giusy paesano j.
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lunedì 26 ottobre 2015
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la guerra di dheepan
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"Dheepan" e' un film di silenzi e la sua maggiore forza risiede nel non detto,in certi sguardi interrogativi e disarmati,nell'opposizione tra chi siamo, potremmo essere e chi gli altri vorrebbero fossimo,nelle deviazioni,nelle contraddizioni,nei desideri di pace e di normalità,nelle paure di chi non parla una lingua e non la comprende,nell' inadeguatezza di chi e'solo in un paese straniero anche all'interno del proprio cosiddetto "nucleo pseudofamiliare".Ho amato molto la mitezza di Dheepan,quello sguardo dei cingalesi o degli indiani, il loro tipico ondeggiare con la testa quando provano emozioni perchè non sono chiassosi.E' un film di forti tensioni anche emotive che si consumano nell'opposizione tra la messa in scena di un interno( il finto microcosmo familiare,il sordido alloggio nella banlieue parigina) e di un esterno (la periferia degradata,luogo di violenze,di traffici illeciti e di esclusioni).
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"Dheepan" e' un film di silenzi e la sua maggiore forza risiede nel non detto,in certi sguardi interrogativi e disarmati,nell'opposizione tra chi siamo, potremmo essere e chi gli altri vorrebbero fossimo,nelle deviazioni,nelle contraddizioni,nei desideri di pace e di normalità,nelle paure di chi non parla una lingua e non la comprende,nell' inadeguatezza di chi e'solo in un paese straniero anche all'interno del proprio cosiddetto "nucleo pseudofamiliare".Ho amato molto la mitezza di Dheepan,quello sguardo dei cingalesi o degli indiani, il loro tipico ondeggiare con la testa quando provano emozioni perchè non sono chiassosi.E' un film di forti tensioni anche emotive che si consumano nell'opposizione tra la messa in scena di un interno( il finto microcosmo familiare,il sordido alloggio nella banlieue parigina) e di un esterno (la periferia degradata,luogo di violenze,di traffici illeciti e di esclusioni).E' in questa sorta di determinismo che Dheepan e' costretto a muoversi:determinismo dei non affetti,determinismo delle menzogne,determinismo di una periferia-anche sentimentale- che non lascia scampo e in cui è possibile intravedere una speranza solo nella vagheggiata storia d'amore con la donna con cui convive spacciata per moglie.Nonostante tutto c'è nell' opera qualcosa di enfatico che gli sottrae forza e che rovina in un finale retorico che mal si attaglia alla poetica "rude"di Audiard.Se dovessi esprimermi attraverso un voto gli darei 7 per la parte centrale- bellissima- e la grande sensibilità dimostrata dal regista nel tratteggiare le inquietudini, le solitudini, le rabbie di tre esseri umani proveniente da quel Paese lontanissimo- che in Occidente quasi nessuno sembra conoscere-che è lo Skri Lanka இலங்கை
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lbavassano
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martedì 12 aprile 2016
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grande cinema
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C'é molta violenza nei film di Jacques Audiard, ma non è mai una violenza fine a se stessa, nonostante l'alto tasso di spettacolarità delle immagini caratteristica in specie di quest'ultimo. E' una violenza sempre volta a conferire spessore ai personaggi, a rendere intensi e credibili i momenti di tenerezza che pure non mancano, perché Audiard è capace come pochi di coniugare azione ed introspezione. Sono film di forti, fortissimi contrasti, di bellissime storie narrate tramite l'uso magistrale della macchina da presa, tramite la forza delle immagini più che delle parole. I dialoghi sono sempre ridotti al minimo, all'essenziale, e paradossalmente, ma con chiara intenzione, il massimo di comprensione avviene fra due personaggi che parlano lingue diverse in quella che è forse la scena più bella del film.
