Tre manifesti a Ebbing, Missouri

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Un film di Martin McDonagh. Con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Abbie Cornish.
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Titolo originale Three Billboards Outside Ebbing, Missouri. Thriller, Ratings: Kids+13, durata 115 min. - USA, Gran Bretagna 2017. - 20th Century Fox Italia uscita giovedì 11 gennaio 2018. MYMONETRO Tre manifesti a Ebbing, Missouri * * * 1/2 - valutazione media: 3,88 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Il potere delle parole nell'oblio della verità

di LucaScarcello


Feedback: 10
giovedì 18 gennaio 2018

La ribellione necessaria al cambiamento della morale, la ferocia necessaria alla memoria di un segno indelebile, il sense of humour necessario a non cedere al dolore e ai rimpianti. In questa nuova e sconvolgente storia, fuoriuscita dalla straordinaria penna del commediografo e sceneggiatore britannico Martin McDonagh, ci sono tutti gli ingredienti “necessari” a confezionare un’opera cinematografica che arrivi a toccare l’anima di ogni spettatore. Lo spettatore che vuole l’azione e l’adrenalina di un poliziesco - lo spettatore che desidera la quiete di una commedia scanzonata - lo spettatore che brama la profondità di un dramma familiare in cui immedesimarsi - e lo spettatore che esige una morale sociale da legare agli avvenimenti dei nostri tempi. C’è veramente tutto questa volta.
Dopo l’ottimo esordio alla regia con altre due commedie noir: il cruento In Bruges - La coscienza dell'assassino (2008), di puro stampo britannico, ed il folle 7 psicopatici (2012), dalle dinamiche tipicamente Tarantiniane; il pluripremiato autore teatrale McDonagh riesce a confezionare il perfetto racconto di una piccola umanità di provincia che lotta per restare a galla costantemente in bilico tra bene e male, tra giusto e sbagliato, con personaggi che rivelano come in fondo ad ogni buono si celi un cattivo e viceversa. Un film sul potere delle parole che sradicano l’immobilismo e l’inettitudine delle istituzioni, e l’arretratezza della [non] cultura dell’odio e dell’intolleranza tipica dell’America profonda. Quell’America, Trumpiana e xenofoba, che resta saldamente ancorata ai principi degeneri del passato: l’autorità dell’uomo rude che comanda - l’avversione contro ogni forma di diversità - il moralismo della chiesa che occulta la verità - l’inferiorità mentale della donna in quanto tale - la spettacolarizzazione della vita privata attraverso i media - l’omertà delle masse difronte alle ingiustizie. Denunciare, affrontare, porre delle domande, è questa la chiave di svolta che l’autore mette in mano alla sua protagonista, e che il pubblico dovrebbe imparare a far propria nella sua quotidianità.
E che protagonista! La superba Frances McDormand, già premio Oscar in Fargo, e vincitrice questa volta di un Golden Globe come miglior attrice protagonista; interpreta con profonda empatia il personaggio di Mildred Hayes, una donna forte e determinata, che non sorride mai, che veste una tuta da lavoro alla Michael Myers e cammina minacciosa come Clint Eastwood. Ella dovrà lottare per scoprire la verità sulla terribile morte della sua giovane figlia Angela, un fatto di cronaca nera (che ricorda Twin Peaks) di quelli che sconvolgono le piccole comunità, ma al quale ben presto ci si abitua smettendo di indagare o semplicemente di chiedersi il perché. Siamo a Ebbing nel Missouri, una cittadina tranquilla (se escludiamo la “normalità” delle violenze sui neri e sui chierichetti) che sembra isolata dal mondo ed è felice di esserlo.
Un giorno Mildred, dopo lunghi mesi di mancate notizie sul caso della figlia stuprata e uccisa proprio fuori città, da qualcuno di introvabile, ha l’idea di affittare tre vecchi cartelloni pubblicitari in disuso per mandare messaggi provocatori a coloro che dovrebbero fare il loro mestiere di investigatori. Lo sceriffo Willoughby, rispettato dalla comunità e interpretato da Woody Harrelson, e il suo vice Dixon, un irascibile idiota e mammone che ha il volto di Sam Rockwell.
