andrea1974
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sabato 25 febbraio 2017
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analfabeti al dolore
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Non si riesce a seppellire il padre, troppo gelato è il terreno; non si riesce a rielaborare il lutto di un padre, troppo immenso il senso di colpa, il vuoto, inutili le parole, si chiede solo di non essere visti, di non essere più toccati, ma dimenticati; non riesce a dare risposta la pacca sulla spalla dell'amico o del coach, non riesce ad essere significativa la fede, nè la ricerca di nuove relazioni, nuove vite. Tutto è sospeso, dall'altra parte del mare. Un timido sorriso in barca vedendo un adolescente felice, un gioco con la palla sempre in salita, un sogno di accoglienza con una camera in più, una barca in mare sospesa tra fragilità e tragedia: sono le piccole crepe a quella lastra di ghiaccio che non riesce a rielaborare il lutto.
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Non si riesce a seppellire il padre, troppo gelato è il terreno; non si riesce a rielaborare il lutto di un padre, troppo immenso il senso di colpa, il vuoto, inutili le parole, si chiede solo di non essere visti, di non essere più toccati, ma dimenticati; non riesce a dare risposta la pacca sulla spalla dell'amico o del coach, non riesce ad essere significativa la fede, nè la ricerca di nuove relazioni, nuove vite. Tutto è sospeso, dall'altra parte del mare. Un timido sorriso in barca vedendo un adolescente felice, un gioco con la palla sempre in salita, un sogno di accoglienza con una camera in più, una barca in mare sospesa tra fragilità e tragedia: sono le piccole crepe a quella lastra di ghiaccio che non riesce a rielaborare il lutto. Bel film, emotivamente coinvolgente ma rispettoso, narrativamente solido e interpretato magistralmente: un film sull'incomunicabilità, la mancanza di parole in un tempo di social network, la mancanza di sostegno in un tempo di analfebitazzione al dolore; un film sulla fragilità dell'adulto, incapace di promesse solide; un film che entra nelle pieghe dell'uomo, del maschile, sia esso padre o figlio o compagno.
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soleilmoon
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domenica 5 marzo 2017
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l'essenza del film arriva il giorno dopo la vision
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Dopo aver appreso la tragedia, il film diventa irrimediabilmente lento e un pò noioso. Il personaggio principale è antipatico, a tratti odioso, perchè lui non si redime dal tormento esistenziale, non ascolta nessuno di quelli che vogliono aiutarlo.
Capisco che questo è l'intento del regista, mostrarci un uomo costretto a vivere con i sensi di colpa e nella depressione, per cui l'angoscia deve invadere lo spettatore.
Alcuni proveranno pietà per quest'uomo, altri rabbia per la sua incapacità di andare avanti nonostante tutto, altri non vedranno l'ora che finisca la proiezione del film per liberarsi da quella morsa di dolore.
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Dopo aver appreso la tragedia, il film diventa irrimediabilmente lento e un pò noioso. Il personaggio principale è antipatico, a tratti odioso, perchè lui non si redime dal tormento esistenziale, non ascolta nessuno di quelli che vogliono aiutarlo.
Capisco che questo è l'intento del regista, mostrarci un uomo costretto a vivere con i sensi di colpa e nella depressione, per cui l'angoscia deve invadere lo spettatore.
Alcuni proveranno pietà per quest'uomo, altri rabbia per la sua incapacità di andare avanti nonostante tutto, altri non vedranno l'ora che finisca la proiezione del film per liberarsi da quella morsa di dolore.
Però se si è abbastanza sensibili, lo sguardo e l'atteggiamento di ghiaccio del protagonista ritornano in mente...il giorno dopo.
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amgiad
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lunedì 20 febbraio 2017
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la normalità del dolore
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Il dolore di una perdita cambia la vita specialmente se la colpa di ciò che l' ha causato è dentro di se. Gli altri continuano una vita normale e i ragazzi superano meglio i lutti con la voglia di vivere, di fare, di amare. Ed è giusto che sia così. Per il personaggio principale non sembra possibile superare il ricordo della sua colpa e delle vite che ha perduto. Pur insieme agli altri rimane solo, senza parole. Al massimo con non controllati episodi di violenza. Un dolore che si alimenta tutti i giorni e che solo il nipote con la sua vita piena di interessi e di amori riesce a modificare in parte. E il film finisce con un messaggio positivo: lo zio si trasferirà nuovamente in un altra città ma stavolta spera in una visita del nipote, primo cenno di un desiderio di tornare a nuovi rapporti con gli altri.
