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domenica 25 giugno 2023
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giornalista???
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Cambia mestiere, sei veramente oscena
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giovedì 24 marzo 2022
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completamente in disaccordo
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Ma cosa dici!!un film bellissimo di un grande regista e tu lo liquidi con due stelle??ma cambia mestiere
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martedì 7 aprile 2020
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babel
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come ha fatto a vincere tanti premi? la colonna sonora poi...
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lunedì 30 settembre 2019
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d’accordissimo
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Una divina spiegazione. Bellissima
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giorpost
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lunedì 13 novembre 2017
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quanto è difficile comunicare e farsi capire?
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In una remota e desolata landa del Marocco Richard e Susan, due coniugi americani in crisi, stanno viaggiando in pullman con altri turisti, quando lei viene improvvisamente colpita da un proiettile vagante tra spalla e collo; dall'altra parte dell'oceano una tata messicana di nome Amalia si reca -senza il permesso dei datori di lavoro- al matrimonio del figlio nel nord della Bassa California, scortata dal nipote e da due bambini di carnagione chiara e capelli biondi i quali, nel giro di 24 ore, si ritroveranno abbandonati in una zona desertica a metà strada tra Tijuana e San Diego; in Giappone, invece, una giovane giocatrice di volley sordomuta cerca disperatamente di farsi accettare dagli uomini, convinta di non esserne attratta, mentre suo padre -rimasto vedovo- è ricercato dalla polizia di Tokyo perché proprietario di un fucile Winchester usato in una sparatoria in un altro continente.
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In una remota e desolata landa del Marocco Richard e Susan, due coniugi americani in crisi, stanno viaggiando in pullman con altri turisti, quando lei viene improvvisamente colpita da un proiettile vagante tra spalla e collo; dall'altra parte dell'oceano una tata messicana di nome Amalia si reca -senza il permesso dei datori di lavoro- al matrimonio del figlio nel nord della Bassa California, scortata dal nipote e da due bambini di carnagione chiara e capelli biondi i quali, nel giro di 24 ore, si ritroveranno abbandonati in una zona desertica a metà strada tra Tijuana e San Diego; in Giappone, invece, una giovane giocatrice di volley sordomuta cerca disperatamente di farsi accettare dagli uomini, convinta di non esserne attratta, mentre suo padre -rimasto vedovo- è ricercato dalla polizia di Tokyo perché proprietario di un fucile Winchester usato in una sparatoria in un altro continente. Tre storie che ad un primo sguardo appaiono slegate tra loro (visto che si svolgono l'una a migliaia di kilometri di distanza dall'altra) ma che convergeranno in una sorta di scala di Escher all'interno della quale i fatti raccontati sono inevitabilmente interconnessi, senza un'apparente soluzione.
In un vortice di eventi inarrestabili scopriamo che esistono legami (affettivi e non) tra i vari protagonisti e ci accorgiamo di quanto possa essere sottile la linea del destino, anche -e soltanto- per la mancanza di pazienza da parte di qualcuno, vuoi che sia un poliziotto di frontiera, vuoi che si tratti di un gruppo di viaggiatori incapaci di empatia ma (invece) impazienti di far ritorno in albergo a cospetto di una vita in pericolo. Tre drammi diversi che sono, in realtà, tre lati di un triangolo umano, tra lingue, bandiere ed usanze lontane.
Babel (USA, Messico, 2006) è un film corale che per ritmo e concept ricorda Magnolia e Crash, ma dai quali si differenzia per l'ambientazione intercontinentale. La terza opera per il grande schermo di Iñárritu cattura l'interesse specialmente per la nitidezza scenica, grazie alla fotografia del fidato Prieto, ma anche per la bravura degli attori meno noti, tutti perfetti nei rispettivi ruoli. E' chiaro che il regista-sceneggiatore ha voluto raccontarci il suo punto di vista sul linguaggio del corpo e sulle difficoltà di comunicazione: il giovane Santiago che tradisce il suo essere brillo, la giovane Chieco che cerca di comunicare le sue voglie salvo provocare stupore e sconcerto, un padre di famiglia merocchino che cerca di spiegare alla spietata polizia che davvero non sa chi abbia usato quel fucile Winchester, il disperato Richard che prova a far ragionare i connazionali, esortandoli ad attendere l'ambulanza che potrebbe salvare la vita alla moglie...
