ralphscott
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domenica 24 novembre 2013
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anni infelici
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Esco dalla sala pensando all'epilogo catartico sulla discarica,immagini di fotre presa. Il nostro povero Eugenio sembra farsi una ragione del suo destino di anima pura tra faccendieri ed edonisti,anche quando credeva che la fortuna stesse per sorridergli. A dire il vero,nel corso della vita,non subisce,se non marginalmente,le lusinghe del facile successo. Anzi,rinuncia al posto fisso ed ai suoi tragici effetti (esilerante cuoco). Considerando il film tutto,la narrazione scorre per episodi prevedibili,raccontati con scene poco coinvolgenti,poco incisive. Insomma,mi strappa parecchie risate senza convincermi. E lasciandomi un fondo di tristezza,in quanto commedia amara.
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Esco dalla sala pensando all'epilogo catartico sulla discarica,immagini di fotre presa. Il nostro povero Eugenio sembra farsi una ragione del suo destino di anima pura tra faccendieri ed edonisti,anche quando credeva che la fortuna stesse per sorridergli. A dire il vero,nel corso della vita,non subisce,se non marginalmente,le lusinghe del facile successo. Anzi,rinuncia al posto fisso ed ai suoi tragici effetti (esilerante cuoco). Considerando il film tutto,la narrazione scorre per episodi prevedibili,raccontati con scene poco coinvolgenti,poco incisive. Insomma,mi strappa parecchie risate senza convincermi. E lasciandomi un fondo di tristezza,in quanto commedia amara. Forse descrivere decenni di vita di una famiglia in due ore scarse porta necessariamente a semplificazioni,soprattutto se l'ambizione é anche quella di parlare del popolo italiano. Ma messe in scena come gli uffici visitati dalla finanza o la festa in villa hanno più il sapore di fiction che di cinema autoriale. Alcuni grandi attori,a cominciare da Germano,garantiscono momenti godibili. Haber é un artista indimenticabile,e le scene con Eugenio quelle più riuscite.
La frase di lancio l'ho scelta perché il recente "Anni felici" mi é venuto più volte in mente durante la visione di "L'ultima ruota del carro": lascio ai lettori gli eventuali confronti.
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rescart
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giovedì 21 novembre 2013
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le pagliuzze dei romani
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Come se volesse appendere sulla parete del grande schermo il dipinto di un epoca che copre un arco di quarantacinque anni, Veronesi pianta due chiodi ben saldi sul muro della storia: l’omicidio di Aldo Moro ad opera delle brigate rosse e l’accoglienza a suon di monetine riservata a Bettino Craxi in uscita dall’Hotel Rafael, graziato dal Parlamento ma non dalla piazza, a dispetto della pi minuscola. In mezzo si apre e si chiude una storia italiana fatta di raccomandazioni a persone incapaci anche se oneste, di corruzione, ruberie e tangenti. Elio Germano, accompagnato per mano da comici del calibro di Ricky Memhis, Maurizio Battista e Virginia Raffaele si immerge forse per la prima vota totalmente nei panni di un personaggio tragicomico, Nando,che viene sballottato qua e là prima da un padre padrone che lo considera l’ultima ruota del carro della sua famiglia, poi dall’amico Giacinto (Ricky Memphis) che lo molla nel bel mezzo della sua carriera d’imprenditore nel settore dei traslochi.