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Il dolore di una perdita cambia la vita specialmente se la colpa di ciò che l' ha causato è dentro di se. Gli altri continuano una vita normale e i ragazzi superano meglio i lutti con la voglia di vivere, di fare, di amare. Ed è giusto che sia così. Per il personaggio principale non sembra possibile superare il ricordo della sua colpa e delle vite che ha perduto. Pur insieme agli altri rimane solo, senza parole. Al massimo con non controllati episodi di violenza. Un dolore che si alimenta tutti i giorni e che solo il nipote con la sua vita piena di interessi e di amori riesce a modificare in parte. E il film finisce con un messaggio positivo: lo zio si trasferirà nuovamente in un altra città ma stavolta spera in una visita del nipote, primo cenno di un desiderio di tornare a nuovi rapporti con gli altri. Bel film, buona sceneggiatura, ottimi interpreti.
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angelo umana
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lunedì 27 febbraio 2017
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due solitudini vicine
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Joe Chandler, l’attore è un Chandler per davvero, Kyle, pescatore 45enne sofferente di cuore, muore a Manchester by the sea nel Massachusetts e lascia il figlio adolescente Patrick: aveva pensato a tutto Joe, nel testamento aveva previsto che suo fratello Lee tornasse da Boston e facesse da tutore al figlio minorenne. Aveva nelle sue volontà riunito due deprivati dei loro affetti: il figlio Patrick rimasto solo, la nervosissima e sregolata mamma aveva abbandonato la famiglia da tempo, e suo fratello, anch’egli senza famiglia. La perse in un evento drammatico, da egli stesso provocato per incuria, pure la moglie di lui è andata a vivere altrove.
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Joe Chandler, l’attore è un Chandler per davvero, Kyle, pescatore 45enne sofferente di cuore, muore a Manchester by the sea nel Massachusetts e lascia il figlio adolescente Patrick: aveva pensato a tutto Joe, nel testamento aveva previsto che suo fratello Lee tornasse da Boston e facesse da tutore al figlio minorenne. Aveva nelle sue volontà riunito due deprivati dei loro affetti: il figlio Patrick rimasto solo, la nervosissima e sregolata mamma aveva abbandonato la famiglia da tempo, e suo fratello, anch’egli senza famiglia. La perse in un evento drammatico, da egli stesso provocato per incuria, pure la moglie di lui è andata a vivere altrove.
E’ Lee al centro del film: scontroso, solo e che solo vuole rimanere, lo sguardo triste sempre o assorto in qualcosa di incancellabile, fa il portiere factotum di quattro condomìni a Boston, spala neve, ripara tubi idraulici e circuiti elettrici. Attaccabrighe quando può, del suo groviglio di pena in qualche modo vorrebbe liberarsi, povero di parole ma in tutto il film i fatti parlano per lui. Non crede possibile e non vuole accettare di poter ristabilirsi a Manchester che tanta sventura gli portò, un luogo che avrebbe voluto rimuovere o che ha relegato in un angolo oscuro della sua memoria. Ma Patrick non vuole rinunciare al posto dove è nato, dove ha i suoi amici e varie girl-friends (!), la scuola la band e la squadra di hockey, e nel suo nuovo stato desidera questo zio vicino, alla sua compagnia era abituato da piccolo. Due solitudini che Joe, fratello maggiore e padre, ha voluto mettere assieme, due persone di cui ha voluto sempre prendersi cura.