Delle tre locations oggetto dello svolgimento dei fatti, quella che maggiormente colpisce dal punto di vista umano è senza dubbio la giapponese, dove la bella Rinko Kikuchi è bravissima nel vestire i difficili panni di un'adolescente colpita da una disabilità alienante; facendosi capire con la lingua dei segni, prova in ogni modo a farsi amare, trovando diniego da ogni parte e restando inaspettatamente delusa anche dalla sua migliore amica. In una metropoli sempre più tecnologica quale è Tokyo, la dolce Chieco muove le gesta di una tipica ragazza nipponica che vuole semplicemente divertirsi, avendo sullo sfondo quel caos calmo che normalmente aleggia tra le strade della capitale del sol levante, con la non trascurabile differenza che lei quei suoni non può sentirli. Molto convincente anche il segmento Californiano -sia dalla parte a stelle e strisce che da quella messicana- nel quale troviamo tradizioni tipiche del posto (matrimoni interminabili) e ri-troviamo le solite sequenze di confine, tra guardie sospettose e giovani che hanno sempre qualcosa da nascondere, anche se puliti. In Marocco, centro e fulcro intorno al quale ruotano gli altri pianeti come in un mini-sistema solare, troviamo Brad Pitt e Cate Blanchett disperatamente alla ricerca della felicità perduta a causa della morte del loro ultimo figlio appena nato, restando implicati in qualcosa di più grande di loro, tra un fucile da caccia regalato e dato “in gestione” a due ragazzini sprovveduti e villaggi allo stato brado nei quali il medico del posto risulta essere un veterinario. In un circolo d'azione grande quanto il diametro della Terra, tra lingue diverse e diversi approcci alla vita, scoviamo un secondo filo conduttore nel diverso modo di fare dei poliziotti, a seconda della latitudine: quello sospettoso di frontiera (USA), quello spietato ma in fondo comprensivo (Marocco) e quello buono, gentile e premuroso (Giappone, ovviamente). Una pellicola che riflette il lato animale dell'uomo, senza la parte del grugnito, mostrandoci direttamente il morso: Brad Pitt che distribuisce morsi ovunque pur di salvare la vita della malcapitata moglie; la tata messicana che sa di averla fatta grossa ma fa di tutto per salvare i due ragazzini affidatigli; la giovane asiatica che cerca di mordere la vita nel modo a lei più congeniale, con il linguaggio -inequivocabile- del corpo. E il linguaggio, appunto, è il filo principale che accomuna l'opera in una concentrazione di sforzi (umani e disumani) per raggiungere una non meglio determinata soluzione, una Babele di gesti, sentimenti e risentimenti che sa di amaro e che non addolcisce nemmeno un poco nonostante le vite (quasi tutte) salvate.
Bellissima la sequenza finale, con una ragazza completamente nuda stretta al padre sul balcone all'ultimo piano di un grattacielo, con Tokyo sullo sfondo, vera Babele di suoni, luci e colori.
Voto: 8
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alberto
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lunedì 22 maggio 2017
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4 storie verosimili e drammatiche
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Cosa potrà mai accomunare una coppia californiana in viaggio reduce dalla prematura morte del figlio, due ragazzi marocchini intenti a maneggiare un fucile per acquisire una buona mira, due bambini che attraversano il Messico sotto la responsabilità della tata e un'adolescente giapponese sordomuta? Lo spettatore, di fronte a quattro storie che si alternano nel corso della pellicola, percorre gradualmente un cerchio e partecipa ad un gioco di causa-effetto improbabile ma molto verosimile, che ci aiuta a ricordare, come direbbe Einstein, che l'unica razza di questo mondo è quella umana e non possiamo dare per scontato che la lontananza geografica o culturale equivalga al lavamento delle mani.