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Come se volesse appendere sulla parete del grande schermo il dipinto di un epoca che copre un arco di quarantacinque anni, Veronesi pianta due chiodi ben saldi sul muro della storia: l’omicidio di Aldo Moro ad opera delle brigate rosse e l’accoglienza a suon di monetine riservata a Bettino Craxi in uscita dall’Hotel Rafael, graziato dal Parlamento ma non dalla piazza, a dispetto della pi minuscola. In mezzo si apre e si chiude una storia italiana fatta di raccomandazioni a persone incapaci anche se oneste, di corruzione, ruberie e tangenti. Elio Germano, accompagnato per mano da comici del calibro di Ricky Memhis, Maurizio Battista e Virginia Raffaele si immerge forse per la prima vota totalmente nei panni di un personaggio tragicomico, Nando,che viene sballottato qua e là prima da un padre padrone che lo considera l’ultima ruota del carro della sua famiglia, poi dall’amico Giacinto (Ricky Memphis) che lo molla nel bel mezzo della sua carriera d’imprenditore nel settore dei traslochi. Quello che il film non ci dice è che finalmente, stroncato dal mal di schiena ma sopravvissuto ad una diagnosi errata di cancro al polmone, il nostro eroe senza macchia e senza paura approderà a Cinecittà, dove nel ruolo di custode conoscerà i più famosi personaggi del cinema anni ’80 e sarà anche ingaggiato da Carlo Verdone per una piccola parte in “Gallo cedrone”. Invece un suo amico d’infanzia pugliese, che sembrava aver rotto con lui perché non disposto ad aiutarlo nei suoi loschi progetti di ex galeotto, farà più carriera nel mondo del cinema, diventando mastro cerimoniere delle scenografie cinematografiche di gala. Sarà lui a dargli la sua ultima possibilità di arricchirsi, quella che aveva sdegnosamente rifiutato anni prima, ma evidentemente era destino che la perdesse. Abbagliato da tutto quello splendore, che più correttamente dovremmo definire “la grande ricchezza” anziché “la grande bellezza”, che la capitale gli aveva solo fatto sfiorare, mettendolo subito dopo in guardia sui rischi che il rovescio della medaglia comporta, cioè la galera, era inevitabile che Ernesto non comprendesse immediatamente l’ineluttabilità del destino che lo aveva raggiunto. Perché i soldi non danno la felicità e chi trova un amico trova un tesoro. Ma soprattutto chi trova una moglie (Alessandra Mastronardi,) brava e comprensiva, che lo perdona anche quando non sa trattenere parole irriverenti nei verso di lei solo per aver fatto il suo dovere di massaia esemplare. Non sempre andare in goal è proficuo e Ernesto avrebbe fatto bene a non entusiasmarsi troppo neanche per i goal della nazionale italiana. In fondo un po’ di leghismo o se si preferisce di anti-nazionalismo, non guasta mai. Soprattutto per un carattere come quello di Ernesto che incarna il classico “romano de’ Roma”, come ben aveva capito Verdone.
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goldy
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mercoledì 20 novembre 2013
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non c'è nulla
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Sceneggiatura fragile, debole insipiente. Una storia che vorrebbe essere epica ma riesce solo a essere piccola. Niente a che vedere con "Caterina va in città " che invece sì, merita di inserirsi nella scia della grande commedia ll'italiana. Peccato un ennesimo sperpero di denaro.
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pressa catozzo
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mercoledì 20 novembre 2013
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lamentarsi
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Ottimo è troppo - discreto lo ritengo riduttivo.
Di solito nei titoli di coda appare la dicitura; Ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale.
In questa opera .... aimè ci consola solo il fatto che le opere sono state concesse da Mimmo Palladino.
Buona visione.
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gretasantarelli
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mercoledì 20 novembre 2013
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bellissimo
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Solo una parola... MERAVIGLIOSO!
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scoutfinch
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mercoledì 20 novembre 2013
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un buon veronesi che parla di tutti noi
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Devo dire, a mente lucida, che non ho avuto l'impressione di trovarmi di fronte ad un capolavoro. Eppure, ai titoli di coda, mi sono ridotta giocoforza ad asciugare qualche lacrimuccia impertinente. L'Ultima Ruota Del Carro parla di noi. Parla di noi attraverso la voce di un Germano sublime, proiettandoci verso l'ascesa veloce alla vecchiaia, dove l'unica chance di sopravvivenza è l'amore (non solo in senso di partner, ma l'amore per sé, per la morale, l'amore come sentimento universale), un'amore tuttavia non abbastanza disincantato da ignorare il rifiuto, la decadenza, il fallimento.
Ernesto è caratteriale e tenero; è quello che non sa dire di no, che conduce la sua vita in punta di piedi e con rispetto, che chiede scusa; l'uomo qualunque che decide di piegarsi al lavoro fisico piuttosto che farsi piegare la schiena in altri modi, anche se la sua ingenuità non sempre gli concede un percorso cristallino.