Bel film, accuratamente scritto e diretto da Kenneth Lonergan (a lui l’Oscar 2017 per sceneggiatura e regia la scorsa notte), ricco di canzoni e paesaggi, ottimo quando la macchina da presa osserva i personaggi anche al rallentatore oppure ripropone il passato chiarificatore coi flash-back: le parole, di cui del resto è parco, spesso non servono. Attore perfetto Lee-Casey Affleck, nemmeno il suo Oscar è per caso, e le due attrici, Michelle Williams e Gretchen Mol , non potrebbero esprimere meglio la parte che è loro data: la prima è Randi, ex moglie pentita di Lee che reincontra da neomamma, i suoi sguardi esprimono infelicità e insoddisfazione, vorrebbe che la vita tornasse indietro; la seconda è Elise, ansiosissima mamma di Patrick che nemmeno col nuovo cattolico e posato partner ha trovato pace, pure se nella casa in cui vivono un Cristo campeggia nel quadro del soggiorno.
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loland10
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domenica 12 marzo 2017
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pescare nel dolore
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“Manchester by the Sea” (id., 2016) è il terzo lungometraggio del regista-sceneggiatore newyorkese Kenneth Lonergan.
Un film corposamente nullo, un film altamente sottrattivo, un film di dramma nascosto.
Una storia di dolore intimo e infimo che nessuno riesce a scalfire: ogni volto, ogni luogo, ogni inquadratura, ogni notte e ogni via non vogliono prenderne una parte ma tutto il possibile.
Ciò che si sente e non si sente sono all’unisono un corpo violentato e un’anima distrutta: eppure silenzio, voci, acqua e barche, neve e interni sono tutti strapieni di un nulla implosivo e di un rumore assordante.
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“Manchester by the Sea” (id., 2016) è il terzo lungometraggio del regista-sceneggiatore newyorkese Kenneth Lonergan.
Un film corposamente nullo, un film altamente sottrattivo, un film di dramma nascosto.
Una storia di dolore intimo e infimo che nessuno riesce a scalfire: ogni volto, ogni luogo, ogni inquadratura, ogni notte e ogni via non vogliono prenderne una parte ma tutto il possibile.
Ciò che si sente e non si sente sono all’unisono un corpo violentato e un’anima distrutta: eppure silenzio, voci, acqua e barche, neve e interni sono tutti strapieni di un nulla implosivo e di un rumore assordante. E’ il cinema di ogni giorno di cui pochi si accorgono: le voci interiori che non parlano (quasi) mai.
Il cinema di Lonergan passa da piccole cose e da grandi sprofondi con un’intercalare soffuso di immagini, grigie e tetre, oscure e annebbiate, come una bottiglia vuota di birre che vorresti bere. E’ un languido malinconico piene di riprese d’archivio e salate. Mai un eccesso dopo dialoghi e incontri, pugni e sbronze. Il fumo che rimane è solo odore di piena autunnale e di un inverno scevro di scherzi e macerazioni gioiose.
Lee vive a Boston solo e dimenticato: lontano da Manchester-by-the-Sea dove la tragedia famigliare gli ha tolto ogni legame. Quando suo fratello Joe muore è costretto al ritorno: nominato tutore del nipote Patrick e deve occuparsi di funerale e il lascito del fratello. Problemi concreti e ricordi tragici si mescolano in un contorno agglutinato tra malinconia estrema e fantasmi inespressi, interni sformati e esterni ammantati.
L’inizio è folgorante per quello che non dice e vuole dire nel dopo: inquadrature spezzate, case e vie, neve e auto, Lee e il lavoro, Boston e le distanze. Tutto con pochissime e asciutte fermi-immagine, quasi degli scatti di un presente che è bloccato su un passato che vedremo aprirsi con rientri narrativi e gesti minimi. Un film essenziale ed esistenziale, gocciolante e morente, mestamente vitale.
Sono i corpi che si incontrano senza un destino da scrivere: è il passato che schiude ogni scritta su una pagina bianca piena di fumo. I fiori non ci sono: si nascondano appassiti dentro il vulnerabile Lee. Patrick diventa una sua attenzione e, forse, il suo destino.
Matthew Broderick(che ha preso parte ai tre film del regista) è un Jeffrey fuori gara che si vede per un attimo in un incontro tra la mamma di Patrick, Randy , il suo compagno e il figlio adolescente. Scena da metabolizzare: seduti a tavola, lei si alza e va in cucina, lui si alza per seguirla mentre Patrick solo dopo un attimo è già seduto sull’auto di Lee che è venuto a riprenderlo. Un minuto è la durata del tutto. Jeffrey sembra l’apripista della storia da reinventare: è lui che scrive una mail a Patrick per un eventuale cambio di rotta. A sua insaputa lo zio è il suo solo contatto.
