mtonino
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martedì 5 settembre 2017
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il peso della coscienza
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Uno scrupoloso medico legale lascia il suo ufficio di sera e si appresta a tornare a casa con la sua auto, lungo la strada urta accidentalmente una moto che trasportava un'intera famiglia di quattro persone. Apparentemente stanno tutti bene compreso il piccolo Amir Ali di otto anni che ha battuto la testa. Il dottore, preoccupato e dispiaciuto per l'incidente esorta il capofamiglia ad andare al vicino ospedale per un controllo, ma l'uomo rifiuta.
Il giorno seguente, tra gli altri cadaveri da esaminare, nella struttura dove lavora il dottore arriva il corpo senza vita di Amir Ali. Il dottore visibilmente scioccato lascia il compito di eseguire l'autopsia alla sua collega (nel corso del film apprendiamo che sicuramente è anche qualcosa di più che collega, ma non viene esplicitato).
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Uno scrupoloso medico legale lascia il suo ufficio di sera e si appresta a tornare a casa con la sua auto, lungo la strada urta accidentalmente una moto che trasportava un'intera famiglia di quattro persone. Apparentemente stanno tutti bene compreso il piccolo Amir Ali di otto anni che ha battuto la testa. Il dottore, preoccupato e dispiaciuto per l'incidente esorta il capofamiglia ad andare al vicino ospedale per un controllo, ma l'uomo rifiuta.
Il giorno seguente, tra gli altri cadaveri da esaminare, nella struttura dove lavora il dottore arriva il corpo senza vita di Amir Ali. Il dottore visibilmente scioccato lascia il compito di eseguire l'autopsia alla sua collega (nel corso del film apprendiamo che sicuramente è anche qualcosa di più che collega, ma non viene esplicitato). Dall'autopsia emerge che il bambino era affetto da botulismo da una settimana a causa di cibo incautamente acquistato da padre.
Questo sembra scongiurare la paura del dottore di aver causato la morte del bambino, ma non è così e la serie di eventi che si susseguiranno complicherà notevolmente la vicenda.
Girato con colori tenui, quasi in bianco e nero, questo è un film che insiste molto sui sentimenti dei protagonisti (bravissimi gli attori principali) e ci fa riflettere sull'importanza delle scelte e sul senso di giustizia che va al di là del semplice aspetto legale. Infatti, il dubbio esistenziale che affligge il dottore viene risolto solo in parte ma il punto è decidere cosa fare a prescindere dall'accertamento della verità.
Un altro aspetto che mi ha colpito è il ruolo non facile rivestito dalle figure femminili: evidentemente discriminate nella società iraniana, mantengono comunque un’autorevolezza e una sicurezza all'interno del nucleo familiare maggiore rispetto alle figure maschili. Vediamo quindi la mamma del piccolo Amir indurre il padre a compiere delle azioni che forse da solo non sarebbe riuscito a intraprendere e, allo stesso modo, la collega del dottore spronare quest’ultimo a ragionare razionalmente. In questo senso è come se la donna ricoprisse il ruolo di una parte della coscienza dell’uomo senza la quale sarebbe incompleto.
Il film affronta anche il tema della differenza tra classi nella società iraniana e illustra come le scelte della classe più agiata ricadano inevitabilmente su chi non ha i mezzi e non ha la possibilità di scegliere, lasciando quindi alla coscienza personale di chi potrebbe modificare il corso degli eventi, il compito rendere la società più equa.
Per concludere se vi è piaciuto “Una separazione” di Asghar Farhadi sicuramente apprezzerete questa pellicola.
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flyanto
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lunedì 14 maggio 2018
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due sensi di colpa a confronto
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"Il Dubbio - Un Caso di Coscienza" affronta il delicato tema della verità e di quanto questa sia utile o meno essere rivelata.
