annalisa
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venerdì 30 luglio 2021
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un riscatto senza gloria
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Un ragazzo d'oro è un film che può essere apprezzato meglio se lo spettatore si è ritrovato in una situazione analoga ossia un rapporto difficile con il proprio padre.
La morte di un padre è difficile da elaborare per chi ha avuto un padre assente, ma il suicidio di un padre assente è per il figlio qualcosa di inspiegabilmente crudele.
Come tutte le cose inspiegabili, per dare un senso dove non c'è, la scrittura diventa un modo per ripensare al passato, elaborandolo, cosicché da annullare tutti gli errori umani commessi dal padre e dal figlio.
Purtroppo, il protagonista, il ragazzo d'oro, il figlio con troppi problemi psicologici, la terapia della scrittura gli farà sì scrivere un romanzo che vincerà il premio Strega, ma si isolerà dal mondo per un riscatto senza gloria.
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sellerone
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lunedì 23 luglio 2018
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il libro del padre
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Bel film dove troneggia Scamarcio, la quota di buono che c'è in questa narrazione, la si deve soprattutto a lui, che prende una storia classica dandogli quel sapore speziato che la rende unica fra le tante. Tenete presente che non sono un fan dell'altezzoso Scamy, ma devo dire la verità, come attore a volte riesce veramente a fare la differenza, per la fortuna di chi lo ingaggia.
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ennio
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giovedì 14 settembre 2017
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una inutile sharon stone
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Il film si salva solo per l'interpretazione di Scamarcio, che si sta specializzando a entrare in ruoli difficili come quello dello schizofrenico. Per il resto, storia molto banale e svogliata recitazione di una Sharon Stone la cui presenza è chiaramente frutto del capriccio di un affermato regista a fine carriera.
Un buon metro per valutare la validità di un film è contare quante volte i protagonisti fanno la fatifdica domanda di tradizione spiccatamente americana "va tutto bene?". Se si limita a 1 può essere ancora un buon film, a 3 è già da evitare, qui si va ben oltre le 3 volte.
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faucau
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sabato 4 febbraio 2017
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tema interessante, fantasia scarsa
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chi ama Avati lo affronta sempre volentieri. Però questo film risulta costruito troppo su un solo personaggio, con comparse immolate allo stesso (fidanzata, Sharon Stone, ecc) e riesce un pò pesante , ancor di più quando sfocia in una follia che non trova robusta giustificazione. Ma il tema affrontato prometteva ed è interessantissimo. Lo scontro tra nuova e vecchia generazione si risolve con la totale immedesimazione della nuova nella vecchia, al punto da infilare le sue pantofole, amargli l'amata e scrivergli un capolavoro. Credo che Avati poteva fare di più e meglio.
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gerrit
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venerdì 3 febbraio 2017
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un bellissimo film vergognosamente incompreso
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come si faccia a parlar male di questo film e della musica di Gualazzi ma nello stesso tempo salvare una boiata come "La cena per farli conoscere" è un mistero la cui soluzione sta solo nel cervello del critico di mymovies e di chi condivide i suoi gusti. In realtà uno dei migliori film di Avati, malinconico, commovente, poetico: la storia del dono totale - fino alla rinuncia della propria identità - di un figlio alla memoria di un padre incompreso e infelice. Poco credibile in effetti, per cui l'autore spiega tutto con la progressiva pazzia del protagonista. Stupefaciente Scamarcio, graditissima la partecipazione di Giovanna Ralli.
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come si faccia a parlar male di questo film e della musica di Gualazzi ma nello stesso tempo salvare una boiata come "La cena per farli conoscere" è un mistero la cui soluzione sta solo nel cervello del critico di mymovies e di chi condivide i suoi gusti. In realtà uno dei migliori film di Avati, malinconico, commovente, poetico: la storia del dono totale - fino alla rinuncia della propria identità - di un figlio alla memoria di un padre incompreso e infelice. Poco credibile in effetti, per cui l'autore spiega tutto con la progressiva pazzia del protagonista. Stupefaciente Scamarcio, graditissima la partecipazione di Giovanna Ralli. Sconsigliato a chi ha poca sensibilità e non ha mai sperimentato rabbia e dolore.