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Cosa potrà mai accomunare una coppia californiana in viaggio reduce dalla prematura morte del figlio, due ragazzi marocchini intenti a maneggiare un fucile per acquisire una buona mira, due bambini che attraversano il Messico sotto la responsabilità della tata e un'adolescente giapponese sordomuta? Lo spettatore, di fronte a quattro storie che si alternano nel corso della pellicola, percorre gradualmente un cerchio e partecipa ad un gioco di causa-effetto improbabile ma molto verosimile, che ci aiuta a ricordare, come direbbe Einstein, che l'unica razza di questo mondo è quella umana e non possiamo dare per scontato che la lontananza geografica o culturale equivalga al lavamento delle mani. La sceneggiatura di Guillermo Arriaga non si riduce al solito significato allegorico/filosofico che innalza le buone critiche, ma, grazie alla regia di Alejandro Gonzalez Inarritu, ci offre tra l'altro un panorama di ben 4 realtà e quelli che potrebbero essere i loro problemi, che siano sociali o politici: troviamo infatti una ragazzina di Tokyo che cadrà progressivamente in un vortice apparentemente senza uscita di depresione e di totale mancanza di autostima, causato dal suo handicap che gli impone di comunicare attraverso gesti e portarsi dietro un taccuino su cui all'occorrenza scrive le sue domande e le sue risposte e che la costringe soprattutto a non sentire la musica della discoteca e ad essere scansata dai coetanei dell'altro sesso. Poi abbiamo i due ragazzi che pagheranno amaramente il loro "gioco" da cecchini, dai quali però trasparirà il tipico pregiudizio occidentale nei confronti del terzo mondo. La coppia americana invece affronterà un avvenimento che metterà da parte la loro crisi e che nel finale espliciterà l'opposizione tra l'esito felice di questi ultimi e quello per niente allegro dei ragazzini: finali che vorrebbero ripetere il topos del "felici e "contenti" occidentale e del purtoppo brutto termine di molte vicende del terzo mondo, ma che in realtà lo criticano pesantemente con l'evidenza. Infine abbiamo due bambini che, anche se inconsapevolmente, faranno visita all'altra pesante realtà di quell'altrettanto pesante divisione tra Usa e Messico data concretamente dal muro costruito al confine. Inarritu, divenuto celebre tra il grande pubblico soprattutto per il suo capolavoro "Birdman" (Miglior film agli oscar) e per "Revenant", grazie al quale Di Caprio ha vinto il suo primo oscar come miglior attore, costruisce un intreccio congegnato, oserei dire, alla perfezione, ma in particolare insolito e molto interessante, apparentemente lento, ma in realtà capace di raccontare di tutto e di più, e aperto a molteplici interpretazioni. Nel cast troviamo Brad Pitt e Cate Blanchett, che interpretano la coppia, e anche la musa di Nicolas Winding Refn, Elle Fanning, e il messicano Michael Pena, nel suo solito ruolo di agente di polizia. Da segnalare la sublime colonna sonora di Gustavo Santaolalla, grazie al quale vinse l'Oscar e che invade soprattutto il finale, impreziosendolo più che mai. "Babel" è dunque una pellicola anomala, anticonvenzionale e non adatta a tutti (sesso e violenza non mancano), che incolla allo schermo e offre uno sguardo drammatico e malinconico della realtà.
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danko188
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mercoledì 9 marzo 2016
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atto iii della trilogia della morte
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Marocco. Un pastore acquista un fucile per tenere lontani gli sciacalli dal suo gregge, affidandolo ai suoi due giovanissimi figli i quali, per testare la validità dell’arma, si apprestano a far fuoco da un monte dell’Atlante ai primi bersagli umani che si trovano sotto i loro occhi. Una donna americana (Cate Blanchett) che si trova su un pullman di turisti assieme al marito (Brad Pitt), rimane gravemente ferita.
