I dieci comandamenti

Un film di Mario Martone. Teatro, durata 135 min. - Italia 2001.
   
   
   

Martone e la Napoli impresentabile di Viviani Valutazione 4 stelle su cinque

di carloalberto


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giovedì 16 settembre 2021

 Martone mette in scena e filma l’ultima opera di Viviani e allestisce lo spettacolo nella strada in cui abitò lo stesso Viviani. Il palco è montato in una piazzetta del quartiere Montesanto. Il pubblico che assiste dai balconi, trasformati in palchetti, o assiepato nella strada, coincide con il popolino protagonista delle opere di Viviani. I ragazzini, quelli che furono gli scugnizzi di un tempo, vociano correndo nelle viuzze laterali, a fare da realistica colonna sonora al film, insieme alle musiche originali eseguite dall' orchestra diretta da Daniele Sepe, mentre Martone inquadra le famiglie affacciate che sembrano essere gli stessi attori in scena in un momento di pausa dalle prove. Specialmente i due bambini danno l’impressione di essere parte di quella realtà che incornicia ed abbraccia il palco confondendosi con l’azione scenica, in un gioco di specchi in cui teatro e vita si riflettono a vicenda fino all’osmosi totale.
Viviani nel dopoguerra è stato poco rappresentato, a differenza di Eduardo. I dieci comandamenti ha molti punti in comune con la Napoli milionaria di Eduardo e a tratti è come se si fossero, i due autori, ispirati agli stessi fatti buttando giù lo stesso canovaccio. Tuttavia lo sguardo dei due commediografi è diverso. Eduardo è introspettivo, egocentrico, la sua prospettiva è quella dell’uomo disincantato che riflette sulle condizioni del proprio popolo, in modo distaccato per trarne verità universali. La fame, la miseria, i bombardamenti, l’occupazione americana, la prostituzione, tutto è filtrato dall’ironia sottile e pirandelliana del protagonista. In Viviani le stesse cose diventano carne e sangue di cento personaggi diversi. Il protagonista non è una individualità intelligente e pensosa, con la quale è facile entrare in sintonia empatizzando, bensì la coralità del popolo,  nella sua esuberanza istintiva, sguaiata, esageratamente tragica fino a toccare il polo opposto della farsa.
Le voci soliste che si levano dal coro, emergendo dalla folla dei personaggi, a cantare, a declamare versi, a urlare l’angoscia, incarnate da un indimenticabile Mario Scarpetta e da un nugolo di attori napoletani, tutti eccezionalmente bravi, tra cui si citano la giovanissima Teresa Saponangelo e due straordinari interpreti del teatro partenopeo, ovvero Nello Mascia e Gianfelice Imparato, rientrano dopo l’esibizione individuale immediatamente nella massa di miserabili senza speranza, ricompattandosi nel corpo unico, multiforme e tragico del popolo napoletano.
Viviani rappresenta la plebe napoletana che riecheggia quella seicentesca, sopravvissuta alla omologazione del fascismo ma non a quella pervasiva della modernità,  e che rivivrà per un ultima volta negli anni ’70 nelle opere di Roberto De Simone. Il linguaggio è aspro, duro, violento, attinge al dialetto stretto, esprime lo stato d’animo di un popolo che, troppe volte tradito dalla storia,  coltiva in sordina una rabbia repressa, una voglia di ribellione e di rivolta al potere, che, delusa dai tempi di Masaniello, si esprime genericamente contro Iddio e la malasorte non sapendo con chi prendersela per il proprio infame destino.
Neanche Viviani, tuttavia, riesce a sottrarsi, almeno in quest’opera, alla visione romantica del popolo, che caratterizzò similmente, sebbene in modo più evidente e da una prospettiva piccolo-medio borghese,  il teatro di Eduardo. Il finale è una esortazione al popolo a sollevarsi dalla propria condizione, un incitamento a far leva sui buoni sentimenti, che nonostante tutto albergano nei cuori della povera gente inaridita ed inselvaticghita dalla miseria,  per un futuro possibile riscatto morale e sociale. Ma era ancora troppo poco per poter piacere veramente al pubblico del dopoguerra, che, dopo tanta sofferenza, non voleva più vedere la miseria rappresentata sul palco, con gli stracci  che volavano insieme alle bestemmie dei disperati. Ecco perché Viviani è stato poco rappresentato e Martone ha dimostrato un enorme coraggio a realizzare questo teatro in strada nella Napoli che ricorda ancora in parte ed almeno esteriormente, nelle facciate antiche e malmesse dei palazzi del centro storico, quella di Viviani, riassumendolo in un film che cuce verità, finzione ed immagini di repertorio dell’epoca a tessere un’opera tanto preziosa quanto unica ed irripetibile ai giorni nostri.

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