Gli invisibili

«Meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine». La frase dipinta da Willy nell’affresco che campeggia sul muro della cella del supercarcere rende efficacemente il senso della sconfitta che aleggia fin dalle prime battute del film molto liberamente ispirato al romanzo “Gli invisibili” di Nanni Balestrini che ha anche collaborato alla sceneggiatura. Pasquale Squitieri, che ha sempre dichiarato di aver voluto raccontare «la battaglia dell’ultima generazione che ebbe il coraggio di dire no», mette in scena il dramma di un gruppo di giovani la cui vita si trova compressa tra il sogno della rivolta e la tragedia, oltre che l’orrore, di una scelta suicida come quella della lotta armata. [+]

«Meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine». La frase dipinta da Willy nell’affresco che campeggia sul muro della cella del supercarcere rende efficacemente il senso della sconfitta che aleggia fin dalle prime battute del film molto liberamente ispirato al romanzo “Gli invisibili” di Nanni Balestrini che ha anche collaborato alla sceneggiatura. Pasquale Squitieri, che ha sempre dichiarato di aver voluto raccontare «la battaglia dell’ultima generazione che ebbe il coraggio di dire no», mette in scena il dramma di un gruppo di giovani la cui vita si trova compressa tra il sogno della rivolta e la tragedia, oltre che l’orrore, di una scelta suicida come quella della lotta armata. Il film si dipana attraverso una serie di piccole vicende personali che, tutte insieme, finiscono per formare un grande affresco su quelli che Lietta Tornabuoni nel 1988 su “La Stampa” definisce «...i giovani disarmati del Movimento del '77, rimasti schiacciati fra terrorismo e repressione, rimossi dalla storia sociale italiana, cancellati dalla memoria sino all'invisibilità...». Pasquale Squitieri sceglie fin dall’inizio di non alimentare illusioni sul destino dei protagonisti del suo film. Quando scorrono le prime immagini Sirio è già in carcere e tutto quello che è accaduto prima viene raccontato da una lunga serie di flashback che ripercorrono i momenti salienti della sua vicenda personale. Le speranze, le occupazioni, le lotte, gli espropri proletari, le radio libere e le contraddizioni di un movimento impegnato a cambiare la realtà sono il passato e vengono ripercorse anche dallo spettatore con la consapevolezza che nulla di quanto è successo può più essere cambiato. La realtà vera è quella del carcere dove ogni giorno si è messi di fronte alla scelta tra la coerenza e la fedeltà al passato o il tradimento. Chi sta in mezzo diventa inutile e petulante come Sirio o il personaggio del Professore (che sembra ritagliato sulla figura di Toni Negri) e non può comunque sottrarsi alla condivisione del destino degli altri. In questa situazione la rivolta dei detenuti non ha niente di eroico. Appare come l’estremo tentativo di opporsi alla sconfitta ed è destinata a finire male non soltanto per la ferocia della repressione ma perchè è fuori tempo. Sirio e i suoi compagni abitano un mondo in cui non esiste più il concetto di futuro. Invisibili all’esterno vivono in una sorta di eterno presente che si alimenta solo del passato. Il futuro appartiene a chi sta fuori, a quelli che, per caso o per opportunismo, sono rimasti all’esterno del carcere come China che, senza pagare alcun prezzo, finisce per diventare un’icona di quel consumismo contro il quale ha combattuto. Più il tempo passa e più i due mondi diventano distanti. Quando Apache muore Sirio rompe il televisore, cioè il suo unico contatto con il mondo esterno. A lui e ai suoi compagni resta soltanto un modo per mandare messaggi a chi sta fuori: l’esposizione di tante fiaccole accese alle finestre delle celle dove sono rinchiusi. La loro però è una flebile luce che non viene neppure percepita dalle persone che chiuse in auto veloci sfrecciano indifferenti sull'autostrada vicino al carcere.
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