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Devo dire, a mente lucida, che non ho avuto l'impressione di trovarmi di fronte ad un capolavoro. Eppure, ai titoli di coda, mi sono ridotta giocoforza ad asciugare qualche lacrimuccia impertinente. L'Ultima Ruota Del Carro parla di noi. Parla di noi attraverso la voce di un Germano sublime, proiettandoci verso l'ascesa veloce alla vecchiaia, dove l'unica chance di sopravvivenza è l'amore (non solo in senso di partner, ma l'amore per sé, per la morale, l'amore come sentimento universale), un'amore tuttavia non abbastanza disincantato da ignorare il rifiuto, la decadenza, il fallimento.
Ernesto è caratteriale e tenero; è quello che non sa dire di no, che conduce la sua vita in punta di piedi e con rispetto, che chiede scusa; l'uomo qualunque che decide di piegarsi al lavoro fisico piuttosto che farsi piegare la schiena in altri modi, anche se la sua ingenuità non sempre gli concede un percorso cristallino. E' l'uomo che i soldi sono belli solo perché lo rendono buono a qualcosa, perché accendono l'animo della moglie e del figlio. E' l'uomo che la notte tira le somme della sua giornata e si addormenta accanto alla donna che non può fare a meno di amare da quando aveva vent'anni, la stessa che sacrificherà la sua vita a fare ciò che deve e il cui giudizio sarà una tappa indispensabile prima di chiudere gli occhi. E' un uomo che vive il sacrificio a testa alta, conscio di avere accanto a sé, in realtà, tutto ciò che serve.
Eppure, il tempo non dà scampo a nessuno, neanche al buon Ernesto, e Veronesi ci dimostrerà come la vecchiaia non faccia sconti alla bontà, come ci renda obsoleti di fronte agli altri, di fronte a noi stessi, fino alla disperazione rude e strillata che proverà a far infilare a forza il senso della propria vita in un gratta e vinci vincente e nell'umiliazione reciproca.
Un film bello non di per sé, ma per la sapiente proiezione che ognuno di noi saprà trovarvi all'interno, nel (tanto) bene e nel (necessario) male.
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pasquiota
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mercoledì 20 novembre 2013
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déja vu all'italiana
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Di pellicole che ripercorrono gli ultimi trenta-quarant'anni della nostra storia ne sono uscite parecchie, ciascuna con i loro pregi e difetti. Ma questa di Veronesi lascia un margine di imbarazzo, per la mancanza di spessore dei temi trattati. La storia e la cronaca d'Italia scorrono sotto traccia, senza avvincere e convincere, così come alcuni personaggi rimangono poco credibili e vuoti. A cominciare dalla protagonista Angela, interpretata dalla Mastronardi, che percorre tutto il film con la vitalità di una pianta. Peccato, perché lo spunto del giovane Ernestoche attraversa la storia dagli anni Sessanta ad oggi, cambiando continuamente occupazione e mantenendo un'onesta e un rigore morale assoluto, mentre il Paese s'impastoia con raccomandazioni, malaffari e corruzione politica, meritava tutt'altra levatura.
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Di pellicole che ripercorrono gli ultimi trenta-quarant'anni della nostra storia ne sono uscite parecchie, ciascuna con i loro pregi e difetti. Ma questa di Veronesi lascia un margine di imbarazzo, per la mancanza di spessore dei temi trattati. La storia e la cronaca d'Italia scorrono sotto traccia, senza avvincere e convincere, così come alcuni personaggi rimangono poco credibili e vuoti. A cominciare dalla protagonista Angela, interpretata dalla Mastronardi, che percorre tutto il film con la vitalità di una pianta. Peccato, perché lo spunto del giovane Ernestoche attraversa la storia dagli anni Sessanta ad oggi, cambiando continuamente occupazione e mantenendo un'onesta e un rigore morale assoluto, mentre il Paese s'impastoia con raccomandazioni, malaffari e corruzione politica, meritava tutt'altra levatura.
Sconcertante poi la vicenda del tumore diagnosticato, quando Ernesto, attraverso una raccomandazione, perviene da un altro specialista, che sconfessa la diagnosi pessimista rilasciata dal precedente ospedale. Come a dire allo spettatore: guarda, non fidarti della sanità senza spintarelle. Politicamente scorretto.