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C'é molta violenza nei film di Jacques Audiard, ma non è mai una violenza fine a se stessa, nonostante l'alto tasso di spettacolarità delle immagini caratteristica in specie di quest'ultimo. E' una violenza sempre volta a conferire spessore ai personaggi, a rendere intensi e credibili i momenti di tenerezza che pure non mancano, perché Audiard è capace come pochi di coniugare azione ed introspezione. Sono film di forti, fortissimi contrasti, di bellissime storie narrate tramite l'uso magistrale della macchina da presa, tramite la forza delle immagini più che delle parole. I dialoghi sono sempre ridotti al minimo, all'essenziale, e paradossalmente, ma con chiara intenzione, il massimo di comprensione avviene fra due personaggi che parlano lingue diverse in quella che è forse la scena più bella del film. E' sempre centrale nell'opera di Audiard il tema della comprensione al di là delle barriere linguistiche e dei codici. Sono splendidi film quelli di Jacques Audiard ("Tutti i battiti del mio cuore", "Il profeta", "Un sapore di ruggine e di ossa"), capaci di reggere una seconda visione, quando ormai la trama non può riservare alcuna sorpresa, senza perdere nulla della propria intensità, ma anzi traendone addirittura vantaggio, come sempre nel grande cinema.
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riccardo tavani
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venerdì 25 novembre 2016
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dalla giungla a una banlieue il fuori è dentro
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Il film ha vinto la Palma d’Oro al festival di Cannes 2015 e questo – sorprendentemente – assume un suo significato particolare, proprio alla luce del recente attacco jihadista a Parigi. Dheepan è un guerrigliero tamil che mette in scena la sua morte per fuggire dallo Sri Lanka. Per ottenere lo stato di rifugiato politico mette in scena anche una sua finta famiglia, quella formata da una donna sconosciuta, Yailini, che non è sua moglie e una bambina, Illayaal, che a sua volta non è neanche figlia della donna. Tre persone tra esse sconosciute, senza patria e famiglia, che per comune convenienza e sopravvivenza si associano per rifarsi una nuova vita in Europa.
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Il film ha vinto la Palma d’Oro al festival di Cannes 2015 e questo – sorprendentemente – assume un suo significato particolare, proprio alla luce del recente attacco jihadista a Parigi. Dheepan è un guerrigliero tamil che mette in scena la sua morte per fuggire dallo Sri Lanka. Per ottenere lo stato di rifugiato politico mette in scena anche una sua finta famiglia, quella formata da una donna sconosciuta, Yailini, che non è sua moglie e una bambina, Illayaal, che a sua volta non è neanche figlia della donna. Tre persone tra esse sconosciute, senza patria e famiglia, che per comune convenienza e sopravvivenza si associano per rifarsi una nuova vita in Europa.
Ottenuto lo status di rifugiato, Dheepan ottiene anche un alloggio e un lavoro in una banlieue al limite estremo di Parigi con la campagna. Diventa guardiano dello stabile, popolato da immigrati, nel quale abita con Yailini e Illayaal. Deve, però, fare anche le pulizie in un alloggio a pianterreno dello stabile antistante, che è controllato dalla mala franco-algerina. Yailini – che vorrebbe invece andare via da Parigi e raggiungere subito sua sorella a Londra – è costretta ad accettare di fare la badante a un vecchio algerino dello stabile antistante, padre di un giovane boss locale – agli arresti domiciliari – che le bande rivali vogliono uccidere.
La nuova vita di Dheepan si dimostra presto una mera illusione. La violenza, il conflitto armato, la logica della guerra civile e della sopraffazione dalla quale aveva voluto fuggire, la ritrova pari pari nella sua nuova condizione esistenziale in Francia. Deve difendere quella finta moglie, quella finta figlia dall’esposizione alle pistole e ai mitra che vomitano fuoco delle bande rivali tra i viali e le finestre di quella giungla di cemento. È costretto a rindossare i panni del combattente armato e a tracciare una linea bianca di frontiera tra il suo caseggiato e quello della mala locale. Il conflitto, però, è anche dentro la sua attuale patria, la sua finta famiglia. La donna vuole andarsene a tutti i costi da quell’inferno, abbandonando il finto marito e la finta figlia, verso cui – d’altronde – non sente alcun affetto materno o di altro tipo.