Il protagonista è un medico legale di mezza età il quale una sera investe un ciclomotore con a bordo una famiglia composta da un padre, una madre, un bambino ed una bimba di pochissimi anni. Egli si ferma diligentemente subito a soccorrerli e vuole, apprendendo che il bambino lamenta un dolore alla testa e nonostante egli non riscontri nulla di allarmante nel corso della breve visita che gli effettua sul luogo dell'incidente, che tutti i componenti della famiglia si rechino immediatamente presso il Pronto Soccorso più vicino.
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"Il Dubbio - Un Caso di Coscienza" affronta il delicato tema della verità e di quanto questa sia utile o meno essere rivelata.
Il protagonista è un medico legale di mezza età il quale una sera investe un ciclomotore con a bordo una famiglia composta da un padre, una madre, un bambino ed una bimba di pochissimi anni. Egli si ferma diligentemente subito a soccorrerli e vuole, apprendendo che il bambino lamenta un dolore alla testa e nonostante egli non riscontri nulla di allarmante nel corso della breve visita che gli effettua sul luogo dell'incidente, che tutti i componenti della famiglia si rechino immediatamente presso il Pronto Soccorso più vicino. Ma la famiglia in questione non segue il consiglio e così, quando il medico, il giorno dopo, deve effettuare l'autopsia sul suddetto bimbo giunto ormai morto in ospedale, entra ovviamente in crisi, ritenendosene responsabile e induce la moglie, anch'ella medico legale, di effettuare l'autopsia al suo posto. Dall'autopsia, però, risulta che la morte del piccolo è stata causata dall'avvelenamento per botulismo e da questo momento in poi per il protagonista inizierà una periodo di profondo sconcertamento e di innumerevoli quesiti sui quali alla fine egli vorrà far luce a tutti i costi nel dubbio che l'autopsia non abbia rivelato la giusta causa della morte del piccolo. Dall'altra parte, del resto, vi è anche la famiglia del piccolo, i cui componenti, hanno accettato come plausibile la diagnosi del botulismo data dall' autopsia ufficiale, in quanto giorni prima il padre aveva comprato a basso prezzo del pollame avariato. Ognuno lotterà con i propri sensi di colpa ....
Quest'opera del regista iraniano Vahid Jalivand ricorda molto quelle del suo più famoso connazionale Asghar Farhadi per impostazione, ambientazione e tematica. Anche Jalivand presenta un fatto di quotidiana ordinarietà e, pertanto, nessun gesto od azione eclatante, ma è proprio la vita di tutti i giorni che inesorabilmente e puntualmente presenta agli individui continue prove da affrontare e superare, rivelando di essi stessi la reale natura e dirittura morale. Ne "Il Dubbio" le reazioni, sia della famiglia del medico legale che di quella del bambino deceduto, risultano quanto mai vere e concepibili da ogni punto di vista e da ogni situazione. Anche la reazione di fronte alla verità, sia quella creduta che quella celata, fa scattare differenti azioni e sentimenti nei protagonisti delle due famiglie, svelandone le debolezze e la reale indole di ognuno. Un percorso psicologico che il regista Jalivand riesce ben a percorrere e soprattutto a rappresentare, coinvolgendo direttamente anche lo spettatore che viene naturalmente indotto a riflettere, appunto, su un caso di coscienza.
Ottima la regia ben scandita ed essenziale nella sua tempistica ed ottimi anche tutti gli attori, principalmente quattro e, cioè, il medico legale, sua moglie, il padre e la madre del bambino. Ognuno, infatti, riesce a dare il giusto 'pathos' al proprio personaggio rendendolo quanto mai vero e credibile sia nella disperazione che nel tacito senso di sconforto e di colpa sempre più crescente.
Giustamente premiato alla Mostra del Cinema di Venezia l'anno scorso, "Il Dubbio" è veramente un piccolo gioiello.
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carloalberto
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lunedì 10 agosto 2020
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la riscoperta di valori dimenticati
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Film in stile neorealista che sembra girato in bianco e nero, forse perché nella memoria rimane la figura di una donna avvolta in uno chador color pece che si staglia su uno stradone di periferia imbiancato dalla polvere, oppure per i tanti personaggi, eccetto il protagonista, che sembrano usciti da un film di De Sica degli anni ’50.