Tuttavia il film non è solo un occasione persa. Elio Germano è come sempre bravissimo e i personaggi minori interpretati da Haber, Memphis e Rubini sono divertenti. Così come l'ultima scena girata nella discarica, che chiude specularmente l'apertura, ha un suo impatto visivo, pur nella trita banalità del clichet del biglietto vincente della lotteria finito nel cestino.
Certo, alla fine non si può fare a meno di pensare ad altri registi che hanno toccato il tema con mano assai più felice. Ma niente paragoni, per carità.
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macelleria marleo
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mercoledì 20 novembre 2013
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sei felice, tu? di cosa? della vita. della vita sì
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Chissà se lo hai visto Nostalghia di Tarkovskij e il monologo gridato dal folle: bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno, qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi non importa se poi non le costruiremo, bisogna alimentare il desiderio, dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito.
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Chissà se lo hai visto Nostalghia di Tarkovskij e il monologo gridato dal folle: bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno, qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi non importa se poi non le costruiremo, bisogna alimentare il desiderio, dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito.
E poi me ne andavo al cinema, così tra le lenzuola stese ti ho chiesto: vuoi fidanzarti con me? Nessuna cena elegante, nessun foglietto con due possibilità da barrare con una x. Conoscersi nell’abitudine al lavoro, nella frequentazione dello stesso spazio, e poi il matrimonio, il letto, la vita insieme.
Le parole sussurrate sulla schiena delle coperte, la televisione che ci prende la mano per condurci al sonno e poi le preoccupazioni del quotidiano smorzate in abbracci. Mi ascolti tu, ti ascolto io, dimmelo adesso di che altro ancora abbiamo bisogno? La naturalezza dei gesti e gli amici di sempre, chi non passa mai il pallone e chi trascorre tutta la vita ad aspettare il passaggio smarcante per prendersi la responsabilità del tiro in porta e accettare la gioia del goal. Siamo brave persone, dicono i più, chissà poi che vuol dire, quest’onestà che portiamo nei tratti del viso e pare non serva a nulla; la fatica di molti, i soldi dei furbi e il loro stuolo di amanti.
Poi i disegni su tele enormi per dar colore alla noia dei letti disfatti, dei vetri oscurati a proteggere l’illegalità dei viaggi dei potenti.
Quante candeline hai spento e quante ancora ne spegnerai?
E chi sono poi gli altri per giudicare quello che fai, ti appenderanno sulle spalle responsabilità che non hai mai immaginato e sotto all’albero di Natale verranno ad abbracciarti, a controllare la lucentezza delle tue scarpe, la morbidezza del tuo maglione. Ti vogliono bene, lo sai, soltanto la vita li ha ridotti così. Che farsi forti vuol dire modulare gesto: una mano può esser pugno, può esser carezza, lo sai anche tu questo?
E finiva che ci ingannavano anche i dottori, vivevamo la vita senza rendercene poi tanto conto, tu che sorridevi al cravattino, il baffo accennato di Carmelo Bene; ci sono cose che si avvertono anche senza capirle e poi sudore e l’ora più bella del giorno, dopo il lavoro, quando le serrande si abbassano e si accendono le luci e fuori è buio, la tavola è apparecchiata, la cena e le preoccupazioni da affidare alla sedia e al neo che porti sulle labbra, la grazia nel lavare i piatti e la consolazione dell’ultimo sorso di vino.
Nel bacio prima del sonno pensare che sei tutto e qui: tu donna, tu madre, nonna, santa e poi troia, diavolo e angelo e fratello e sorella e già figlia. Ho tutte le donne del mondo perché ho te, tu che sei tutte, trovare l’infinito quando sai contare soltanto fino a due.
E lo sai che c’è? C’è che non siamo mai state comparse e non ci hanno fatto mai ridere le battute sessiste alle cene eleganti. Che in mezzo alla folla basta uno sguardo e ci facciamo camino e poi fuoco. Non importa se perderemo ai gratta e vinci, non importa nemmeno che diranno i tuoi, che diranno i miei, magari saremo nonni, magari no.
Ce lo vedremo prima o poi Nostalghia di Tarkovskij e arriverà quella scena, quando il poeta domanda alla bambina: sei felice tu? Di cosa? Domanda lei. Della vita. Continua lui. Beh, della vita, sì. Risponde la bimba, e poi nasconde il viso e poi sorride e poi m’immagino che guarda in alto, che cerca il cielo.
