposte di facciata che possano compiacere agenti e editori ma di deliri comici di gigionismo e di malinconia.
Ed è su di essa che l’intera pellicola, tra un whisky e gin, scorre. Nei fiumi d’alcol tra i due complici si leggono vite solitarie, incapaci di trovare un posto nella conformista società dalla quale in bar e locali di dubbia morale, si elevano in una truffa di cui si sa già l’esito. Se si deve far di necessità virtù, allora il film della Heller, è una graziosa quanto frizzante pellicola in cui si ride, ci si indigna, ci si commuove (attenzione al gatto!) e perché no, si perdona. Perché nonostante tutto, è impossibile rimaner indifferenti al fascino di questa anti-eroina e condannarla nonostante tutto. Dal 21 febbraio al cinema.
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zarar
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giovedì 7 marzo 2019
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alla fine la perdoniamo
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Coinvolgente interpretazione di Melissa McCarthy, nel film la scrittrice biografa Lee Israel che, in un momento di crisi creativa e conseguente grave difficoltà economica, agli inizi degli anni ’90, divenne una falsaria di lettere autografe di celebri scrittori, attività che esercitò per un certo periodo con successo, abile com’era nell’immedesimarsi nella personalità degli interessati, al punto di ingannare a lungo compratori e collezionisti. La Israel parlò poi di questa esperienza in un libro, che è alla base della sceneggiatura di questo film. La McCarthy interpreta con ricchezza di sfumature una Lee ridotta alla fame, ma ostinatamente legata al suo destino di scrittrice come unico destino possibile, anche se momentaneamente bloccato e incompreso.
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Coinvolgente interpretazione di Melissa McCarthy, nel film la scrittrice biografa Lee Israel che, in un momento di crisi creativa e conseguente grave difficoltà economica, agli inizi degli anni ’90, divenne una falsaria di lettere autografe di celebri scrittori, attività che esercitò per un certo periodo con successo, abile com’era nell’immedesimarsi nella personalità degli interessati, al punto di ingannare a lungo compratori e collezionisti. La Israel parlò poi di questa esperienza in un libro, che è alla base della sceneggiatura di questo film. La McCarthy interpreta con ricchezza di sfumature una Lee ridotta alla fame, ma ostinatamente legata al suo destino di scrittrice come unico destino possibile, anche se momentaneamente bloccato e incompreso. Ce la troviamo davanti goffa ma indomita, troppo spesso con un bicchiere in mano, con la sua rabbia e il suo orgoglio compressi nella misantropia e nel sarcasmo, ormai incapace di accettare bontà e candore anche dove lo trova, perché non se lo può permettere, eppure sensibile con le creature ancora più indifese e infelici di lei, come la vecchia gatta malatissima o l’amico gay Jack Hoch, un tenero disperato senza fissa dimora. Una regia accurata disegna con efficacia i luoghi chiave della sua parabola discendente nel milieu letterario newyorkese: l’appartamento un tempo trendy, ora sporco e trascurato, i party di lavoro, gli squallidi fast food e le sale solenni della City Library, le strade gelide di Manhattan in inverno, le raffinate librerie e i bar equivoci. Nella buona caratterizzazione del personaggio e del suo ambiente, ricca di echi letterari, il film ha i suoi meriti migliori, anche se il focus vero e proprio è la truffa di cui Lee, messa alle corde dal bisogno, si fa protagonista: la contraffazione di lettere di personaggi noti smerciate a caro prezzo con la complicità di Jack Hoch. Anche in questo caso, però, è il personaggio Lee a fare la parte del leone. Più che il divertimento legato alla spudoratezza dell’impresa e alla suspense per il rischio che Lee e Jack corrono ogni volta, ci fa sorridere la sotterranea soddisfazione con cui la protagonista, lavorando a questa attività truffaldina, valorizza – nel gioco della simulazione - la sua competenza di biografa e la sua capacità di scrittura, trascinandoci involontariamente dalla sua parte. E così non possiamo non essere dalla sua parte quando fa pagare un prezzo ad interlocutori non propriamente innocenti... Proprio per questo, più efficace del titolo italiano ci appare quello originale. “Can You Ever Forgive me?” Yes, we can. Un film gradevole.
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felicity
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martedì 6 aprile 2021
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un film che oscilla continuamente fra i generi
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Copia originale è un film molto interessante e ha ricevuto ben tre nomination agli Oscar (migliore attrice protagonista, miglior attore non protagonista e miglior sceneggiatura non originale)
Un genere molto inflazionato negli ultimi decenni, quello dei biopic, raramente però ci si imbatte in prodotti dalla profondità di Copia originale.
Il film racconta la vera storia di Lee Israel (Melissa McCarthy), biografa in declino economico e sociale nella New York degli anni ’90.
Quello che salta subito all’occhio è l’ottimo lavoro di scrittura. I personaggi sono ispirati, scavati nel profondo, veri. Un merito però che non si ferma alla fase di scrittura, ma che va attribuito anche ai due attori principali.
