
Il polpo, il martello, la capigliatura scomposta di Oh Dae-su. Tutti gli elementi che hanno reso iconico il film di Park Chan-wook. Da oggi al cinema nella versione restaurata in 4K.
di Tommaso Tocci
A posteriori, è sempre stato Oldboy. Sono trascorsi un paio di decenni, strapieni di grandi successi, da quando il nuovo cinema coreano sorgeva all’improvviso grazie a una generazione di registi eclettici che con un nuovo linguaggio del blockbuster hanno conquistato le platee prima in patria e poi in tutto il mondo. Ma quando andiamo a cercare il titolo più simbolico di quegli anni, quello che più di tutti incarnò il cambiamento in arrivo, non possiamo che tornare a Oldboy di Park Chan-wook.
Mentre il film riappare nelle sale italiane il 9 giugno di quest’anno (restaurato in 4K) la mente corre al 2003, quando questa perversa e brutale tragedia di vendetta dai toni edipici arrivava per la prima volta sugli schermi, adattata da un manga giapponese. Avrebbe vinto nel 2004 il Gran Premio della giuria a Cannes, negli anni in cui l’Italia iniziava ad apprezzare il cinema diversissimo ma vicino di Kim Ki-Duk. Bong joon-ho, oggi il nome più noto di quel gruppo di registi grazie al trionfo di Parasite (guarda la video recensione), girava nello stesso anno un film che poi sarebbe stato anch’esso riscoperto, Memories of murder (guarda la video recensione). Eppure fu Oldboy a catturare l’immaginario come uno dei film più iconici dei primi duemila. Il polpo, il martello, la capigliatura scomposta di Oh Dae-su: sono alcuni degli elementi indimenticabili di un noir-thriller di rottura, che ha cresciuto una generazione e consegnato sequenze come quella del combattimento nel corridoio (che continua a essere omaggiata a vario titolo ancora oggi) alla cultura pop globale.
Talmente potente e longeva è l’eredità di Oldboy che l’inevitabile remake americano del 2013, di firma peraltro prestigiosa come quella di Spike Lee, non ha praticamente lasciato traccia. Troppo primordiale l’energia di un film che sembra emanare dall’interpretazione di Choi Min-sik. Vittima e carnefice, giustiziere e giustiziato, uomo qualunque che si ritrova imprigionato per anni e privato degli affetti, per poi credere di potersi arrogare il privilegio della vendetta. Meno si dice della storia e meglio è, considerando l’intrigo perfetto e sorprendente di un film che coglie sempre di sorpresa lo spettatore.
“Voglio qualcosa di vivo” proclama perentorio il protagonista Dae-su al ristorante, in un’altra delle scene più celebri; mentre Choi Min-sik mostra tutto il range di un personaggio che sa muoversi tra la plasticità comica dei gesti e la profondità dell’anima negli sguardi, la battuta sembra chiamare il film stesso, che irrompe sulla scena del cinema coreano e mondiale diventando da subito un classico contemporaneo di grande vitalità. La violenza di Oldboy e la riflessione sulla vendetta (Park completerà poi un’intera trilogia sul tema, con Mr. vendetta e Lady vendetta) sono facili da incastonare nel momento storico. Era del resto il periodo di Kill Bill, gli anni in cui il cinema d’azione usciva dal postmoderno anni novanta e cercava nuove ibridazioni. Eppure l’originalità di Oldboy non è mai apparsa derivativa, a dispetto delle sue mescolanze pop, che tirano in ballo il linguaggio dei fumetti e anche dei videogiochi.
Opera che racconta anche dell’uscita da un isolamento - e dei rischi che essa comporta - Oldboy è una vecchia conoscenza buona pure per il nostro tempo, da riscoprire ma anche da sperimentare per la prima volta tutta in un boccone, come il polpo del ristorante. Il fatto che non dimostri per nulla i suoi quasi vent’anni non fa che confermare la freschezza con cui ci colse di sorpresa al suo arrivo.