Il caso di coscienza, nonostante le incongruenze logiche o che, almeno per noi occidentali, appaiono tali, e che rendono inverosimile e fuori del tempo il profilo psicologico del medico, che cerca la verità anche a costo di pagarne le conseguenze, a prezzo della propria reputazione e della posizione sociale, regge drammaticamente la tensione fino alla fine.
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Film in stile neorealista che sembra girato in bianco e nero, forse perché nella memoria rimane la figura di una donna avvolta in uno chador color pece che si staglia su uno stradone di periferia imbiancato dalla polvere, oppure per i tanti personaggi, eccetto il protagonista, che sembrano usciti da un film di De Sica degli anni ’50.
Il caso di coscienza, nonostante le incongruenze logiche o che, almeno per noi occidentali, appaiono tali, e che rendono inverosimile e fuori del tempo il profilo psicologico del medico, che cerca la verità anche a costo di pagarne le conseguenze, a prezzo della propria reputazione e della posizione sociale, regge drammaticamente la tensione fino alla fine.
Sullo sfondo c’è la vita di tutti i giorni di un popolo che noi ignoriamo totalmente. Il traffico delle vie cittadine, con i motorini che sfrecciano pericolosamente sfiorando le auto, l’affaccendarsi degli impiegati affannati attorno alle pratiche, le telefonate urgenti a cui rispondere in ufficio, il chiacchiericcio dei colleghi, le invidie e le incompetenze sul posto di lavoro, ricordano quanto il tran tran quotidiano, la noiosa banalità delle incombenze routinarie, dalla burocrazia alienante all’automatismo con cui si guida, si mangia, ci si relaziona freddamente con il prossimo, conducano inevitabilmente alla dimenticanza dei valori essenziali, alla emarginazione degli altri in circuiti infernali o in limbi asettici, dove il padre in fin di vita è destinato alle cure della badante e la sorella della badante che chiede un aiuto è considerata un impiccio fastidioso da evadere frettolosamente.
Il carcere, l’ospedale, l’obitorio, il cimitero, il macello di polli, tutti luoghi simbolici della condizione di un’umanità condannata a vivere dolorosamente e a morire senza la speranza di riscatto, che non sia posticipato all’ultraterreno, paradossalmente diventano le tappe di una personale via crucis per risalire dagli inferi della degradazione urbana e civilizzata verso la presa di coscienza di una esistenza autentica. La verità allora diviene il valore irrinunciabile, costi quel che costi. L’incidente stradale che ha originato la crisi, in questa prospettiva, si tramuta per il protagonista nell’occasione provvidenziale per ritrovare se stesso, la propria identità perduta nel deserto morale che ha conquistato Teheran come oramai le città di tutto il mondo, convertendo i suoi abitanti alla religione laica dell’opportunismo cinico, della furbizia ferina, dell’indifferenza e penetrata a tal punto nella nostra cultura da impedire finanche la comprensione delle “logiche” che muovono il protagonista di questa vicenda e che lo spingono a nuotare contro corrente e che noi, dal nostro punto di vista di adepti convinti del nuovo credo, non esiteremmo a definire esercizi di puro masochismo.
La recitazione del cast è asciutta, essenziale, veristica e anche il doppiaggio in italiano è eccellente. Vahid Jalilvand è un regista iraniano. Il film è ambientato a Teheran. Dunque, esiste un altro cinema che non sia quello di Hollywood o della colta Europa, che il provincialismo, il marketing, o entrambi, della grande distribuzione impongono come un mantra nelle nostre sale. Che mai nasca il dubbio nella mentalità della gente comune che anche altri popoli abbiano un’esistenza propria al di fuori del ruolo stereotipato che le strategie geopolitiche contingenti gli hanno cucito addosso.