Stati Uniti. Una badante messicana (Adriana Barraza) che ha sotto la propria custodia due bambini, decide irresponsabilmente di portarli con sé in Messico per prendere parte al matrimonio del figlio con la promessa da parte di suo nipote (Gael Garcìa Bernal) di riportarli negli USA una volta celebrato l’evento.
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Marocco. Un pastore acquista un fucile per tenere lontani gli sciacalli dal suo gregge, affidandolo ai suoi due giovanissimi figli i quali, per testare la validità dell’arma, si apprestano a far fuoco da un monte dell’Atlante ai primi bersagli umani che si trovano sotto i loro occhi. Una donna americana (Cate Blanchett) che si trova su un pullman di turisti assieme al marito (Brad Pitt), rimane gravemente ferita.
Stati Uniti. Una badante messicana (Adriana Barraza) che ha sotto la propria custodia due bambini, decide irresponsabilmente di portarli con sé in Messico per prendere parte al matrimonio del figlio con la promessa da parte di suo nipote (Gael Garcìa Bernal) di riportarli negli USA una volta celebrato l’evento.
Giappone. Un appassionato di caccia (Koji Yakusho) rimasto recentemente vedovo della moglie suicida ha una figlia adolescente affetta da sordomutismo (Rinko Kikuchi): la si vede frequentare oltre alle consuete amiche della pallavolo, un gruppetto di ragazzi cercando di attirarne l’attenzione e l’interesse, dei coetanei così come di uomini più maturi, con metodi più che disinibiti.
Un film, tre trame diverse, pronte a sposarsi l’un l’altra una volta che il puzzle del drammaturgo Guillermo Arriaga sarà giunto al termine. Se lo schema di narrazione e di montaggio non cambia, peculiarità dello sceneggiatore di Inarritu, rispetto ai due precedenti episodi della Trilogia della Morte, cambia invece la veduta di coinvolgimento, che si estende stavolta a tre nazioni diverse, nel film sono parlate 4 lingue diverse + 1 (il linguaggio dei segni), quindi una visione che intacca l’intero mondo globalizzato con una critica sferzante ai sensi dell’incomunicabilità umana. Babel, (titolo dai chiari rimandi biblici) pur riproponendo lo stesso schema ad intreccio dei capitoli precedenti, i protagonisti vengono posti sullo stesso piano, eguagliati non dal proprio ceto sociale ma dalla stessa inadeguatezza e dallo stesso senso di smarrimento davanti alla morte, una ed universale. Tutti in questa pellicola piena di lacrime, hanno avuto a che fare con la morte. Resta il film che personalmente mi ha colpito meno della trilogia per la facilità con cui scade al melodramma gratuito, per l’artifizio di dover far combaciare tutti gli eventi con marchingegni di sceneggiatura quasi inverosimili, l’ho trovato anche un po’ carico di retorica piagnona hollywoodiana, fattore che accomuna generalmente film abbastanza ruffiani e di facile commercio, cosa che Babel non è in quanto frutto della mente di due autori veri ma che sembra strizzare l’occhio a quella filosofia lì. Non ho gradito alcune soluzioni di sceneggiatura, il personaggio di Gael G. Bernàl che parte in quarta dopo che un poliziotto gli ha detto di accostare, peggiorando solo la propria situazione e quella di chi aveva in auto con sè. Poi poliziotti che sparano con una facilità tanto sdegnosa contro la famiglia di marocchini senza la certezza che si trattassero di veri terroristi mi ha lasciato un po’ interdetto, così come la violenza fisica della polizia in generale manifestata durante tutta la pellicola. Presumo avessero voluto indirizzare una forma di critica verso le forze dell’ordine ma non è questo il modo. Tra le note positive oltre alla splendida fotografia che in alcune scene riesce a farci respirare il caldo soffocante del Marocco e l’alienazione desolante di Tokyo, anche le interpretazioni di tutto il cast. Certi dialoghi davvero ben scritti e fanno ben capire di quanto siamo lontani anche dagli affetti che ci sono più vicini.