Lee è come un vaso di coccio: scontroso, scurrile, stranito, scomposto, spento; Lee è come una birra schiumata: empatico, ermetico, esplosivo, eretico; Lee è solo un pescatore senza lenza: accasciato, asettico, aritmico, algido. Patrick e Lee ognuno con il suo adombrano una vita in risalita come una pallina con cui giocare lungo una strada in ascesa.
Tutto dentro, tutto implosivo: è un dolore scioccante. Solo Patrick riesce a svegliarlo, a contattarlo, a smuoverlo, a scardinarlo, a dialogare. E un’inquadratura di spalle sulla barca ereditata dal padre Joe attivano una pesca verso un qualcosa che non sappiamo. Un’apertura alla vita, al ricordo, ai vicoli e all’ascolto. Silenzio e solitudine, silenzio e liberazione: Lee e Patrick guardano l’orizzonte.
Casey Affleck (Lee Chandler) ha colto il segnale per donarci una prova a tutto tondo per un personaggio vuoto di molte cose esterne. Implosivamente perfetto (con un Oscar che gli si addice). Lucas Hedges (Patrick Chandler) ha dalla sua un viso intriso del personaggio e una baldanza dubbiosa tra le sue mani infreddolite.
Regia mesta e avvolgente, scheletrica e rotolante. Le inquadrature tronche misurano delicatamente ogni aggiunta superflua: linguaggio-cinema efficace e saliente.
Voto: 8/10.
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stefanopariani
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martedì 21 marzo 2017
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tra passato e presente lonergan scava nella complessità dei personaggi
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Lee Chandler (Casey Affleck) lavora a Boston come custode e factotum di un palazzo, è sempre disponibile per qualsiasi servizio di manodopera, lavora bene ed è di poche parole. Vive in un piccolissimo monolocale, non ha amici e non ha una vita sociale, se si esclude qualche bevuta solitaria al pub. In seguito alla morte del fratello maggiore, deve tornare per qualche giorno al paese d’origine, una piccola località sul mare, e apprende che il fratello lo ha nominato nel testamento tutore del nipote sedicenne, Patrick (Lucas Hedges), ora rimasto completamente solo. Ma questo per Lee è forse un impegno troppo grande, nonostante voglia bene al nipote, e passa un breve periodo insieme a lui, con la sua quotidianità di adolescente, meditando sulla decisione da prendere.
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Lee Chandler (Casey Affleck) lavora a Boston come custode e factotum di un palazzo, è sempre disponibile per qualsiasi servizio di manodopera, lavora bene ed è di poche parole. Vive in un piccolissimo monolocale, non ha amici e non ha una vita sociale, se si esclude qualche bevuta solitaria al pub. In seguito alla morte del fratello maggiore, deve tornare per qualche giorno al paese d’origine, una piccola località sul mare, e apprende che il fratello lo ha nominato nel testamento tutore del nipote sedicenne, Patrick (Lucas Hedges), ora rimasto completamente solo. Ma questo per Lee è forse un impegno troppo grande, nonostante voglia bene al nipote, e passa un breve periodo insieme a lui, con la sua quotidianità di adolescente, meditando sulla decisione da prendere. Attraverso continui flashback che s’intrecciano col presente lungo tutto il film la situazione si definisce sempre meglio e si apprende che alle spalle di Lee c’è una tragedia famigliare che gli ha portato via moglie, figli e affetti, di cui è responsabile lui tanto quanto un terribile destino. Così vive quotidianamente il peso del senso di colpa e dell’abbandono, che cerca di “espiare” con una sorta di autopunizione, infliggendosi una vita alla deriva della tristezza. Kenneth Lonergan è regista e sceneggiatore che scava nei personaggi senza compromessi, prendendosi i suoi tempi, rallentando lo sviluppo della storia per far emergere il vissuto e la complessità dei protagonisti. Con soli tre film all’attivo in circa 15 anni (da recuperare il poco noto “Conta su di me”), Lonergan approfondisce in ogni suo lavoro i legami famigliari, mai facili, e pone i protagonisti di fronte a scelte (anche morali) da prendere, prima di tutto facendo i conti con se stessi. “Manchester by the sea”, con i suoi personaggi autentici e complessi, non cerca facili colpi di scena, ma lascia che la storia si insinui poco per volta sotto la pelle dello spettatore, quasi narrandosi da