Questa “idea geniale”, che avrà solo in parte l’effetto sperato, è il motore scatenante di una serie di assurdi avvenimenti che porteranno altro dolore nella vita di Mildred e della sua cittadina, ma soprattutto faranno venire a galla tante verità sulla reale natura delle persone che la abitano. Gente abituata a giudicare il prossimo e ad addossare le colpe sui più deboli; a girarsi dall’altra parte quando avviene un’ingiustizia e a preoccuparsi solo di ciò che avviene nel proprio orticello. Lo stesso titolo originale “Three billboards outside Ebbing, Missouri” lascia meglio intendere che se un’oscura verità come un omicidio, o le dure parole sui manifesti di protesta, prendono luogo “fuori” dal perimetro della città, non possono intaccare l’apparente rispettabilità del suo microcosmo. Questo concetto di chiusura mentale e di ostinata cecità è sottolineato dalle parole dello stesso sceriffo il quale, irritato dall’iniziativa della donna, le fa notare che i manifesti sono posizionati lungo una vecchia strada periferica che nessuno percorre più e che quindi nessuno li avrebbe mai visti a meno che non si fosse perso. Si farà di tutto per impedire il diffondersi della protesta e delle azioni riprovevoli da essa scaturite, ma la verità è che lei non ha violato nessuna legge, e continua quindi ad agire nell’assoluta sicurezza del suo diritto alla libertà di parola, diritto per altro sancito dal 1° emendamento della costituzione americana ma troppo spesso violato dall’autorità di un sistema conservatore.
Ciò nonostante l’ostinata determinazione di Mildred (tradotta egregiamente dalla marmorea espressione della McDormand) la spinge a continuare la sua lotta solitaria, consapevole di mettersi tutti contro: i semplici concittadini di cui potrebbe fare a meno, ma anche le persone che le vogliono bene, come ad esempio Robbie, l’altro figlio che vive ancora con lei e che subisce lo scherno dei suoi compagni per colpa della madre. Questo timido ragazzo, che in fondo ama sua madre ed ha sempre saputo scherzare con lei prima del triste episodio, è ora l’unico capace di farle notare quanto sia sbagliato oltrepassare il limite del comune senso di giustizia per ottenere quella che in fondo è solo la risposta al suo infinito dolore. Sono questi i momenti in cui vediamo crollare l’irremovibile durezza di questa donna (abbandonata dal marito) che comprende il suo senso d’impotenza ed è costretta a convivere col rimorso di non aver protetto sua figlia. Le micro sfumature emozionali che leggiamo nella mimica facciale della sua splendida interprete sono poi il guizzo artistico che dona ancor più potenza a dei dialoghi così ben costruiti.
Ma non dimentichiamo la pungente ironia e le gag di pura comicità che condiscono la vicenda allo scopo di ammorbidire quel senso di angoscia di fondo che rimane sempre presente, e di ridicolizzare le figure che rappresentano i principi di arretratezza sopra citati. Si ride moltissimo grazie al sarcasmo e alla costruzione dei caratteri. In questo McDonagh non ha nulla da invidiare (anche se gli deve molto) allo stile ironico di Quentin Tarantino o dei fratelli Coen.
Uno stile che unisce il noir alla commedia lasciando spazio all’intervento di altri infiniti linguaggi all’interno del racconto. Ed è proprio questo il pregio del film, mescolare i generi in assoluto equilibrio per dar vita a qualcosa che dia il senso di novità pur trattando tematiche classiche come: il dolore della perdita, la ricerca della giustizia, la preservazione dell’amore. Già, l’amore. Un sentimento apparentemente assente in tutti i personaggi di questa strana cittadina, la cui importanza viene però ricordata proprio da colui che non ti aspetti: il macho sceriffo Willoughby. Questo garante dell’ordine su cui gravano tutte le responsabilità, compresa l’inefficienza delle indagini, possiede una profondità d’animo che va oltre le apparenze, e nasconde un segreto che darà vita ad interessantissime svolte sentimentali, provocando negli altri quei cambiamenti morali che crederesti di non vedere mai fino alla fine del film. Il suo rapporto con l’agente Dixon, fatto di fraterna protezione prima, e di paterno insegnamento dopo, è la prova di qualcosa di buono che si nasconde nella figura dei cattivi. Anche qui un grande plauso va alla recitazione di Harrelson e Rockwell sempre bilanciata tra ironia e durezza.