L’uniformità egemone imposta dall’Occidente a ogni zona del mondo su produzione, merci, consumi, abitudini sociali, si estende anche alle forme del conflitto armato. L’ultima spettacolare e feroce aggressione al cuore urbano di Parigi lo dimostra: il fuori è dentro. Ma c’è una via di fuga e d’amore da tale autentica eppure finta prigione d’odio? Autentica, perché tale sensibilmente la percepiamo sulla pelle viva del nostro presente. Finta, perché essa c’è imposta dall’attuale civiltà omologata, fin dentro la nostra coscienza più intima o autocoscienza di ciò che percepiamo.
Il regista del film, Jacques Audiard, sembra volerci dire che dentro di noi passa questa ambivalente linea bianca di confine e che in nessun’altra parte del mondo – che non sia tale interiore intimità – si trova una possibilità d’uscita. Ciò è vero, purché non resti un discorso di riscatto meramente soggettivo, individuale, ma sia di civiltà. Così l’inquadratura finale – con la mano di Yailini che carezza con impercettibile ma toccante afflato i capelli di Dheepan, seduto ai suoi piedi – sembra volere estendere universalmente non un discorso ma far epidermicamente sentire a tutti tale abissale soglia di autenticità e finzione, di perdizione e salvezza.
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pierluigi
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mercoledì 28 giugno 2017
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una famiglia, per non morire
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Si racconta la triste vicenda di un guerrigliero Tamil che vuole abbandonare lo Shri Lanka dove ha perso moglie e figli e dove il suo esercito è stato sterminato. Tra le macerie della guerra e le carovane di migranti, conosce una giovane donna e una bambina di nove anni, anche loro private degli affetti più cari. E così i tre decidono di espatriare fingendosi una famiglia. Ce la fanno ed eccoli catapultati nella squallida realtà del quartiere Le Pré nella banlieue parigina. Anche qui degrado sociale, violenza per bande, sfruttamento e su tutto la barriera della lingua… Ma il miraggio di una vita normale da ai tre la forza di lottare. Un cinema intimista che evita le trappole della noia con una serie di acute e poetiche osservazioni.
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Si racconta la triste vicenda di un guerrigliero Tamil che vuole abbandonare lo Shri Lanka dove ha perso moglie e figli e dove il suo esercito è stato sterminato. Tra le macerie della guerra e le carovane di migranti, conosce una giovane donna e una bambina di nove anni, anche loro private degli affetti più cari. E così i tre decidono di espatriare fingendosi una famiglia. Ce la fanno ed eccoli catapultati nella squallida realtà del quartiere Le Pré nella banlieue parigina. Anche qui degrado sociale, violenza per bande, sfruttamento e su tutto la barriera della lingua… Ma il miraggio di una vita normale da ai tre la forza di lottare. Un cinema intimista che evita le trappole della noia con una serie di acute e poetiche osservazioni. Meritata la Palma d’Oro a Cannes.
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greatsteven
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martedì 17 ottobre 2017
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le traversie di un guerrigliero tamil srilankese.
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DHEEPAN – UNA NUOVA VITA (FR, 2015) diretto da JACQUES AUDIARD. Interpretato da JESUTHASAN ANTONYTHASAN, KALIEASWARI SRINIVASAN, VINCENT ROTTIERS, CLAUDINE VINASITHAMNBY, MARC ZINGA
In Sri Lanka divampa la guerra civile. Il guerrigliero Tamil Sivadhasan perde tutti i suoi cari. Quando la situazione si fa troppo pericolosa, l’uomo, rimasto anche senza casa, è costretto a partire in aereo per la Francia. Prima di abbandonar la madrepatria, gli danno carte, passaporto e documenti falsi e gli chiedono di assumere l’identità di Dheepan Natarajan, un combattente morto sei mesi prima, e di fingere che una donna ventiseienne, Yalini, e una bimba di nove anni, Illyaal, siano rispettivamente sua moglie e sua figlia.