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fabiofeli
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venerdì 15 maggio 2020
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fatali errori e sensi di colpa
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Iran. Il direttore di un Istituto di Medicina Legale, il Dr. Nariman (Amir Aghaee), rientrando a casa di notte, investe una moto guidata da un uomo, Mosa (Navid Mohammadzadeh), con a bordo moglie e due bambini. Il maggiore dei bambini sembra aver subito un danno fisico. Il medico lo visita sommariamente aiutandosi con la luce del cellulare. Convince Mosa ad accettare denaro, perché gli è scaduta l’assicurazione e lo consiglia di portare subito il figlio in un ospedale vicino. Ma Mosa non lo fa. Il giorno dopo portano all’Istituto di Nariman il cadavere del bambino investito. L’autopsia viene affidata alla moglie del direttore; i genitori dichiarano che il bambino ha accusato vomito e diarrea.
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Iran. Il direttore di un Istituto di Medicina Legale, il Dr. Nariman (Amir Aghaee), rientrando a casa di notte, investe una moto guidata da un uomo, Mosa (Navid Mohammadzadeh), con a bordo moglie e due bambini. Il maggiore dei bambini sembra aver subito un danno fisico. Il medico lo visita sommariamente aiutandosi con la luce del cellulare. Convince Mosa ad accettare denaro, perché gli è scaduta l’assicurazione e lo consiglia di portare subito il figlio in un ospedale vicino. Ma Mosa non lo fa. Il giorno dopo portano all’Istituto di Nariman il cadavere del bambino investito. L’autopsia viene affidata alla moglie del direttore; i genitori dichiarano che il bambino ha accusato vomito e diarrea. La dottoressa conclude che causa della morte è un avvelenamento da botulismo per ingestione di carne avariata. Il comportamento di Mosa e di sua moglie avvalora che il loro bambino ha consumato carne avariata. Mosa viene arrestato perché ferisce gravemente il giovane che gli ha venduto dei polli. Ma Nariman teme che la causa della morte del bambino sia stata una emorragia cerebrale provocata dalla caduta dalla moto:fa riesumare il corpo ma non risolve i suoi dubbi. Quando si aggrava e muore il giovane aggredito da Mosa, il poliziotto che guida l’incidente probatorio incrimina Mosa con l’accusa di omicidio volontario. Al processo Nariman confessa la sua offerta di denaro a Mosa per nascondere l’incidente, perché la sua assicurazione non era stata rinnovata.
Il film è frutto del talento di Vahid Jalilvand che ha colto il Premio per la Regia a Venezia nel 2017: dirige i 4 protagonisti con mano sicura e tutti e 4 rispondono alla perfezione al regista. Molte scene sono costruite per semplici accenni con un cinema fatto di sguardi e azioni eloquenti senza dialogo come quella inquadrata e ripresa nello specchietto retrovisore dell’auto di Nariman e quella che narra sconforto e senso di colpa del medico convinto di essere stato causa della morte del bambino pur senza prove sicure; altre sono duramente esplicite come il dolore disperato di Mosa tra due pareti di cemento in un non-luogo colmo di rifiuti ed anche l’incidente probatorio che fila verso una conclusione che sembra decisa in partenza. I due personaggi maschili scontano il pentimento che li attanaglia per non aver scelto un atto di coraggio al momento giusto, mentre i personaggi femminili sono alla ricerca di un maggiore peso nella loro società dominata dagli uomini, che rendono difficile la loro vita. La macchina da presa ne indaga le espressioni con bravura. Molte scene sono girate di notte ed in interni: la bella fotografia sembra voler nascondere i colori, accentuando il senso di oppressione suscitato dalla drammatica vicenda. Ormai il cinema Iraniano conta sempre più nomi importanti: Panahi, Farhadi ed ora Jalilvand, dopo i maestri Abbas Kiarostami e Makhmalbaf. Un film molto valido, da non mancare. Valutazione ****. Fabiofeli
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cardclau
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lunedì 21 maggio 2018
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non è ciò che appare
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Vediamo la storia "come appare", e come viene percepita: il dr. Nariman (Amir Aghaee) ha un incidente stradale. Di notte, a causa di uno screanzato che gli suona ripetutamente, apparentemente senza motivo, il clackson, si sposta con l'auto e investe una motoretta su cui viaggiava una povera famiglia, padre, madre, un bambino, e una poppante. Il dr. Nariman è un integerrimo. Lui, malgrado avesse l'assicurazione scaduta da alcuni mesi, presta soccorso, visita il bambino traumatizzato, offre di essere tutti portati in Pronto Soccorso, dà dei soldi al padre, che inizialmente neanche li vuole. Ma il padre non porta nessuno della famiglia in Ospedale. La famiglia porta il figlio morto in Ospedale una settimana dopo, dopo che aveva lamentato nausea, vomito, debolezza muscolare, ptosi palpebrale, dove una splendida collega (attrice) del dr.
