Nel 2006 il regista norvegese Joachim Trier firmava il primo capitolo di una trilogia destinata a riscuotere un grande successo di critica e pubblico, consacrando l’autore tra le voci cinematografiche più brillanti ed empatiche nel descrivere con sensibilità e originalità una generazione.

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Reprise – storia d’amicizia fra due aspiranti scrittori segnati da destini opposti – valse all’autore molteplici riconoscimenti e diede così avvio alla Trilogia di Oslo, proseguita nel 2011 con Oslo, 31. August, presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard e vincitore nello stesso anno del Festival del Cinema di Stoccolma.

Nel 2015 Trier torna a Cannes, questa volta in concorso, con il suo primo film in lingua inglese, Segreti di famiglia, e sei anni più tardi chiude la Trilogia di Oslo con il lungometraggio che l’avrebbe portato a Hollywood. La persona peggiore del mondo (2021) concorre all’Oscar come Miglior film straniero e Miglior sceneggiatura, è candidato ai BAFTA, ai Lumiere, ai César e ai Critics’ Choice Awards.

L’attrice protagonista – una splendida Renate Reinsve – ottiene a Cannes il Prix d’interprétation féminine e il suo personaggio si impone come una novella Amélie, capace di incarnare le incertezze dei nuovi trentenni. Indecisa e al contempo determinata, sfuggente e testarda, romantica e libertina, la Julia di Reinsve è un coacervo di contraddizioni mentre esplora con curiosità il mondo per cercare di trovarvi un posto.

Divisa tra due amori – quello per il colto disegnatore di graphic novel Aksel e per il dolce e ingenuo Eivind – Julie prima studia medicina, poi vuole diventare psicologa, poi fotografa, e poi chissà. Nel frattempo, non intende rinunciare a nulla: forse è proprio per questo che l’idea di imboccare una strada precisa verso il futuro sembra così spaventosa, perché esclude tutti gli altri orizzonti possibili, tutti gli scenari alternativi che le consentirebbero di realizzarsi in modi diversi, di vivere vite differenti.

Giovane “donna senza qualità”, Julie appare molto decisa e istintiva, eppure scegliere, per lei, è una disarmante difficoltà: stare insieme a Eivind significa non avere una relazione amorosa con Aksel, lavorare come psicologa implica il non essere fotografa, diventare madre vuol dire rinunciare a non esserlo mai.

Diviso in 12 capitoli, più un prologo e un epilogo, il film di Trier sembra allora raccontare i trent’anni come il fatidico momento in cui è necessario rinunciare a tutti quei futuri possibili che in gioventù rimangono ancora percorribili.

La persona peggiore del mondo diviene così narrazione tragicomica di quell’enorme dilemma che è la scelta e la definizione di sé stessi. Un lungometraggio, quindi, dalla natura profondamente filosofica, sospeso tra melò e commedia. Julie è forse la persona peggiore del mondo, oppure siamo noi stessi, o qualcuno che abbiamo conosciuto.

La sua storia procede veloce, come le sue idee, come i suoi umori. Lo sguardo su di lei è empatico e al contempo neutrale: la osserviamo con interesse per scoprire cosa diventerà, ma non abbiamo nessuna intenzione di giudicarla.

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