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DHEEPAN – UNA NUOVA VITA (FR, 2015) diretto da JACQUES AUDIARD. Interpretato da JESUTHASAN ANTONYTHASAN, KALIEASWARI SRINIVASAN, VINCENT ROTTIERS, CLAUDINE VINASITHAMNBY, MARC ZINGA
In Sri Lanka divampa la guerra civile. Il guerrigliero Tamil Sivadhasan perde tutti i suoi cari. Quando la situazione si fa troppo pericolosa, l’uomo, rimasto anche senza casa, è costretto a partire in aereo per la Francia. Prima di abbandonar la madrepatria, gli danno carte, passaporto e documenti falsi e gli chiedono di assumere l’identità di Dheepan Natarajan, un combattente morto sei mesi prima, e di fingere che una donna ventiseienne, Yalini, e una bimba di nove anni, Illyaal, siano rispettivamente sua moglie e sua figlia. Sbarcati in Europa, i tre vanno ad abitare in un appartamento a Le Pré, dove vengono accolti dal gentile africano Youssouf, il portiere della struttura. Dheepan dovrà lavorare come guardiano dell’edificio e sarà addetto alla consegna delle lettere indirizzate ai coinquilini. Inizialmente solo lui è impegnato, poi anche Yalini trova un impiego come badante di un anziano signore con la stampella, supervisionata da Bechir, il figlio di questi, per il quale fa le pulizie e cucina. Dal canto suo, Illyaal va a scuola, ce la mette tutta per imparare al meglio il francese e ottiene un notevole successo, ma le sue compagne la maltrattano e respingono in quanto straniero. Nonostante le difficoltà di ambientazione e il desiderio sfrenato di Yalini di raggiungere la cugina in Inghilterra, il terzetto arriva pian piano a comportarsi come una vera e propria famiglia. Tutto procede liscio finché non scoppia una scissione fra una gang autoctona e un gruppo estero di rivoluzionari armati, cui le armi vengono fornite da Bechir (il quale, nella semplice veste di commerciante, pagherà con la propria vita la sua fede alla cricca malavitosa) e dal colonnello srilankese Cherin, venuto in Francia per convincere il restio Dheepan a riabbracciare fucile e coltello e tornare a combattere. Dheepan, deciso più che mai a proteggere la donna e la fanciulla che ormai considera suoi famigliari a tutti gli effetti, stabilita una no-fly zone lungo il perimetro esterno del quartiere dov’è il suo appartamento, ridiventa Sivadhasan e guerreggia contro le entrambe le fazioni per riportar la pace, e il suo tentativo frutta i risultati sperati, tant’è che in un finale tranquillo, completamente diverso dalla tensione drammatica e dal contesto di rischio perpetuo che permeano il film, si vede Dheepan tenere in braccio un neonato che potrebbe forse essere il frutto dell’amore ormai maturato verso Yalini… chissà? Un riconoscimento come la Palma d’oro al Festival di Cannes 2015 è troppo esagerato per questo dramma corale con cadenze da thriller e motivazioni da storia bellica con violenza necessaria e giustificata, perché i dubbi, i timori, le ansie, le preoccupazioni e i tentennamenti emotivi non vengono analizzati a fondo in nessuno dei personaggi e la guerra, sia quella combattuta nello stato insulare asiatico, sia quella che esplode poi nell’Europa continentale, nel Paese che più di ogni altro del nostro continente ospita un tasso di stranieri straordinariamente elevato, sembra una sorta di banditismo organizzato in cui intervengono solo prepotenti predatori sanguinari che, se vincono, spogliano il nemico di tutti i suoi averi senza renderglieli mai più, sentimentali e materiali. Ma per il resto, Dheepan si fa apprezzare come un’opera che mette l’amore al primo posto nella scala dei valori degli immigrati, che fuggono da una patria incendiata da scontri dove l’esistenza diventa invivibile e insopportabile per poi cadere dalla padella nella brace, saltando da un conflitto all’altro, tanto per adoperare due