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onufrio
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sabato 12 dicembre 2015
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per il bene del padre
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Remo conduce una vita tranquilla, ha un lavoro, una ragazza e la passione per la scrittura, una passione nata per via della professione del padre, un noto sceneggiatore per pellicole cosìddette B-Movie. Fra i due non c'è mai stato un buon rapporto, ma l'improvvisa morte del padre porta per forza di cose Remo a ritornare nella sua casa d'origine, lì finalmente potrà entrare nel misterioso studio del padre dove sono raccolti tutti i suoi appunti e da lì scatta nel figlio un qualcosa di nuovo, la sua idea verso il defunto padre cambierà e lo porterà ad un totale cambiamento, più nel male che nel bene.
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stefano bruzzone
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giovedì 8 ottobre 2015
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il peggio di avati
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Pupi Avati ci ha regalato grandi capolavori ma anche parecchi flop e questo film potrebbe vincere l'Oscar dei flop.
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Pupi Avati ci ha regalato grandi capolavori ma anche parecchi flop e questo film potrebbe vincere l'Oscar dei flop. Lento, noioso e a tratti grottesco non riesce mai a rapire lo spettatore come in altri lavori di Avati lasciandolo trascinarsi sino alla fine con distacco ed indifferenza e con un finale discutibilissimo quanto incomprensibile. Impalpabile e francamente inutile la presenza dell'affascinante S.Stone utile probabilmente solo alla locandina del film. Bravo Scamarcio sempre monocorde la Capotondi. Nient'altro.
Voto: 5
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liuk!
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sabato 21 marzo 2015
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il maestro avati
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Quando mi accingo a vedere un film di Pupi Avati ho sempre grandi aspettative perché il maestro ci ha abituati a pellicole originali e mai scontate. E anche in questo caso non si smentisce.
Un Ragazzo D'Oro é piú drammatico del solito, più introspettivo e relativamente meno poetico. Un lavoro amaro ma che esalta la genialità attraverso la follia e, pur non essendo un suo fan, Scamarcio interpreta bene un ruolo estramemente difficile, dando spessore e qualità al risultato finale.
Assolutamente da vedere.
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susanna trippa
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giovedì 30 ottobre 2014
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un ragazzo d’oro – una storia di archetipi
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Gli archetipi sono forze sottili che ‘colorano’ l’ambito in cui ci muoviamo. E i vari protagonisti del film, quasi Carte dei Tarocchi, ce li richiamano.
Non solo loro, gli umani, ma anche le ambientazioni del film sono simboliche.
Milano: città del concreto, del terreno, del quotidiano, della vita ‘reale’ infine. La stessa terapeuta, da cui all’inizio va il Figlio/Scamarcio, si preoccupa che ‘prenda le medicine’ (sempre qualcosa di materico).
Roma: dove scrittura, cinema, atmosfera stessa della città rimandano a qualcosa di più sotterraneo e aereo, l’inconscio, il sogno, il fuggire dalla realtà.
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Gli archetipi sono forze sottili che ‘colorano’ l’ambito in cui ci muoviamo. E i vari protagonisti del film, quasi Carte dei Tarocchi, ce li richiamano.
Non solo loro, gli umani, ma anche le ambientazioni del film sono simboliche.
Milano: città del concreto, del terreno, del quotidiano, della vita ‘reale’ infine. La stessa terapeuta, da cui all’inizio va il Figlio/Scamarcio, si preoccupa che ‘prenda le medicine’ (sempre qualcosa di materico).
Roma: dove scrittura, cinema, atmosfera stessa della città rimandano a qualcosa di più sotterraneo e aereo, l’inconscio, il sogno, il fuggire dalla realtà. E’ anche il luogo della finzione per eccellenza, il cinema.