sé, mentre sullo sfondo emergono l’intreccio degli affetti famigliari, il dover affrontare dolorose fratture e la difficoltà di rimettere in sesto il passato. Il tono della narrazione è sommesso, rigoroso, a tratti dolente, ma mai patetico, e affronta con pudore i sentimenti dei personaggi. Le note di musica sacra che trapuntano la storia contribuiscono a creare una “gravitas” rattenuta e composta, in qualche modo rispettosa dell’equilibrio formale della pellicola. Casey Affleck si adatta perfettamente allo stile narrativo del film con una recitazione sottotono, che lavora per sottrazione; lo sguardo vuoto e l’espressione in bilico tra il rassegnato e l’indifferente – già sfoggiati in pellicole come “L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford” (Andrew Dominik, 2007) e “Il fuoco della vendetta” (Scott Cooper, 2013) – si mimetizzano con la storia, rendendo la presenza dell’attore quasi una non-presenza. Classico ruolo da Oscar, Affleck ha meritatamente vinto come miglior attore protagonista. Lo affiancano una dolente Michelle Williams, in un piccolo ma intenso ruolo, e il semisconosciuto Lucas Hedges, che nel ruolo del nipote intreccia un sensibile e non facile rapporto con Lee, che ci chiama testimoni con la sua nuda e mai scontata verità.
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vincenzoambriola
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lunedì 20 febbraio 2017
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un album fotografico da sfogliare con calma
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Lee vive a Boston, nell'ammezzato di un condominio. Uomo triste, solo, un po' violento ma preciso nel suo lavoro di tuttofare. Un giorno di inverno deve tornare a Manchester by the sea, cittadina sul mare in cui è nato ed è vissuto per tanti anni. La storia inizia in questo momento e continua lentamente fino all'estate. I dettagli della vita di Lee ci sono presentati in flashback, come attimi ricordati improvvisamente. I suoi parenti, i suoi amici, la sua vita precedente lo scuotono, lo richiamano alla vita ma, al tempo stesso, lo rifiutano. Questo pendolo di emozioni suscita in Lee qualcosa che assomiglia a un nuovo desiderio di vivere. La storia non termina, non sappiamo cosa succederà in autunno e negli anni a venire.
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Lee vive a Boston, nell'ammezzato di un condominio. Uomo triste, solo, un po' violento ma preciso nel suo lavoro di tuttofare. Un giorno di inverno deve tornare a Manchester by the sea, cittadina sul mare in cui è nato ed è vissuto per tanti anni. La storia inizia in questo momento e continua lentamente fino all'estate. I dettagli della vita di Lee ci sono presentati in flashback, come attimi ricordati improvvisamente. I suoi parenti, i suoi amici, la sua vita precedente lo scuotono, lo richiamano alla vita ma, al tempo stesso, lo rifiutano. Questo pendolo di emozioni suscita in Lee qualcosa che assomiglia a un nuovo desiderio di vivere. La storia non termina, non sappiamo cosa succederà in autunno e negli anni a venire. Abbiamo assistito a due stagioni della vita di un uomo, ne abbiamo conosciuto le vicende personali e il suo attuale stato d'animo. Un film lento, molto bello, che non ha una morale o una conclusione. Un film che assomiglia a un album fotografico da sfogliare con calma, senza conoscere le persone a cui è dedicato. Un film molto americano.
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fsromait
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lunedì 20 febbraio 2017
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il più europeo film usa guscio di significati
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È notorio l’area territoriale di Boston essere quella degli USA dove, storicamente, si è concentrata, e probabilmente ancora si concentra (pur se tale affermazione, ai denigratori di ogni aspetto del mondo americano, potrà apparire comunque fallace), buona parte dell'intellighenzia statunitense: me lo disse, tanti anni fa, anche una collega americana, a torto o a ragione “infatuatasi” di certi miei discorsi “culturali”, invitandomi, qualora fossi andato in USA, a recarmi proprio a Boston. Probabilmente quest’ultimo è anche il territorio dove residua e tutt’ora vige uno stile architettonico, ma certamente non solo, di impronta europea.