La ragazza di Tokyo con il suo ricercatissimo bisogno di amore, di contatto fino a spingersi ad assumere tali comportamenti incarna tutto lo spirito e il messaggio di questo film. Nella scena della discoteca giapponese regia e fotografia danno quanto di meglio poteva dare, facendoci capire di come la ragazza sordomuta sia immersa in una dimensione a lei del tutto estranea, tutto attorno a lei si muove e si dimena mentre lei, sublimazione della solitudine, se ne sta al centro ad osservare i suoi amici finchè comprende che è arrivato il momento di dileguarsi. Questa scena insieme alla carrellata all’indietro finale che inquadra Tokyo di notte sono i punti di più alto valore artistico/espressivo di questo film.
La regia di Inarritu e la scrittura di Arriaga avevano in maniera eccellente disegnato i tratti di una metropoli come Città del Messico con il suo caos e la sua stratificazione sociale in Amores Perros, in cui tra l’altro si era celebrata la violenza degli scontri cinofili, in una scena pazzesca di Babel Bernàl stacca il collo ad un pollo davanti ad un gruppo di bambini, per gioco.
Innegabile dar merito al regista di Birdman per la capacità che attualmente in pochissimi hanno, di catapultare lo spettatore in realtà così grandi e fuori dalla portata di un’ immaginazione provinciale, realtà in cui si intrecciano e spesso si scontrano uomini di etnie e culture diverse. Successo che avrebbe egregiamente replicato con la Barcellona di Biutiful.
Voto 7.5
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nike22
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sabato 21 novembre 2015
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quattro storie per una vita!
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Alejandro Gonzales Inarritu è uno di quei registi che amano colpire dritto allo stomaco i propri spettatori. Come i precedenti “Amores perros” e “21 grammi” anche l’ultimo “Babel” è un film spietato, crudo, desolante e desolato, e nel medesimo tempo splendido, appassionante, esaltante ed emozionante. Come la vita d’altronde, quella vera.
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Alejandro Gonzales Inarritu è uno di quei registi che amano colpire dritto allo stomaco i propri spettatori. Come i precedenti “Amores perros” e “21 grammi” anche l’ultimo “Babel” è un film spietato, crudo, desolante e desolato, e nel medesimo tempo splendido, appassionante, esaltante ed emozionante. Come la vita d’altronde, quella vera.
“Babel” è proprio un ragionamento sulla vita, sull’esistenza di ognuno di noi, sul caso, sul destino, sugli uomini, sulla loro difficoltà nel comunicare, sulle distanze, reali o solo immaginate, volute, o subite. Inarritu costruisce un film corale intrecciando le esistenze di diverse persone in un modo talmente casuale da risultare quasi scritto. Siamo in Marocco, una guida vende a una famiglia di pastori un fucile che servirà loro per allontanare gli sciacalli che minacciano il proprio gregge. Una baby-sitter messicana bada ai figli di una coppia (Pitt, Blanchett) che sta affrontando un viaggio proprio in Marocco, mentre in Giappone un padre tenta di rimettere in sesto la vita della propria figlia sordomuta.
Queste in sintesi le quattro realtà che affollano il mondo di “Babel”, un mondo (quello moderno) ormai completamente globalizzato, anche se solo in apparenza. I diversi personaggi vivono lontanissimi gli uni dagli altri, ma è come se vivessero un’esistenza unica; tramite queste quattro storie Inarritu ci racconta (o almeno tenta di raccontarci) una stessa vita, uno stesso mondo. I personaggi del suo film sono più vicini di quanto possa sembrare, respirano la stessa aria, vivono lo stesso tempo, gioiscono e soffrono insieme. “Babel” è un film sul caso è vero, sulla casualità della vita, ma è anche un film che riflette sui rapporti interpersonali, sulle distanze che separano un uomo dall’altro.