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macelleria marleo
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mercoledì 20 novembre 2013
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sei felice, tu? di cosa? della vita. della vita sì
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Chissà se lo hai visto Nostalghia di Tarkovskij e il monologo gridato dal folle: bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno, qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi non importa se poi non le costruiremo, bisogna alimentare il desiderio, dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito.
E poi me ne andavo al cinema, così tra le lenzuola stese ti ho chiesto: vuoi fidanzarti con me? Nessuna cena elegante, nessun foglietto con due possibilità da barrare con una x. Conoscersi nell’abitudine al lavoro, nella frequentazione dello stesso spazio, e poi il matrimonio, il letto, la vita insieme.
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Chissà se lo hai visto Nostalghia di Tarkovskij e il monologo gridato dal folle: bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno, qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi non importa se poi non le costruiremo, bisogna alimentare il desiderio, dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito.
E poi me ne andavo al cinema, così tra le lenzuola stese ti ho chiesto: vuoi fidanzarti con me? Nessuna cena elegante, nessun foglietto con due possibilità da barrare con una x. Conoscersi nell’abitudine al lavoro, nella frequentazione dello stesso spazio, e poi il matrimonio, il letto, la vita insieme.
Le parole sussurrate sulla schiena delle coperte, la televisione che ci prende la mano per condurci al sonno e poi le preoccupazioni del quotidiano smorzate in abbracci. Mi ascolti tu, ti ascolto io, dimmelo adesso di che altro ancora abbiamo bisogno? La naturalezza dei gesti e gli amici di sempre, chi non passa mai il pallone e chi trascorre tutta la vita ad aspettare il passaggio smarcante per prendersi la responsabilità del tiro in porta e accettare la gioia del goal. Siamo brave persone, dicono i più, chissà poi che vuol dire, quest’onestà che portiamo nei tratti del viso e pare non serva a nulla; la fatica di molti, i soldi dei furbi e il loro stuolo di amanti.
Poi i disegni su tele enormi per dar colore alla noia dei letti disfatti, dei vetri oscurati a proteggere l’illegalità dei viaggi dei potenti.
Quante candeline hai spento e quante ancora ne spegnerai?
E chi sono poi gli altri per giudicare quello che fai, ti appenderanno sulle spalle responsabilità che non hai mai immaginato e sotto all’albero di Natale verranno ad abbracciarti, a controllare la lucentezza delle tue scarpe, la morbidezza del tuo maglione. Ti vogliono bene, lo sai, soltanto la vita li ha ridotti così. Che farsi forti vuol dire modulare gesto: una mano può esser pugno, può esser carezza, lo sai anche tu questo?
E finiva che ci ingannavano anche i dottori, vivevamo la vita senza rendercene poi tanto conto, tu che sorridevi al cravattino, il baffo accennato di Carmelo Bene; ci sono cose che si avvertono anche senza capirle e poi sudore e l’ora più bella del giorno, dopo il lavoro, quando le serrande si abbassano e si accendono le luci e fuori è buio, la tavola è apparecchiata, la cena e le preoccupazioni da affidare alla sedia e al neo che porti sulle labbra, la grazia nel lavare i piatti e la consolazione dell’ultimo sorso di vino.
Nel bacio prima del sonno pensare che sei tutto e qui: tu donna, tu madre, nonna, santa e poi troia, diavolo e angelo e fratello e sorella e già figlia. Ho tutte le donne del mondo perché ho te, tu che sei tutte, trovare l’infinito quando sai contare soltanto fino a due.
E lo sai che c’è? C’è che non siamo mai state comparse e non ci hanno fatto mai ridere le battute sessiste alle cene eleganti. Che in mezzo alla folla basta uno sguardo e ci facciamo camino e poi fuoco. Non importa se perderemo ai gratta e vinci, non importa nemmeno che diranno i tuoi, che diranno i miei, magari saremo nonni, magari no.
Ce lo vedremo prima o poi Nostalghia di Tarkovskij e arriverà quella scena, quando il poeta domanda alla bambina: sei felice tu? Di cosa? Domanda lei. Della vita. Continua lui. Beh, della vita, sì. Risponde la bimba, e poi nasconde il viso e poi sorride e poi m’immagino che guarda in alto, che cerca il cielo.
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