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È notorio l’area territoriale di Boston essere quella degli USA dove, storicamente, si è concentrata, e probabilmente ancora si concentra (pur se tale affermazione, ai denigratori di ogni aspetto del mondo americano, potrà apparire comunque fallace), buona parte dell'intellighenzia statunitense: me lo disse, tanti anni fa, anche una collega americana, a torto o a ragione “infatuatasi” di certi miei discorsi “culturali”, invitandomi, qualora fossi andato in USA, a recarmi proprio a Boston. Probabilmente quest’ultimo è anche il territorio dove residua e tutt’ora vige uno stile architettonico, ma certamente non solo, di impronta europea. Tant’è che Manchester by the sea, di Kenneth Lonergan (già fra i soggettisti e sceneggiatori del geniale, nel suo paradossale grottesco, Terapia e pallottole), appare essere senza dubbio uno dei "più europei" film americani di sempre!
Questo terzo film, per la regia di Lonergan, risulta infatti europeo nelle ambientazioni intimistiche, nelle solitarie e glaciali immagini nelle quali, a tratti seppure in maniera ripetuta, emergono una non troppo vaga vena e un saporoso fondo bergmaniani; nelle inquadrature e negli scorci, dove predomina un senso di soporosa quanto dolorosa anelata dormienza; nei colori e nelle luci della magnifica fotografia, che disegnano le evanescenti immagini del leggero volo di gabbiani su un mare perennemente livido e grigio eppure mestamente meraviglioso; nel secco stile linguistico, improntato a un rifiuto e a una negatività, a una fuga e a un silenzio riecheggianti il primo Antonioni; nella narrazione delle tragedie e nei rapporti fra personaggi, quindi nel modo in cui la vicenda si sviluppa e si racconta.
Se, a una prima visione, la storia è quella di una triade – due fratelli, ampiamente maturi, e il figlio minorenne del maggiore – essa, a un secondo livello, può essere allargata a cinque personaggi – le due ex-mogli degli adulti, seppure queste ormai, e per motivi diversi, parzialmente uscite di scena e muoventisi ai margini della vicenda. Ma, a un terzo livello, la storia diviene quella di altri personaggi: sette o dieci, laddove si aggiungono le due ragazze del giovane e i tre figli del fratello minore nonché protagonista, dignitosamente reso da Casey Affleck. Infine, attraverso un articolato dosaggio dei flashback sapientemente espressi dallo splendido montaggio, la storia diviene quella di tutta una collettività, pur fluida e indiretta, comprendente anche i genitori dei due fratelli. Insomma, nella struttura “a guscio” del film, sono rintracciabili e rinvenibili molteplici significati e rapporti che traspaiono ed emergono evidenti, nonostante il tono narrativo sia volutamente opaco e tenue, come ormai l’esistenza del protagonista; è, quest’ultima, una caratteristica che probabilmente non permette di far apparire, agli occhi di un pubblico mediamente attento, l’opera di Lonergan come un capolavoro improntato su registri di elegiaca interiorità piuttosto che di tradizionali eventi e azioni.
Tra questi significati, senza voler effettuare alcuno spoiler del film, almeno uno emerge netto: la sostanziale potenzialità di interscambio, fino al capovolgimento, dei presunti ruoli di tutor e tutorato, laddove il fratello maggiore – un “monumentale” Kyle Chandler che rende il suo personaggio davvero come una sorta di nume tutelare, ombra supervisionante tutte le esistenze, gigante buono consapevole del proprio destino - lascia un’onerosa e pesante eredità ai suoi cari, di cui riconosce limiti e prerogative. Ciò viene raccolto dai due protagonisti, il “vecchio” zio e il “giovane” nipote (un bravo e convincente Lucas Hedges), nell’ennesimo (ma ciò, in questo caso, sicuramente non guasta) finale aperto, nel segno che la vita, malgrado le immani tragedie che possono paralizzare e appiattire qualsiasi suo senso ultimo, fortunatamente ha un seguito, se non per noi almeno per alcuni dei nostri affetti, nel segno di una continuità inesplicabile e sovente inestricabile tuttavia inestinguibile, come quel volo leggiadro di gabbiani sul mare.