Quel luogo/tana a Roma – lo studio del Padre – dove poi Scamarcio/Figlio, identificandosi con lui, proprio come lui trascorrerà giorni e notti (e dove io, appena nel film è stato inquadrato, ho riconosciuto la descrizione che Avati, nell’autobiografia, fa del suo studio alla DUEA).
E questa stanza/tana è il crogiuolo, il laboratorio alchemico dove si compie la ‘macerazione’ del Figlio: la sua ‘Notte oscura dell’anima’ senza purtroppo la sua uscita dantesca a ‘Riveder le stelle’.
Poi ci sono i luoghi, sempre all’esterno, giardini e parchi – belli, non nello sporco chiassoso della città – degli incontri del Figlio con la ex diva Sharon Stone, musa della Creatività.
Così il protagonista, Scamarcio – bravo – è il Figlio.
Poi c’è un Padre, appena scomparso e molto probabilmente suicidatosi, di cui è sempre presente attraverso il Figlio l’ombra tossica che ha lasciato su di lui. Il Padre non è una vera persona, o comunque non interessa alla storia che viene narrata chi fosse veramente, perché rappresenta unicamente l’ombra tossica del Figlio, cioè come ha influito su di lui.
C’è dunque il dramma di un Figlio che, per riuscire a vivere pienamente cioè strutturando finalmente il proprio Io e trovare il proprio talento (il piano divino della propria vita), deve liberarsi dall’ombra del Padre.
Potrebbe farlo attraverso la Scrittura, che rappresenta appunto il suo talento, quel qualcosa – come per Avati il cinema – che fa realizzare nella terra la sua anima, il suo piano divino.
Solo che, quando finalmente nel momento emozionale di riavvicinamento alla figura del Padre (e questo può portare a sciogliere il grosso nodo che esiste tra loro attraverso il perdono), decide di scrivere il romanzo paterno, in realtà non accetta il fallimento del Padre – che è stato incapace di scrivere il romanzo - ma, identificandosi con lui (anche con cambiamenti fisici e di abbigliamento), cade insieme a lui nell’abisso. E così non si salverà.
Questa fine del Figlio si intuisce quando lui stesso si ferma assorto davanti al precipizio dove il Padre è caduto con l’auto. In quel momento c’è un’immedesimazione molto precisa: si domanda se il padre abbia urlato, reazione che lui avrebbe avuto ed ha di fronte al terrore di una morte psichica.
Il romanzo che scrive, e consegna a pezzi – come un parto faticosissimo - alla ex diva ora editrice
( personificazione della carta dei Tarocchi Imperatrice – figura mitica vincente, qui Creatività/Scrittura l’unica che potrebbe salvarlo), alla fine viene pubblicato e vince addirittura il Premio Strega. Solo che appare come opera del Padre.
In tutta questa fase del film ho sperato che il Figlio se ne assumesse la paternità; fino alla fine ho sperato che urlasse “No maledizione! è mio! l’ho scritto io”.
E invece no. Questo non succede. Il Figlio non ce l’ha fatta. Non è uscito dalla sua Notte Oscura. Non è riuscito a superare le Dodici Fatiche di Ercole. Perché non le ha superate?
Semplicemente perché ha scritto un romanzo meraviglioso, ma non ha preso consapevolezza di questo suo talento. Il donarlo al Padre non è stato un atto generoso, ma ha dimostrato la sua incapacità ad Essere e a Vivere. Il suo dono ha mostrato il suo terrore.
Ecco il perché del titolo – ironico - UN RAGAZZO D’ORO.
Il Figlio muore alla vita, alla sua realizzazione in terra, preferendo restare nell’ospedale psichiatrico per il terrore di affrontare se stesso. Per questo stesso terrore è sprofondato nell’abisso dell’immedesimazione con il Padre.
A nulla vale la visita della musa Scrittura/Sharon Stone, che si fa annunciare come ‘fidanzata’ (perché in realtà è lei la sua vera fidanzata).
