American Crime Story: People V. O.J. Simpson

La prima cosa che mi vien da scrivere è: Grazie. Grazie per avermi tenuto incollato alla tv, rinviando, a più tardi, gli impegni prefissati. Grazie perché era da tempo che non vedevo una serie televisiva senza annoiarmi e senza concedermi distrazioni di tanto in tanto. Grazie per avermi fatto riscoprire il gusto della suspance, deludente nel cinema d’oggi, a volte, anche nei thriller più attesi. E grazie per aver raccontato una storia appassionante e sconvolgente, che permette riflessione e dibattito. Quanti grazie. Fa parte dell’emotività, il ringraziare, quando ti trovi dinanzi qualcuno o qualcosa che ti affascina, che ti colpisce o quando ti viene restituito qualcosa, non necessariamente in senso materiale. L’emotività è passione e contatto con l’altro. Ma essa è portatrice sempre di effetti positivi? Cosa succede se l’emotività diventa protagonista in un’aula di tribunale? Succede che, magari, un omicida viene scagionato in nome di una condizione sociale sfavorita di cui fa parte, che suscita compassione nelle persone, come per esempio, tenendo conto della serie tv di cui si parla, la condizione di “nero maltrattato e perseguitato nell’America razzista”. Succede che gli avvocati della difesa, come nel caso dell’imputato O. J. Simpson, trasformino il processo di omicidio in un comizio popolare, in uno show in cui prendono parte i media, in una spettacolarizzazione ipocrita della lotta dei diritti umani. La tecnica di offuscare la realtà e le prove schiaccianti tramite l’esaltazione di una storia falsa ma commovente e convincente le persone. Una storia che parla di razzismo e di poliziotti bianchi disposti a tutto pur di buttare un uomo di colore in carcere. Una storia molto forte nell’America di quegli anni, che al solo accenno fa tremare migliaia di persone realmente vittime di quella condizione. Una storia che causa un tale malcontento in chi l’ascolta, che genera giudizi rapidi, netti, incontrovertibili. In una situazione del genere non viene dato il tempo ad un’analisi imparziale e approfondita. Poco contano le prove, unici elementi, in termini giudiziari, ad attestare la veridicità di una tesi. Poco conta l’omicidio di due persone perché nel frattempo si sta commettendo un crimine che riguarda un’intera comunità di colore. E poco conta che O. J. Simpson non condivide più niente con i suoi “fratelli di colore” in termini di modo di vivere e mentalità. È tutt’altro che membro attivo di quella comunità di cui lui si sta servendo, facendosi meschinamente portavoce nel processo. Ma, dopotutto, cosa ci si aspetta da una società che da così tanto credito alle apparenze, da arrivare a valutare una donna avvocato dal suo taglio di capelli e non dalla forza delle sue parole, dalla dedizione che profonde nel lavoro e dalla sua passione verso la giustizia? Cosa ci si aspetta da una società che si fa portavoce di morali e principi di uguaglianza e lealtà ma che lascia vincere ed esalta il furbo arrivista e scamazza l’onesto? Giungla umana definirei. E vi lascio con l’ultimo interrogativo, in questa recensione ricca di domande, in pieno stile “American crime story”. Vogliamo davvero che una sentenza penale di omicidio venga data da una giuria popolare inesperta in materia, emotiva e condizionabile?