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fabiofeli
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martedì 21 febbraio 2017
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quattro cuori in ghiaccio
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Lee Chandler (Casey Affleck) spala la neve caduta a Boston tra condomini di anonime palazzine a mattoni rossi che ricordano le città operaie britanniche. Con impegno ostinato libera tubazioni intasate restando in silenzio e con lo sguardo perso; una riparazione complicata lo dispone di cattivo umore come le parole della signora della middle class proprietaria dell’appartamento: si sente provocato e replica con malo garbo. Perché – ci chiediamo – è così scorbutico anche nel bar dove centellina una birra e se qualcuno lo sfiora con lo sguardo dal lato opposto del bancone dopo un paio di parole sferra pugni all’impazzata? In un flash back lo vediamo in barca a pesca col fratello: scherza col nipote Patrick (Lucas Hedges) in una quieta baia marina; e poi il brano di una vita familiare felice con la moglie (Michelle Williams) e tre figli che adora.
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Lee Chandler (Casey Affleck) spala la neve caduta a Boston tra condomini di anonime palazzine a mattoni rossi che ricordano le città operaie britanniche. Con impegno ostinato libera tubazioni intasate restando in silenzio e con lo sguardo perso; una riparazione complicata lo dispone di cattivo umore come le parole della signora della middle class proprietaria dell’appartamento: si sente provocato e replica con malo garbo. Perché – ci chiediamo – è così scorbutico anche nel bar dove centellina una birra e se qualcuno lo sfiora con lo sguardo dal lato opposto del bancone dopo un paio di parole sferra pugni all’impazzata? In un flash back lo vediamo in barca a pesca col fratello: scherza col nipote Patrick (Lucas Hedges) in una quieta baia marina; e poi il brano di una vita familiare felice con la moglie (Michelle Williams) e tre figli che adora. Ma quasi nulla sappiamo di lui: non ci spieghiamo perché ora vive da solo in città e fa il portiere. Una telefonata lo informa che è morto il fratello: dovrà occuparsi delle dolorose incombenze della sepoltura, prendendo anche la tutela del nipote, che ora è un giovane vivace alle prime esperienze con le ragazze. Il compito è un treno in corsa che non riesce a scansare; dovrà adattarsi alla nuova situazione col ragazzo che non lo ama ed il seppellimento del fratello reso impossibile in inverno dal terreno ghiacciato e impenetrabile … Le scene successive, avare di dialogo, fanno luce sul caparbio silenzio di Lee tormentato dai ricordi: il suo cuore batte a mala pena sotto il macigno di un rimorso, ghiacciato come il terreno del cimitero che rifiuta le sepolture. Il nipote non vuole lasciare la scuola, la casa, la barca e le amichette di Manchester per seguirlo a Boston. Tra i due c’è un muro di incomunicabilità che produce anche situazioni comiche nel dramma. La misurata recitazione di Casey Affleck è un valore aggiunto: merito suo e della regia che lo rende più convincente del fratello Ben, protagonista di diversi recenti film. Anche il giovane Hedges se la cava bene: grattando sotto la sua smania di vivere intensamente appare un’altra esistenza grama segnata dal dolore per il complicato rapporto con una madre alcolizzata che il nuovo marito, un bigotto individuo, gli vieta di frequentare. Basteranno i rimbalzi di una palla da tennis tra Lee e Patrick per aprire una comunicazione tra i due e sbrinare i loro cuori avvicinandoli? Una sceneggiatura ed un montaggio da manuale, arricchite da una valida colonna sonora con belle canzoni alternate a un brano di Haendel e al coinvolgente Adagio per archi e organo di Albinoni, fanno decollare il film. La fotografia è incisiva: primeggiano i grigi di un paesaggio marino popolato di case che dovrebbero essere ridenti e colorate se il sole nascosto dalle nebbie le illuminasse. Una grande storia sulla difficoltà del convivere con i ricordi, destinata a rimanere scolpita negli occhi e nel cuore, quando l’urlo di dolore (e di amore) della moglie di Lee, un altro cuore spezzato che si specchia su quello del protagonista, esplode nella sola inquadratura solare. Un grande film da non mancare. Valutazione **** FabioFeli
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fabriziog
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martedì 21 febbraio 2017
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cinema e elaborazione del lutto
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“Manchester by the sea” di Kenneth Lonergan, candidato a sei nomination agli Oscar 2017 e vincitore di due Bafta, è la traduzione in linguaggio cinematografico di molta letteratura psichiatrica sulla elaborazione della morte, a partire dal bel libro “Il lutto” di Antonio Onofri e Cecilia La Rosa (Giovanni Fioriti editore).