Inarritu gioca con le vite dei propri personaggi, le fa intrecciare, le fa esplodere in silenzio (strepitoso, per esempio, lo stacco tra il dolore assordante di Cate Blanchett e il silenzioso mondo di Chieko), le mette in scena e osserva quel che ne consegue, naturalmente.
E' un film sull’incomunicabilità “Babel”, rappresentata sia a livello mondiale (l’impossibilità di comunicazione tra due nazioni) sia a livello personale, intimo, in quella che è forse la storia più bella, quella di Chieko e di suo padre, vittime e artefici al medesimo tempo del muro invisibile che viene a crearsi tra loro (e tra loro e il mondo circostante).
E allora, all’interno di questa torre di Babele che è la vita stessa ognuno è solo sembra suggerirci Inarritu: il dolore, come la gioia sono dietro l’angolo, è questione solo di riuscire a vederli, apprezzarli.
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kondor17
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mercoledì 11 marzo 2015
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impalpabile e troppo lento
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Ammetto di non aver mai amato Inarritu, a parte Amores Perros, del 2000, per me il suo film migliore. Ho rivisto ieri in Tv dopo 8 anni questa pellicola, perchè ad un premio oscar (Birdman - che ho lasciato a metà proiezione) bisogna sempre dare una seconda chance. E me ne pento. Due ore e passa (più di 3 in TV) sprecate.
Ho fatto fatica ad arrivare a metà e mi sono imposto di giungere alla fine, ma che fatica. Mi tenevo sveglio a sberle.
Proprio non ne capisco il senso. Va bene l'incomunicabilità, che permea il tutto e di cui è simbolo il titolo, vanno bene i salti spaziali e temporali, ma era proprio necessario trovare improbabili collegamenti tra Marocco, Messico, USA e Giappone? Non era meglio forse fare dei semplici episodi? Il film non ne guadagna, anzi secondo me ne perde.
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Ammetto di non aver mai amato Inarritu, a parte Amores Perros, del 2000, per me il suo film migliore. Ho rivisto ieri in Tv dopo 8 anni questa pellicola, perchè ad un premio oscar (Birdman - che ho lasciato a metà proiezione) bisogna sempre dare una seconda chance. E me ne pento. Due ore e passa (più di 3 in TV) sprecate.
Ho fatto fatica ad arrivare a metà e mi sono imposto di giungere alla fine, ma che fatica. Mi tenevo sveglio a sberle.
Proprio non ne capisco il senso. Va bene l'incomunicabilità, che permea il tutto e di cui è simbolo il titolo, vanno bene i salti spaziali e temporali, ma era proprio necessario trovare improbabili collegamenti tra Marocco, Messico, USA e Giappone? Non era meglio forse fare dei semplici episodi? Il film non ne guadagna, anzi secondo me ne perde. Belle le scene del matrimonio e alcuni paesaggi marocchini e nel complesso ottima la fotografia. Sottotono per me gli attori e stirate a non finire le scene patetiche degli occupanti del bus nell'attesa che la Blanchett si riprenda. Anche Brad Pitt, che salva comunque un pò la baracca, è vittima per me del contesto.
Lunghissime poi le scene descrittivo-paesaggistiche, incombente e ridondante la musica.
Forse la seconda stella è un regalo, ma di certo non lo rivedrò mai più.
Film veramente patetico, in ogni senso.
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alexlaby
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venerdì 23 gennaio 2015
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mai visto recitazioni così credibili
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Nessun film mi ha fatto immedesimare nelle situazioni come questo. Il migliore Brad Pitt, ma sontuose le recitazioni del bambino americano e della sua tata. E se tutti hanno recitato al meglio delle loro possibilità è segno che il regista ha lavorato in modo magistrale. A qualcuno può apparire lento, ma se fosse durato 5 minuti meno si sarebbe persa qualche emozione, qualche sensazione. Tutto perfetto, ma per coglierne appieno le qualità bisogna amare il vero cinema e zittire la suoneria del proprio cellulare.
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(di alexlaby)
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