Avvolto da un superbo bianco e nero d'annata e con due interpreti d'eccezione (Jhon Hurt e Anthony Hopkins) forse nessun film di David Lynch emoziona, commuove e fa riflettere come Elephant Man.
Jhon Merrick ha un cranio il triplo più grande della norma, tumori della pelle sulla schiena e sul volto, escrescenze abominevoli che gli impediscono l'uso della mano destra, la colonna vertebrale storta e una bronchite cronica che gli impedisce di dormire supino...eppure è un uomo. Lo chiamano "l'uomo elefante": un nome che attira gli stupidi ed ignoranti frequentatori dei luoghi dove si mostrano i fenomeni da baraccone e che sfruttano le disgrazie di individui con menomazioni più o meno gravi per far ridire e guadagnare i "proprietari" di codesti, quasi fossero alla pari delle scimmie o dei leoni del circo. Animali e uomini come Jhon hanno in comune solo una cosa: l'innocenza e l'essere indifesi. Combattere con altrettanta violenza quella che subiscono ogni giorno non è cosa che si addice ad animi tanto puri e delicati come quella del protagonista che si convince a poco a poco di essere un mostro senza valore, fatto mangiare e dormire come il più ignobile degli insetti da cui scappare.
Come in tutte le storie che si rispetti anche qui c'è un eroe. Il chirurgo Treves sa fin dall'inizio di non poter guarire Jhon e di non poterlo trattanere da una morte certa che avverrà a breve, ma decide di mettere fine ai soprusi del suo padrone e di portarselo dapprima in clinica fino poi a casa sua. Nel momento d'incontro delle vite di questi due uomini, nulla per loro sarà più come prima. Entrambi si scambieranno vicendevolemente pezzi di vita ed umanità: Jhon troverà l'amore di una famiglia mai avuta e di un amico fidato, non farà mistero di apprezzare il teatro e la lettura della Bibbia, segno di quanto il suo aspetto non segni per niente il suo animo colto e buono; Treves avrà modo di conoscere un affetto del tutto diverso a cui non avrebbe mai pensato di approcciarsi verso un reietto cosi abominevole della società e scaverà nel suo animo per conoscere le vere motivazioni che lo hanno spinto a tanta pietà verso di lui: senso del dovere verso i più deboli o fame di stima ed apprezzamento fra i colleghi?
A metà strada fra il teatro dell'assurdo che potremmo ritrovare ad esempio in Rhinoceros di Ionesco e la cruda realtà di una vicenda tratta da una storia vera, Elephant Man si colloca in un'aura interpretativa ben al di là del semplice pietismo o orrore verso quest'anima che solo nelle scene finali del film avrà la forza di gridare "Io non sono un elefante!Sono un essere umano". Oltre alla solita banale morale de "l'abito non fa il monaco" e della crudeltà umana ben superiore all'aspetto mostruoso e raccapricciante di Jhon, qui ci si trova dinnanzi ad un inno alla vita, ad un ciclo d'eterno ritorno nietzschano delle cose, dove il significato di cosa sia un uomo non viene rimosso neanche nella più penosa delle circostanze, proprio come quando in pieno Olocausto un giovane ebreo non perde la sua dignità e si rifiuta di rubare il pane ad un altro. L'amore per il genere UOMO, la sana com-passione kierkegaardiana dove compartecipiamo con dolore alle sofferenze dei nostri simili non morirà mai, neppure se sepolta dalla macerie dell'odio e del cinismo...sempre noi sapremmo riconoscere i tratti distintivi di una persona dalla sua voce, dalla sua dolcezza, dalla sua intelligenza verso i più nobili degli interessi e mai solo dal colore delle sue pelle o dalla sua bellezza esteriore.
...in fondo Jhon Merrick ci si sente un po' tutti a volte: abbandondati e soli nella nostra diversità come già più di cent'anni prima aveva delineato Mary Shelley la sua creatura di nome Franckenstein. Però più siamo diversi e più siamo unici e più siamo amati per la nostra diversità e più siamo fortunati...e allora ecco che tutto si ribalta e l'uomo elefante diventa l'uomo meno elefante e più uomo che ci sia.
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