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Copia originale è un film molto interessante e ha ricevuto ben tre nomination agli Oscar (migliore attrice protagonista, miglior attore non protagonista e miglior sceneggiatura non originale)
Un genere molto inflazionato negli ultimi decenni, quello dei biopic, raramente però ci si imbatte in prodotti dalla profondità di Copia originale.
Il film racconta la vera storia di Lee Israel (Melissa McCarthy), biografa in declino economico e sociale nella New York degli anni ’90.
Quello che salta subito all’occhio è l’ottimo lavoro di scrittura. I personaggi sono ispirati, scavati nel profondo, veri. Un merito però che non si ferma alla fase di scrittura, ma che va attribuito anche ai due attori principali. la McCarthy e Grant danno magnificamente vita a due personaggi unici, che catturano la nostra attenzione dal primo frame in cui compaiono. I due si muovono in una New York pulsante, dipinta con estrema eleganza dalla Heller. Una città fredda, dura, contrapposta al calore confortante delle librerie e della casa di Lee, portandoci con estrema facilità all’interno del mondo narrato.
Lee è cinica, schietta, riservata. Odia i costumi del suo ambiente di lavoro, rimanendone sempre al limite di quel milieu, così come rimane al bordo della società tout court. Ma è anche particolarmente estrosa e dotata di una penna ed un carattere tagliente, alle volte fin troppo. Jack è invece molto estroverso, ma condivide con Lee un’esistenza sempre fra le righe, oltre ad una certa passione per il whisky. Sono loro il grande motore che fa funzionare così bene il film. Non si può infatti non entrare in empatia con i due, sebbene entrambi possano apparire piuttosto controversi. Due anime essenzialmente solitarie che si ritrovano a vivere in un mondo che non riconosco più (se mai lo è stato) loro.
Un film che oscilla continuamente fra i generi. Essenzialmente drammatico, riesce però a non prendersi troppo sul serio ed a strapparci più di qualche sorriso in certi momenti, passando per il buddy movie. È forse anche per questo che l’opera non annoia mai e distinguendosi da molti film biografici per la sua capacità di cambiare continuamente registro in favore dei momenti narrativi.
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lucio di loreto
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lunedì 15 aprile 2019
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gli ultimi saranno i primi
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La storia di Lee Israel - un’eccezionale Melissa McCarthy - underdog per scelta, sociopatica e innamorata della bottiglia, ci viene raccontata con la bellissima New York di trent’anni fa sullo sfondo, che con le sue mille luci e colori, i marciapiedi da cui brillano le insegne di meravigliosi locali, salotti e pub, amplifica da un lato l’incanto della Grande Mela e dall’altro il dramma delle vite da marciapiede. Il blocco dello scrittore che pervade la nostra protagonista, il lavoro perduto e un successo letterario mai raggiunto la porteranno proprio a doversi arrangiare per riuscire ad evadere una difficoltà sia lavorativa che economica nonché a “sopravvivere” nel senso reale del termine.
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La storia di Lee Israel - un’eccezionale Melissa McCarthy - underdog per scelta, sociopatica e innamorata della bottiglia, ci viene raccontata con la bellissima New York di trent’anni fa sullo sfondo, che con le sue mille luci e colori, i marciapiedi da cui brillano le insegne di meravigliosi locali, salotti e pub, amplifica da un lato l’incanto della Grande Mela e dall’altro il dramma delle vite da marciapiede. Il blocco dello scrittore che pervade la nostra protagonista, il lavoro perduto e un successo letterario mai raggiunto la porteranno proprio a doversi arrangiare per riuscire ad evadere una difficoltà sia lavorativa che economica nonché a “sopravvivere” nel senso reale del termine. Can you ever forgive me? è basato sul libro omonimo e autobiografico che è valso per la scintillante sceneggiatura non originale una candidatura all’oscar a Jeff Whitty e Nicole Holofcener. L’attrice riesce grazie a dialoghi mai banali a far trasparire il crescente dramma di una donna non bella, grassa, riservata e ormai emarginata, che non ha nemmeno il mese d’affitto in tasca da poter pagare, a reagire di fronte ad una città talmente magnifica ma fredda, distante e indifferente verso i problemi umani e muta perciò di fronte al suo destino. Al suo fianco Jack, un impeccabile Richard E. Grant, omosessuale compagno di bevute e di ingegno, anche lui un perdente segnato dalla vita. La scrittura riesce ad omaggiare l’arte in tutte le sue sfaccettature, compresa quella di Lee che la trasforma in furto, creando falsi che nessuno riesce a riconoscere ma a cui tutti vogliono credere, che siano Brice, Coward o Dorothy Parker. La pellicola, molto più drammatica che commedia, riesce così a movimentarsi e a diventare quasi una sorta di action movie sulla capacità di arrangiarsi in un mondo, quello dei collezionisti, talmente snob e altolocato, da trasformarsi quasi in un pozzo dal quale attingere soldi e ricchezza, sfruttando proprio la cecità e la brama di chi, a costo di possedere cimeli, acquista invece aria fritta. La straordinaria abilità di “Melissa” Israel a scrivere lettere taroccate ne accresce l’autostima che la porterà in un finale spettacolarmente commovente a uccidere il suo vecchio blocco. I due attori portano sul grande schermo magnificamente con ciniche battute e un drink di troppo i lunatici sentimenti che li caratterizzano, le riflessioni intrinseche, la solitudine e il bipolarismo, omaggiando quella città che alle proprie spalle si diverte quasi a vederli ridere soddisfatti dei loro misfatti ma anche piangere a crepacuore una volta giunti davanti allo specchio di casa a giornata finita. Uno straordinario spaccato sugli ultimi della vita, su chi si sveglia all’alba senza sapere dove si andrà a sbattere, senza obiettivi e con mille rimpianti su quel che non è stato e non sarà mai! Un film che diventa struggente, semplice, autoironico, triste e crudo come pochi, grazie a due interpretazioni che rimarranno nella storia e alla macchina da presa di Marielle Heller, che in modo asfissiante ed invadente agguanta oggetti, macchina da scrivere, lacrime, rughe e il peso opprimente di essere un loser in cerca di riscatto.