Il Figlio oramai non uscirà più da là. Con l’ultima sua frase/ritornello ‘Io e te papà insieme siamo invincibili’ sprofonda irrimediabilmente nell’abisso, avvinghiato al corpo del Padre gettatosi nel dirupo.Gli archetipi sono forze sottili che ‘colorano’ l’ambito in cui ci muoviamo. E i vari protagonisti del film, quasi Carte dei Tarocchi, ce li richiamano.
Non solo loro, gli umani, ma anche le ambientazioni del film sono simboliche.
Milano: città del concreto, del terreno, del quotidiano, della vita ‘reale’ infine. La stessa terapeuta, da cui all’inizio va il Figlio/Scamarcio, si preoccupa che ‘prenda le medicine’ (sempre qualcosa di materico).
Roma: dove scrittura, cinema, atmosfera stessa della città rimandano a qualcosa di più sotterraneo e aereo, l’inconscio, il sogno, il fuggire dalla realtà. E’ anche il luogo della finzione per eccellenza, il cinema.
Quel luogo/tana a Roma – lo studio del Padre – dove poi Scamarcio/Figlio, identificandosi con lui, proprio come lui trascorrerà giorni e notti (e dove io, appena nel film è stato inquadrato, ho riconosciuto la descrizione che Avati, nell’autobiografia, fa del suo studio alla DUEA).
E questa stanza/tana è il crogiuolo, il laboratorio alchemico dove si compie la ‘macerazione’ del Figlio la sua ‘Notte oscura dell’anima’ senza purtroppo la sua uscita dantesca a ‘Riveder le stelle’.
Poi ci sono i luoghi, sempre all’esterno, giardini e parchi – belli, non nello sporco chiassoso della città – degli incontri del Figlio con la ex diva Sharon Stone, musa della Creatività.
Così il protagonista, Scamarcio – bravo – è il Figlio.
Poi c’è un Padre, appena scomparso e molto probabilmente suicidatosi, di cui è sempre presente attraverso il Figlio l’ombra tossica che ha lasciato su di lui. Il Padre non è una vera persona, o comunque non interessa alla storia che viene narrata chi fosse veramente, perché rappresenta unicamente l’ombra tossica del Figlio, cioè come ha influito su di lui.
C’è dunque il dramma di un Figlio che, per riuscire a vivere pienamente cioè strutturando finalmente il proprio Io e trovare il proprio talento (il piano divino della propria vita), deve liberarsi dall’ombra del Padre.
Potrebbe farlo attraverso la Scrittura, che rappresenta appunto il suo talento, quel qualcosa – come per Avati il cinema – che fa realizzare nella terra la sua anima, il suo piano divino.
Solo che, quando finalmente nel momento emozionale di riavvicinamento alla figura del Padre (e questo può portare a sciogliere il grosso nodo che esiste tra loro attraverso il perdono), decide di scrivere il romanzo paterno, in realtà non accetta il fallimento del Padre – che è stato incapace di scrivere il romanzo - ma, identificandosi con lui (anche con cambiamenti fisici e di abbigliamento), cade insieme a lui nell’abisso. E così non si salverà.
Questa fine del Figlio si intuisce quando lui stesso si ferma assorto davanti al precipizio dove il Padre è caduto con l’auto. In quel momento c’è un’immedesimazione molto precisa: si domanda se il padre abbia urlato, reazione che lui avrebbe avuto ed ha di fronte al terrore di una morte psichica.
Il romanzo che scrive, e consegna a pezzi – come un parto faticosissimo - alla ex diva ora editrice
( personificazione della carta dei Tarocchi Imperatrice – figura mitica vincente, qui Creatività/Scrittura l’unica che potrebbe salvarlo), alla fine viene pubblicato e vince addirittura il Premio Strega. Solo che appare come opera del Padre.
In tutta questa fase del film ho sperato che il Figlio se ne assumesse la paternità; fino alla fine ho sperato che urlasse “No maledizione! è mio! l’ho scritto io”.
E invece no. Questo non succede. Il Figlio non ce l’ha fatta. Non è uscito dalla sua Notte Oscura. Non è riuscito a superare le Dodici Fatiche di Ercole. Perché non le ha superate?