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Vediamo la storia "come appare", e come viene percepita: il dr. Nariman (Amir Aghaee) ha un incidente stradale. Di notte, a causa di uno screanzato che gli suona ripetutamente, apparentemente senza motivo, il clackson, si sposta con l'auto e investe una motoretta su cui viaggiava una povera famiglia, padre, madre, un bambino, e una poppante. Il dr. Nariman è un integerrimo. Lui, malgrado avesse l'assicurazione scaduta da alcuni mesi, presta soccorso, visita il bambino traumatizzato, offre di essere tutti portati in Pronto Soccorso, dà dei soldi al padre, che inizialmente neanche li vuole. Ma il padre non porta nessuno della famiglia in Ospedale. La famiglia porta il figlio morto in Ospedale una settimana dopo, dopo che aveva lamentato nausea, vomito, debolezza muscolare, ptosi palpebrale, dove una splendida collega (attrice) del dr. Nariman, sebbene austera, fa la diagnosi (confermata), seguente all'autopsia, di botulismo (letale intossicazione alimentare). Il padre aveva infatti comprato, a poco prezzo, dei polli deceduti per cause poco chiare, direi decisamente malsane, e li aveva donati alla dieta della famiglia. La poppante, in quanto tale, si era salvata, per non aver consumato il corpo del reato, sebbene fosse abbastanza piccola da essere ad alto rischio, come il fratello. Quindi la storia degenera, il padre "ammazza" chi gli ha venduto i polli deceduti, come sani, e finisce in carcere. Tutto sarebbe finito lì, in assenza del dr. Nariman. Il senso di colpa del dr. Nariman cresce a dimensioni che ne comprometteranno, ingiustificatamente, l'integrità Il dr. Nariman non racconta alla collega il fatto, ma si ritiene colpevole della morte del bambino. Motivazione ovvia anche se non ammessa: la paura, il terrore, di non essere più quello che si è stati, perfetti. Riordina la riesumazione, dopo 13 giorni, del cadavere del bambino, fà lui stesso (cosa decisamente impropria, per stare sul leggero) l'autopsia, dove emette una diagnosi di trauma cervicale "verosimile". Poiché non ci par vero di addossare la colpa ad un altro, noi colpevolisti, ci va benissimo così. Il dr. Nariman è colpevole, ma a suo onore, il dubbio, il caso di coscienza. Ma non è così semplice. Alla base una diagnosi chiarissima, il botulismo, e una assenza di lesioni traumatiche a danno del cervello, e la riesumazione di un cadavere che non porta a nulla nel 999 per mille dei casi, fatta da chi dovrebbe tenersi decisamente alla larga, e in contraltare, un senso di colpa spropositato, per cui, noi, poveri peccatori, siamo sempre colpevoli, perché imperfetti. Dopo Maratona e Salamina, dispiace scoprire che noi occidentali, come i persiani, non abbiamo fatto dei sostanziali passi in avanti, ma ragionamo sempre come "i fiol della serva".
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