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jl
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sabato 20 aprile 2019
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la banda degli onesti
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La scrittrice Lee Israel ha da poco perso il suo lavoro come correttrice di bozze presso il New Yorker e per sbarcare il lunario inizia, assistita da Jack Hock, un pusher senza fissa dimora, a creare finta corrispondenza di artisti famosi da rivendere a esperti antiquari. Quando tutto pare andare per il meglio una prima segnalazione giunta all'FBI inizia a generare i primi sospetti riguardo le lettere venduta da Lee.
La scrittrice Lee Israel era in vita tanto odiosa come la Melissa McCarthy che la interpreta sul grande schermo? Chi l’ha realmente conosciuta è pronto a dire senza tema di smentita di sì e ad affermare che l’attrice comica originaria di Plainfield abbia saputo impersonarla come meglio non si poteva.
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La scrittrice Lee Israel ha da poco perso il suo lavoro come correttrice di bozze presso il New Yorker e per sbarcare il lunario inizia, assistita da Jack Hock, un pusher senza fissa dimora, a creare finta corrispondenza di artisti famosi da rivendere a esperti antiquari. Quando tutto pare andare per il meglio una prima segnalazione giunta all'FBI inizia a generare i primi sospetti riguardo le lettere venduta da Lee.
La scrittrice Lee Israel era in vita tanto odiosa come la Melissa McCarthy che la interpreta sul grande schermo? Chi l’ha realmente conosciuta è pronto a dire senza tema di smentita di sì e ad affermare che l’attrice comica originaria di Plainfield abbia saputo impersonarla come meglio non si poteva. Odiosa e al tempo stesso terribilmente sola e legata esclusivamente al suo fido gatto che accudiva come un figlio. La pellicola ci sa restituire il mondo di un’autrice che ruota da sempre nel campo dell’editoria ma che a causa di un carattere impossibile, e di una vena artistica che ormai latita da tempo, non riesce più a trovare un modo per guadagnarsi da vivere. Il mondo di Lee è anche quello che gira attorno alle librerie antiquarie e che grazie a queste gli permetterà di ricominciare a guadagnare nel mentre che consuma numerosi bourbon ini bar di quart’ordine in compagnia del suo (quasi) amico, ma sicuro approfittatore, Jack Hancock; un Richard Grant in grado di muoversi fin troppo bene nel ruolo di un pusher senza casa e incapace di qualunque moralità al punto di trovarsi candidato alla statuetta Oscar come miglior attore non protagonista. La fotografia di Brandon Trost ci riesce a restituire una New York intravista solamente in rare occasioni e attraverso le sapienti inquadrature viste nelle pellicole di Woody Allen e il risultato finale è anche molto attuale a causa della guerra a tutto campo che si combatte nel tentativo di smascherare possibili false notizie, rappresentando al tempo stesso uno scorcio sulla vita depravata e sconfitta di un’antieroina dei nostri giorni che però ha saputo rimediare a tutto quello che aveva guadagnato illegalmente. Oltre a Grant il film dell’eclettica scrittrice e regista Marielle Heller, nota per aver diretto Diario di una teenager e per aver partecipato in veste di attrice a La preda perfetta ha saputo imporsi e candidarsi alla notte degli Oscar sia in termini di sceneggiatura non originale; scritta a quattro mani da Nicole Holofcener e Jeff Whitty e basata sulle memorie della stessa Lee Israel, sia nella categoria di migliore attrice protagonista, grazie alle indubbie qualità di un’eccezionale Melissa McCarthy.
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