Luc Besson è così. O lo ami o lo detesti.
Noi, stregati dalle sue eroine straziate, siamo stati tra i più fervidi sostenitori. In lui abbiamo sempre ammirato il linguaggio espressivo innovativo, iperrealista, crudele sino alla parodia della propria crudeltà.
Ora abbiamo questo nuovo prodotto, al quale ci siamo accostati con curiosità, e, forse, lo ammettiamo, con qualche prevenzione. Primo tra tutti il casting, quasi un deferente omaggio alle esigenze del botteghino.
La trama non è originalissima. La vicenda che narra del superamento dei limiti fisici dell'individuo l'abbiamo già vista trattata qua e là dagli ultimi cineasti. Tra tutti l'ultimissimo Johnny Depp di Trascendence, di Wally Pfister (più noto come collaboratore di Christopher Nolan ... veh, che coincidenze!).
Ma sappiamo benissimo, o almeno questa era la nostra residua certezza, che per l'eclettico Besson la storia è solo un pretesto per mettere in scena i suoi allucinati personaggi. Ma stavolta non è così. Purtroppo. Stavolta Besson si prende un po' troppo sul serio e cavalca una trama greve, intrisa di pesante moralismo e di un po' di pseudofilosofia da bar.
La mano dietro alla macchina da presa è sua: non c'è dubbio. La sceneggiatura è forte e strutturata come un gioco ad incastro. Raffinata e non banale, e di questo gli siamo grati. Sono suoi i chirurgici primi piani sul viso stravolto della povera Scarlett Johannson. Anche la fotografia "sporca" è bella e coerente con la sua poetica filmica.
Ma che succede? Dov'è andata a finire la sottile autoironia del regista francese? Il film non va bene, purtroppo, proprio perchè smarrito dietro a divagazioni ondivaghe tra sillogismi zen e gnoseologia cartesiana.
La filosofia non fa bene al cinema. Da quando Bergman intingeva le pagine dentro al pensiero di Schopenauer sono trascorsi millenni. Il cinema oggi è un'altra storia. Più che alle lenti della macchina da presa gli autori fanno affidamento agli effetti speciali. Ed il passo vero il didascalico è tragicamente incombente. Dovrebbero mettere al rogo gli "alberi della vita" di Malik e tutti suoi pedissequi imitatori. Quando dopo lunghi ed interminabili minuti di lucine e nubi colorate compare la scimmietta Lucy (antesignana dell'homo sapiens, la cui ultima dimora è effettivamente al Museo dell'Uomo in faccia alla torre Eiffel), è diificile non pensare ai dinosauri di Terrence Malik,e, a cascata, alle scimmie antropomorfe di Kubrick. Ma stavolta è anche difficile non sorridere.
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