Equilibrio e bilanciamento dunque, tra i perni fondamentali per il funzionamento di questa altalena emozionale che non rischia mai di rompere le catene della credibilità narrativa e del gusto estetico raffinato. Una regia pacata e mai ostentata, scevra da virtuosismi e artifici tecnici al punto di sacrificarne la firma riconoscibile, fa sì che non ci si distragga da ciò che è il filo di una storia comunque in cerca di risoluzione fino al finale significativo, mai però intricata ed impegnativa come il più classico dei gialli che mette alla prova anche le capacità investigative di noi spettatori. Qui non si tratta più di indagare, come vorrebbe Mildred, ma di dare un senso al dolore e alla violenza che viviamo quotidianamente, cercando di rimanere su quella che consideriamo la retta via, anche quando scopriamo il nostro lato oscuro.
Le strade, costantemente percorse in auto dalla protagonista che vive appunto fuori città per non dire “fuori dal coro”, costituiscono gran parte delle inquadrature che il regista vuole privilegiare, forse per trasmetterci quel senso di distanza emotiva di cui lei ha bisogno, o forse per raccontare le lunghe distese di “nulla” tipiche degli stati centrali americani spesso prolifici di esplosioni di violenza e follia. Quest’ottica aperta su un luogo che tutto sommato trasmette claustrofobia (non vediamo mai oltre la sua casa), dà modo inoltre alla bellissima fotografia di illuminare paesaggi sconfinati e prospettive allungate su cui i tre manifesti dominano come guardiani solenni della libertà. Ma è il montaggio (forse) insieme alla sceneggiatura, la vera arma di rivoluzione stilistica che permette il miracolo della percezione temporale alterata. Ciò significa che dopo la prima ora di visione siamo già stati travolti da tanti di quegli avvenimenti importanti e cambi di direzione inaspettati, per i quali generalmente sono necessari lunghi atti di costruzione di dettagli e di riempimenti rassicuranti, che ci si ritrova a pensare: in fondo, potrebbe anche finire qui! Si va lenti quando serve approfondire gli aspetti drammatici e introspettivi, e si accellera quando si vuole sbattere in faccia allo spettatore tutta la semplicità disarmante che è alla base del soggetto. Niente fronzoli o sovrastrutture che seguano gli standard finora dettati dalla cinematografia mainstream, ma piuttosto quell’anarchica rappresentazione dell’assurdo che generalmente troviamo solo nel cinema così detto “indipendente”.
Un film che, a differenza della sua esplicita collocazione geografica (come evidenziato da titolo e locandina), non ha una vera e propria collocazione temporale, tuttavia risulta essere l’esatta riproduzione dei tempi odierni per quanto riguarda i sottotesti di denuncia sociale che alludono alla contemporaneità. Come altri film di questo periodo (Scappa - Get Out ) arriva proprio al momento giusto, e sembra voler lanciare un messaggio a quella sostanziosa fetta di americani rimpinzati di orgoglio patrio al punto di rimpiangere la vita di cento anni fa. E fa proprio sorridere il fatto che a saper dipingere così bene l’anima di un luogo e di un popolo, sia in realtà un inglese proveniente da tutt’altra cultura. Lo stesso inglese che, dopo aver dominato i Golden Globe portandosi a casa ben 4 premi, vedremo quasi sicuramente dominare anche la kermesse degli Oscar 2018, che è un altro baluardo del dominio americano sullo showbiz internazionale. Sarebbero meritatissimi il premio alla migliore sceneggiatura originale, quello alla miglior attrice protagonista, e perché no anche quello al miglior film; se non altro vista l’assenza di competitor di valore in quella che è stata una stagione cinematografica abbastanza avara di capolavori.
Non vi resta quindi che scoprire questo meraviglioso esempio di CINEMA, da cui molti dovrebbero imparare, e a cui molti saranno debitori in futuro per l’innovazione che come sempre col tempo si trasforma in ciò che intendiamo come “classico”.

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