Immersa in uno scenario marittimo bello e algido del New Hampshire, la storia si muove intorno alla figura inizialmente indecifrabile di Lee Chandler (interpretato da Casey Affleck, che ha superato se stesso) ed ai suoi nuovi lutti, che si vanno ad aggiungere e a stratificare ad ancora troppo vive e devastanti morti.
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“Manchester by the sea” di Kenneth Lonergan, candidato a sei nomination agli Oscar 2017 e vincitore di due Bafta, è la traduzione in linguaggio cinematografico di molta letteratura psichiatrica sulla elaborazione della morte, a partire dal bel libro “Il lutto” di Antonio Onofri e Cecilia La Rosa (Giovanni Fioriti editore).
Immersa in uno scenario marittimo bello e algido del New Hampshire, la storia si muove intorno alla figura inizialmente indecifrabile di Lee Chandler (interpretato da Casey Affleck, che ha superato se stesso) ed ai suoi nuovi lutti, che si vanno ad aggiungere e a stratificare ad ancora troppo vive e devastanti morti.
L’opera è un studio attento, pacato ed implacabile, sereno e duro, sui comportamenti degli esseri umani dinanzi a scomparse tragiche, troppo tragiche e fuori dall’ordine naturale degli eventi per poter essere accettate da mente umana, ma è anche uno studio sulle reazioni davanti ad una improvvisa e grave malattia: si affaccia alla coscienza dei familiari il possibile decesso, poi probabile, per divenire fatale, inevitabile. I protagonisti del film, ognuno con la propria differente umanità, sono costretti ad accettare la morte, elaborarla, digerirla come soda caustica. Ogni singolo personaggio incarna le diverse reattività umane difronte la malattia, la sofferenza ed il lutto. La moglie e madre che fugge come se fosse lei la vera vittima di quella patologia infausta. La moglie e madre devastata dal dolore che scarica tutta la propria lancinante angoscia sul marito, gravato da un interminabile senso di colpa. La moglie e madre che, nel ridare la vita, si riapproprierà della capacità di amare quel marito su cui ha scaricato ogni responsabilità, annientandolo. L’adolescente che nella confusione dei sentimenti e nel sesso consumato vuotamente, anche subito dopo la morte del padre, vuole forzare se stesso a riconoscersi ancora vivo, entità corporea che agisce e si muove, senza rendersi conto che sta fuggendo dal suo reale stato d’animo. Gli attacchi di panico sono la cartina di tornasole di ciò che egli realmente è, figlio e cugino del lutto e figlio di una madre, “buco nero” delle afflizioni altrui: il frigo è freddo come lo è la cella dove sta il corpo del suo genitore e non saranno i corpi delle sue “fidanzate” a riscaldarlo.
E’ un film denso e intenso, che non ti molla mai. E’ un film fatto di sguardi, dialoghi e silenzi e silenzi che si fanno dialogo e dialoghi che si fanno silenzi. E’ un film di espressioni mimiche che trasudano dolore e senso di vuoto e disperazione, di drammi che assumono sembianze corporee ed emozioni che parlano un idioma fisico. Il respiro rimane sospeso nell’aria, galleggiando in un’altra dimensione, per tutta la durata dell’interrogatorio di Lee: gli uomini non vogliono concedergli la giusta condanna per quel suo imperdonabile atto, una condanna a cui lui anela.
Le stesse splendide immagini (Jody Lee Lipes), nel loro splendore gelido, bloccano quell’urlo che ogni personaggio vorrebbe lanciare ma che non riesce a far esplodere: il grido è silente ed è fuso nell’incanto pacato della scena finale.
Fabrizio Giulimondi
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