Semplicemente perché ha scritto un romanzo meraviglioso, ma non ha preso consapevolezza di questo suo talento. Il donarlo al Padre non è stato un atto generoso, ma ha dimostrato la sua incapacità ad Essere e a Vivere. Il suo dono ha mostrato il suo terrore.
Ecco il perché del titolo – ironico - UN RAGAZZO D’ORO.
Il Figlio muore alla vita, alla sua realizzazione in terra, preferendo restare nell’ospedale psichiatrico per il terrore di affrontare se stesso. Per questo stesso terrore è sprofondato nell’abisso dell’immedesimazione con il Padre.
A nulla vale la visita della musa Scrittura/Sharon Stone, che si fa annunciare come ‘fidanzata’ (perché in realtà è lei la sua vera fidanzata).
Il Figlio oramai non uscirà più da là. Con l’ultima sua frase/ritornello ‘Io e te papà insieme siamo invincibili’ sprofonda irrimediabilmente nell’abisso, avvinghiato al corpo del Padre gettatosi nel dirupo.
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giacomo ceroni
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sabato 25 ottobre 2014
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avati delude
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Un Ragazzo d’oro, ultimo lungometraggio di Pupi Avati, si propone di indagare il difficile
rapporto tra Padre e Figlio, un tema di straordinario interesse e sempre di grande attualità.
La morte improvvisa di Achille Bias, regista di film minori, è lo spunto per il figlio Davide a
riprendere in mano il rapporto non risolto con il genitore. Attraverso le informazioni dello
studente che sta preparando la tesi sul regista e i racconti di due comparse abituali dei film
del padre, Davide inizia a riscoprire indirettamente il genitore perduto. Con la statuina
inviata da Achille al figlio poco prima di morire, il film è nella giusta direzione e attraverso
la scrittura del libro vissuta come momento catartico e i gesti di rabbia violenta per le
strade della città, Davide avrebbe finalmente potuto liberarsi dalle angosce di un rapporto
non vissuto e dal dolore di un affetto mancato; e in uno slancio di immenso amore per la
figura paterna riscoperta, regala al padre quella gloria e notorietà, tanto da lui agognate in
vita, quanto probabilmente non meritate.
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Un Ragazzo d’oro, ultimo lungometraggio di Pupi Avati, si propone di indagare il difficile
rapporto tra Padre e Figlio, un tema di straordinario interesse e sempre di grande attualità.
La morte improvvisa di Achille Bias, regista di film minori, è lo spunto per il figlio Davide a
riprendere in mano il rapporto non risolto con il genitore. Attraverso le informazioni dello
studente che sta preparando la tesi sul regista e i racconti di due comparse abituali dei film
del padre, Davide inizia a riscoprire indirettamente il genitore perduto. Con la statuina
inviata da Achille al figlio poco prima di morire, il film è nella giusta direzione e attraverso
la scrittura del libro vissuta come momento catartico e i gesti di rabbia violenta per le
strade della città, Davide avrebbe finalmente potuto liberarsi dalle angosce di un rapporto
non vissuto e dal dolore di un affetto mancato; e in uno slancio di immenso amore per la
figura paterna riscoperta, regala al padre quella gloria e notorietà, tanto da lui agognate in
vita, quanto probabilmente non meritate. Ma, a questo punto, la trama inspiegabilmente
cambia rotta e il protagonista, in preda alla follia, si perde in una improbabile
identificazione patologica con la figura paterna, portando la sceneggiatura fuori tema. Il
tema della follia sembra veramente non c’entrare nulla e indebolisce il soggetto principale
che rimane sostanzialmente inespresso ad un livello di superficie. L’intensità emotiva sale
fino a metà del primo tempo, per poi spegnersi irrimediabilmente nella banalità di alcune
battute con il personaggio della Stone, sempre affascinante ma uccisa da un doppiaggio
molto modesto. Avati in questo film non convince, affronta un tema di importanza critica
senza scavare in profondità; manca il bersaglio delle emozioni, intristisce senza
commuovere.
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