espressioni che significhino un concetto che funge da leitmotiv ricorrente per tutti i centodieci minuti di durata. Audiard è un regista medio di successo e di qualità: dirigendo i tre protagonisti di origine asiatica, dimostra di saper dirigere un traffico mica da scherzarci sopra con l’abilità del cineasta consumato, il carisma anti-divistico e la necessità insopprimibile di raccontare l’inizio di un capitolo nuovo nella vita di tre persone che si conoscono appena e devono inscenare una recita affinché tutti vi credano e credano soprattutto nell’affetto che dovrebbe unirli, e che finisce per rendersi davvero forte e saldo solo in seguito a mille sfuriate, litigi, dissensi, pareri opposti, urla scomposte, qualche schiaffo e pianto. Questo è un elemento narrativo che costituisce il trampolino di lancio definitivo di un film che non ha il materiale per imbastire un imperdibile capolavoro da introdurre nella storia del cinema (almeno, quello da cinque stelle sui dizionari, per intenderci), ma riserva comunque un bagaglio considerevole di cose da dire e le dice con accenti veritieri per come si mostrano iper-realistici, sondabili e palpabili. Il razzismo è un’altra ragione che al vicenda evita abilmente di assumere come pretesto e che adopera invece come leva su cui poggiare la socialità e l’intraprendenza dei viaggiatori giocoforza costretti a viaggiare e renderle una coppia vincente di impegno umanitario che grida a gran voce il bisogno di rispetto e tolleranza fra gli esseri umani. Dheepan rappresenta, inoltre – e qui sta forse il significato del suo sottotitolo nostrano –, un punto fondamentale da cui ripartire per ricostruire tutto e lasciarsi alle spalle il passato, salvo poi che questi non ritorni da sé sottoforma di un ufficiale gallonato e inviperito o mediante una lotta furibonda tra due squadre di malviventi che non pretendono altro che lo sterminio totale e indiscriminato degli odiati avversari. Due protagonisti adulti da applauso (nonostante la scelta, non troppo originale né ideale, di lasciare un doppiaggio italiano appena orecchiato e di mantenere i sottotitoli per i dialoghi in idioma autoctono) e un terzo personaggio principale femminile che fa commuovere per come recita con candore e innocenza in un mondo dove lei stessa si accorge che la violenza, gli spargimenti di sangue e la xenofobia la fanno da padroni, stabilendo in completa autonomia le regole di un regolamento che può essere violato e riscritto esclusivamente appoggiandosi alle sensazioni di felicità e vicinanza sentimentale fra popoli distanti per cultura, comportamenti, valuta economica, carnagione della pelle, interessi e canti popolari militareschi. A quest’ultimo proposito, la sequenza più intensa è senz’altro quella in cui Dheepan riesuma, quasi senza volere, il suo passato di soldato mercenario intonando un canto imparato sotto le armi, strillandolo a squarciagola e con le lacrime agli occhi all’interno del buio, umido e sporco bugigattolo che mette in comunicazione il piano inferiore con l’ascensore. Nessuna prolissità, qualche momento un po’ intontito e lento, ma nel complesso la pellicola funziona come il motore di un’autovettura testé riparato e la sua benzina risiede nella prodezza del cast intero e in una sceneggiatura attenta più che mai all’impegno sociale, incentrando il complesso quadro dell’emigrazione come senso da ridare ad una vita ritenuta insoddisfacente o, peggio, sul rischio di venire brutalmente conclusa, e non come strumento di fuga per poi ritrovarsi con le mani di nuovo legate in un viavai di combattimenti ispirati tanto dall’odio quanto dall’adorazione terribilmente infatuante per il dio (e badate bene che qui la maiuscola sarebbe un’autentica bestemmia) denaro.
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